I TRE CIECHI DI COMPI�GNE [abstract] I ciechi nel Medioevo e Rinascimento risultano pi� attivamente inseriti nella societ� di quanto lo saranno nel Seicento [fine abstract] Nando Maurelli In un fabliau francese del XIV secolo, Courtebarbe racconta la storia di tre ciechi gabbati da un chierico, che per noi costituisce uno spaccato di vita vissuta dai privi della vista nel Medioevo, di notevole interesse, perch� grazie a racconti come questi possiamo renderci conto della rappresentazione collettiva che gli uomini dell'et� di mezzo avevano di questa diversit�. Dunque, tre ciechi assai poveramente vestiti e male in arnese, partono da Compi�gne per recarsi a Senlis. Hanno con s� ciascuno una gamella, con la quale chiedere l'elemosina e forse per mangiarvi, ma, non hanno nessun accompagnatore che li guidi. Sono "heureux, joyeux et gais" dice Courtebarbe, ovvero felici, contenti e gai. Non viene detto come si guadagnassero da vivere; essi per� si spostavano da una citt� all'altra senza molte preoccupazioni e da soli. Probabilmente era consuetudine che la gente in qualche modo li aiutasse dando loro elemosina e aiuto per recarsi dove volevano. Appena usciti da Compi�gne i tre ciechi incontrano un chierico; questi viaggiava a cavallo ed era accompagnato da un servitore; la sua posizione era buona, ma aveva tuttavia la fama di essere capace di fare tanto bene, ma anche un gran male. Non appena il chierico vede i tre ciechi ecco scatenarsi in lui sentimenti contrastanti che lo inducono a tirare loro un brutto tiro. Non appena gli sono a portata di voce li chiama e quando i tre gli stanno attorno dice loro: - Ecco per voi una bella moneta d'oro, prendete. - E senza dare loro nulla li congeda. I ciechi ringraziano e lieti di tanta generosit� riprendono il cammino. Fatta un po' di strada, quello che faceva da capo si ferma e sottopone ai suoi amici un piano: quello di ritornare a Compi�gne, spendere il danaro in bagordi e poi riprendere il viaggio. La proposta � accolta con entusiasmo e i tre tornano indietro. Attraversato di nuovo il ponte, si infilano nella citt� alla ricerca di un luogo dove mettere in atto il loro piano. I ciechi, dunque, almeno quelli di cui Courtebarbe ha esperienza si muovono in piena libert�, e non sembrano affatto impediti nell'andare e venire da un luogo all'altro, n� li spaventa la citt� il suo trambusto, N� il traffico che nelle strette vie doveva costituire un pericolo non solo per essi, n� le barriere architettoniche che a quei tempi, forse meno numerose di oggi, erano sempre pericolose, pur se meno impreviste. Di fatto nelle gremite viuzze, c'era sempre una mano che indirizzava i tre viandanti l� dove chiedevano di andare. I ciechi entrano dunque in una locanda. L'oste, non mette in dubbio, come dice l'autore, le parole di quei "dr�les", come vengono definiti, ovvero curiosi personaggi, ma per qualche verso interessanti e simpatici, dato che questa parola non ha una connotazione del tutto negativa. Egli non si mostra diffidente, perch� probabilmente non � raro che gente cos� abbia soldi da spendere. Dunque i ciechi si danno alla pazza gioia; ma insieme a loro, per vedere come se la cavano, c'� il chierico, che pranza e cena in quella stessa locanda. I ciechi, secondo l'autore, assai sciolti e come tutti gli altri se la godono; si servono l'un l'altro da bere e da mangiare felici e contenti. Questo servirsi reciprocamente, messo in evidenza dal favolista � interessante; i ciechi mostrano uno spirito di corpo e di solidale generosit�; si passano le vivande e da bere e si incoraggiano, diversamente, forse, da combriccole di vedenti che nel mangiare sono concentrati talvolta sulla loro pietanza e schivi nell'offrire qualcosa al vicino commensale. Trascorsa la giornata e la notte, arriva anche l'ora del conto e l'oste trova che il chierico ha speso molto meno dei tre ciechi. Quindi d� al cameriere l'ordine di andare a prendere il danaro dai suoi ospiti. Qui per� cominciano i guai, perch� nessuno dei tre ha la moneta d'oro che il chierico sembrava avere regalato. Di fatto, pur non essendo stata data a nessuno, i ciechi erano convinti che l'avesse invece presa uno di loro; e perch� questi la tirasse fuori, presero a litigare e convinto ognuno di non essere gabbato dai compari, non la finivano pi�. L'oste, che non aveva pazienza, senza indugiare troppo prese a menare le mani e dopo aver colpito il primo, manda il suo garzone a prendere i bastoni per picchiare ben bene tutti e tre i mascalzoni. Il chierico, presente alla scena se la ride e se la spassa proprio soddisfatto del suo bel tiro, ma nel momento in cui sta per accadere l'irreparabile, si avvicina all'oste e chiede spiegazioni di tutto quel trambusto. Quello racconta la faccenda. Il chierico veduta la determinazione a rivalersi su quegli avventori a suon di legnate, chiede cortesemente all'uomo di soprassedere perch� il conto lo pagher� lui. - Non sta bene, aggiunge, tormentare dei poveretti - Ecco nelle parole del chierico farsi evidente l'ambiguo, anzi contraddittorio atteggiamento del tempo nei confronti della minorazione visiva. Dall'inganno passa alla derisione e poi alla pena. L'oste desiste dal suo piano e i tre ciechi se ne vanno illesi. Il chierico, che � proprio un vero burlone, dopo aver gabbato i ciechi vuole gabbare anche l'oste e lo tira in una curiosa situazione. Lo porta in chiesa dove trova che il prete sta per dire messa; qui allora dice all'oste che i soldi glieli dar� il prete dopo aver celebrato la santa messa. Detto questo, il chierico si avvicina al prete e, a voce bassa, invece di dirgli dei soldi gli racconta che l'oste � divenuto improvvisamente pazzo e che bisogna assolutamente esorcizzarlo. Tornato dall'oste il chierico lo invita ad aspettare che il prete finisca di dire la messa. Finita la celebrazione il prete si prepara immediatamente al rito per esorcizzare il nuovo venuto. Questi, naturalmente, fattosi presso il prete prende a reclamare i suoi soldi, ma il parroco non sta neppure a sentirlo e presolo da una parte comincia la cerimonia. L'oste che non capisce, imperversa e comincia a gridare, ma pi� grida pi� il prete si convince che il suo uomo � pazzo. La confusione � tale che il celebrante si trova costretto a chiedere aiuto a qualche parrocchiano per tenere fermo il povero malcapitato. L'oste finalmente si placa quando capisce d'essere stato gabbato e rassegnato torna mogio mogio al suo lavoro, sapendo che ormai i suoi uomini sono lontani. Questa storia � per noi una importante testimonianza, perch� viene colto con grande evidenza un fatto di costume che rivela un modo particolare di rapportarsi con due forme di handicap, la cecit� e la follia. Rispetto alla prima si coglie nella cultura del tempo il senso della diversit� misto tuttavia ad elementi che fanno pensare a processi di integrazione sociale, che assimilano i ciechi a persone in grado di gestire le proprie condotte alla stregua di quelle di tutti, fino al punto da renderli passibili di una lezione, che l'oste avrebbe dato a chiunque altro non avesse pagato il conto. Per quanto riguarda la seconda, la follia, gli uomini del medioevo e del rinascimento, fino alla Controriforma, si comportavano con grande cautela e con una sorta di rispetto; il folle per non essere pi� nella normalit� veniva posto quasi in una sfera sacrale; poteva essere un posseduto, allora esprimeva e manifestava volont� ritenute diverse e indipendenti dalla sua; se invece era fuori di s� e in preda ad una alienazione, il mistero di questa estraneit� incuteva rispetto. Il pazzo, nel nostro caso l'oste, non viene n� cacciato, n� percosso, sia quando esprime la sua intenzione di chiedere danaro, n� quando intende assalire il prete. Viene tenuto fermo fin quando non sia stato compiuto il rito. Al contrario la cecit� non sembra impressionare nessuno. Noi non rileviamo nessuna piet� o commiserazione particolare. I tre ciechi, come qualsiasi altro, quando vengono trovati in difetto sono impietosamente colpiti Nel fabliau essi sono oggetto di una burla che non sembra volgersi n� in ludibrio, n� in scherno, quando vengono liberati dalle impietose mani dell'oste. Sono soggetti portatori di una diversa abilit�, per dirla in termini correnti, che non impedisce loro di condurre una vita interattiva e che non sembra presentare caratteri di eccezionalit�. Questo la dice lunga sui ciechi: miseri o agiati che fossero, essi non erano, come s'� detto, n� segregati, n� emarginati come lo saranno a partire dal Seicento, quando la controriforma porr� fuori della norma il diverso limitando in lui in questo modo, anzi arrestando, ogni processo di sviluppo e di integrazione. Nando Maurelli