Gennaio 2017 n. 1 Anno XLVII MINIMONDO Periodico mensile per i giovani Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registrazione 25-11-1971 n. 202 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Copia in omaggio Indice Il velo... svelato Piaci se ti piaci Come andavamo al cinema Il litio ci d� la carica Marsiglia la scontrosa Fabio Cannavaro: un italiano campione del mondo e il calcio sotto la Grande Muraglia George Michael: addio a un mito del pop Il velo... svelato (di Anna Magli, "Focus Storia" n. 122/16) - Non � un'esclusiva dell'islam. L'obbligo per le donne di uscire a testa coperta esisteva nell'antichit� classica. E appartiene anche alla cultura cristiana - Il velo imposto alle donne, che tanto fa discutere, non � un'invenzione n� un'esclusiva dell'islam, come molti credono. La prescrizione del capo coperto ha radici anche nella civilt� occidentale: la Bibbia, per esempio, ne parla nel Cantico dei Cantici. Solo che, nella nostra cultura, con il passare del tempo il velo si � trasformato da simbolo di sottomissione e di pudore ad accessorio elegante. E cos� abbiamo dimenticato che per secoli ha fatto parte della cultura greca, romana, ebraica e cristiana. Nel mondo antico il capo coperto contraddistingueva le donne sposate. Tra gli Assiri non avevano il diritto di velarsi le prostitute, le schiave e le giovani non ancora sposate. E nell'antica Grecia una donna che usciva a testa scoperta veniva considerata sessualmente disponibile. Le romane fuori casa indossavano la palliola o la rica, lunghi veli poggiati sui capelli. Sia a Roma sia in Grecia indossare il velo faceva parte del rito del matrimonio. E proprio come simbolo di castit�, pudore e sottomissione al marito l'obbligo di coprirsi il capo si estese anche al cristianesimo. Lo spiega Maria Giuseppina Muzzarelli, docente di Storia Medioevale e di Storia del Costume e della Moda all'Universit� di Bologna e autrice del saggio A capo coperto. Storie di donne e di veli (Il Mulino). "Molte donne", dice la studiosa, "per secoli hanno portato il velo senza essere di fede islamica. Anzi, essendo cristiane e proprio perch� tali". Il primo a parlare del dovere delle donne cristiane di non mostrarsi a testa scoperta, come segno di modestia e sottomissione all'uomo, fu san Paolo in una delle lettere ai Corinzi. Dopo di lui Tertulliano, uno dei padri della Chiesa, invoc� il velo sia per le vergini sia per le mogli: "Vela il tuo capo, rivesti l'armatura del pudore, innalza un muro al tuo sesso". Ma verso la fine del Medioevo, il precetto fu aggirato da nobili e popolane che, con abilit� e ingegno, trasformarono quell'accessorio in uno strumento di seduzione. E in un grosso affare. L'industria dei veli (e dei copricapi da donna in genere) era prevalentemente in mani femminili: in tutta Europa botteghe di filatrici e ricamatrici producevano e commercializzavano i veli. Laboratori gestiti da donne sorsero a Bologna, Perugia, Firenze e Milano. Dato che gli statuti dei tessitori di seta proibivano all'altra met� del cielo di iscriversi alla loro corporazione, le artigiane aderirono a quella dei "merzadri", di cui facevano parte i fabbricanti di corde e veli in cotone, assicurandosi l'esclusiva della produzione di tutto il settore. Cos�, grazie all'iscrizione in quei registri, i nomi di alcune modiste medioevali sono giunti sino a noi, mentre quelli dei loro "colleghi" non si conoscono. Libere di sbizzarrirsi, le donne stavano per� trasformando il velo in un accessorio mondano. Cos�, si stabilirono regole ben definite a seconda della categoria sociale di chi lo indossava. Nel 1360 a Bologna, per esempio, fu vietato alle donne indossare cappucci, ma anche corone con strisce d'oro e d'argento, perle e veli preziosi. Naturalmente c'erano deroghe, per dame di nobili e dottori. Il velo fu allora usato come elemento dell'acconciatura. Il "coazzone", che prevedeva che i capelli fossero raccolti in trecce e coperti con il velo, perle o cordoncini, fu vietato alle prostitute, perch� era riservato alle donne "per bene". A Faenza, all'inizio del 1400, le meretrici dovevano indossare un semplice velo e avere un canestro in mano. A Reggio Emilia, era loro destinato un velo giallo, pena pagamento di una multa. A Citt� di Castello, invece, erano le donne ebree a dover indossare un sottile velo giallo. Per chi invece poteva scegliere come coprirsi il capo, il velo fin� per diventare tutto il contrario di quello che era stato in origine: avrebbe dovuto coprire, ma attraeva gli sguardi, avrebbe dovuto nascondere, ma invece mostrava. I preziosi veli-copricapo rinascimentali sono arrivati fino a noi grazie alle Madonne di Botticelli e Tiziano, le cui modelle erano donne nobili, cos� come i ritratti femminili dei pittori fiamminghi. Nei quadri di questi grandi artisti � tutto un tripudio di veli, ghirlande, coni, coroncine e berretti, tanto che Cesare Vecellio, cugino di Tiziano, alla fine del 1500 individu� tra le donne veneziane fino a 25 diverse velature del capo. Cos�, di velo in velo, si arriv� al '700. Cio� al secolo in cui la regina di Francia Maria Antonietta, attraverso la modista Rose Bertin, impose l'usanza di copricapi complicatissimi e decret� il personale successo della propria sarta, che divenne una figura potente alla corte di Versailles. Al punto che le sue creazioni cominciarono a essere esportate a Vienna, Londra, Venezia e San Pietroburgo. Il capo coperto sopravvisse nella cultura popolare, in quasi tutto l'Occidente, come tradizione, anche se perse significati morali o religiosi. "Nell'800 e per gran parte del '900, in Italia e altrove, nessuna donna usciva a capo scoperto", continua Muzzarelli. "Se nelle campagne si portava il fazzoletto, sia in casa sia fuori, in citt� ogni donna, di qualsiasi estrazione, indossava un cappello con o senza veletta, con declinazioni di foggia e materiali secondo lo status sociale di chi lo indossava". Quando le nostre nonne uscivano con il fazzoletto, o quando le donne in chiesa portavano il velo sui capelli (lo prescriveva il Codice di diritto canonico del 1917), nessuno ormai pi� lo collegava a un atto di sudditanza: si trattava di una consolidata tradizione. Antiche usanze che oggi i pi� giovani ignorano e molti hanno dimenticato. Il capo coperto, in Occidente, sopravvisse fino al Dopoguerra. Cio� fin quando si afferm� la moda del foulard, negli Anni '50. Questa variante del velo, indossato da celebrit� come Jacqueline Kennedy, Audrey Hepburn e Grace Kelly, in realt� aveva poco a che fare con i "fazzoletti" delle nonne: era un accessorio di lusso, griffatissimo, che liberava le donne pi� indipendenti dall'obbligo del cappello. Ma gi� nel 1963 Vogue rilevava che anche il foulard stava abbandonando la testa delle signore, per sistemarsi attorno al loro collo. E c'� chi il velo lo sceglie per sempre Nella Palestina di 2-mila anni fa le donne portavano sempre un lungo velo: l'esempio pi� classico � quello della Vergine Maria. Le monache fin dalle origini nell'Alto Medioevo, "prendevano" il velo: nel momento in cui consacravano la loro vita a Dio dovevano portare un abito imposto, uguale per tutte le sorelle dell'Ordine, tagliarsi i capelli e indossare un panno che scendeva fino sotto le spalle. Anche oggi, tra monache e suore il velo varia a seconda di Ordini e funzioni. Ma viene portato da tutte le religiose perch� � il simbolo del matrimonio con Cristo. Non solo. La monaca, votata alla verginit� e "sposa di Cristo", con il pesante velo si sottrae allo sguardo degli uomini. Il velo in questo caso � una scelta e un accessorio sacro che le suore baciano ogni volta che lo mettono e lo tolgono. Anticamente era di colore rosso, a significare che la ragazza era stata riscattata dal sangue dello sposo, cio� Cristo. Oggi invece � quasi sempre di colore nero o grigio. Piaci se ti piaci (di Camilla Ghilardato, "Focus" n. 281/16) - Non sar� il passepartout per la felicit�, ma l'autostima rende tutto pi� facile. E per incrementarla basta l'altruismo - Da Calimero, cui le cose andavano storte perch�, diceva, "sono piccolo e nero", a Ibrahimovic, cos� pieno di s� da dichiarare di volersi presentare alla nuova squadra con un lapidario: "Io sono Zlatan. E voi chi diavolo siete?", la strada � lunga. A rendere questi personaggi cos� diversi � quel valore impalpabile che gli esperti chiamano autostima. Il primo a intercettarla fu lo psicologo-filosofo americano William James che, alla fine dell'Ottocento, la identific� come il rapporto che esiste tra ci� che si pensa di essere (il s� percepito) e ci� che si vorrebbe essere (il s� ideale). Una sorta di voto che ognuno di noi si d� tenuto conto delle proprie aspettative. Secondo Maria Miceli, ricercatrice all'Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Cnr, "l'autostima �, prima ancora che un giudizio sintetico su di s�, una sensazione di (non) avere valore, di (non) meritare attenzione, considerazione, rispetto". Ma da dove nasce? E che peso ha sulla nostra vita? La fiducia in se stessi si costruisce con le prime esperienze infantili in famiglia. "Dipende da quanto il bambino si � sentito benvoluto oppure rifiutato o trascurato", spiega Miceli. Questa "pagellina" di noi stessi ha dunque radici antiche ma anche coordinate particolari, soprattutto di ordine geografico. "Siamo noi occidentali, attraverso la psicologia, ad averne fatto un concetto cardine della personalit� e a caricare l'autostima di importanz", spiega l'antropologa Alessandra Guigoni. In questi ultimi anni, per�, il peso dell'autostima � stato ridimensionato. "Cura per il corpo, grande attenzione all'apparenza, guerra senza quartiere alla tristezza sono stati per decenni imperativi quotidiani, superficiali rappresentazioni dell'uomo (e della donna) di successo che non contemplano nessun cedimento o deboezza. Ma ora le cose stanno cambiando e si � capito che la capacit� di soffrire dei propri errori, accettare la sconfitta, immergersi nella tristezza per uscirne rinnovati sono bussole fondamentali per il nostro equilibrio", sostiene Carlo Alfredo Clerici, ricercatore in psicologia generale all'Universit� degli Studi di Milano. Insomma, l'autostima � un ingrediente che rende piena la nostra esistenza solo se autentica e con buone fondamenta: con questi presupposti ci sentiremo padroni della nostra vita, pronti a superare anche gli inevitabili fallimenti. Ma aldil� dell'importanza che possiamo attribuirle, la curiosit� resta: quando nasce questa percezione-valutazione di s�? Ebbene, i pi� fortunati ce l'hanno da sempre, perch� scritta nel Dna. Perlomeno � questa la conclusione di uno studio coordinato da diverse istituzioni (come il Registro Nazionale Gemelli e i dipartimenti di Psicologia delle Universit� La Sapienza, Milano Bicocca, e l'Universit� di Stanford) che ha coinvolto circa 500 coppie di gemelli, monozigoti e dizigoti. Uno dei risultati dello studio riguarda la possibilit� di ereditare alcuni tratti della personalit�. Ebbene, l'autostima � influenzata da fattori genetici nel 73% dei casi. Un dato incredibile, che inviterebbe a buttare al rogo libri e manuali sull'argomento: un enorme fal� visto che solo su Amazon si contano pi� di 140-mila titoli! Ma che sia scritta o meno nei geni, l'autostima � un fiore delicato che va coltivato con cura. E fin dall'infanzia. I primi a essere chiamati in causa sono ovviamente i genitori, i quali devono stimolare l'autonomia e gratificare i successi dei piccoli. "Un genitore rassicurante", precisa Miceli, "non va confuso con uno iperprotettivo: d� fiducia al figlio, � disposto ad affidargli delle responsabilit�, ma non � cieco di fronte ai suoi errori e fallimenti. E non fa dipendere l'affetto dalla stima". Molti genitori, grazie anche alla centralit� che � attribuita nella nostra epoca all'autostima, sono gi� molto attenti a infondere fiducia ai propri figli. Ma non si rischia, cos�, di allevare piccoli tiranni dall'ego extralarge? Forse no. "Narcisisti e prepotenti i ragazzi lo diventano per ragioni complesse. L'importante � che i genitori evitino di manipolarli e valorizzino quanto c'� in loro di buono, anche se il bambino non risponde alle aspettative", spiega Cesare Albasi, docente di psicologia all'Universit� di Torino. Uno studio del 2015 (pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology) ha messo sotto osservazione per 10 anni un panel impressionante di persone (quasi un milione) e ha scoperto che l'autostima tende a crescere con l'et�, facendo un salto dall'adolescenza all'et� adulta. Altro importante dato emerso dallo studio � che i maschi hanno un livello di autostima pi� alto rispetto alle femmine. Gap che si mantiene costante nelle varie fasi della vita. I motivi, se di origine culturale o fisiologica, non sono chiari. Commenta Silvio Crosera, psicoterapeuta: "A differenza degli uomini le donne sono pi� abituate ad autoanalisi introspettive: guardarsi dentro significa anche mettersi in discussione. In un momento di crisi, la donna cerca di essere analitica mentre l'uomo spesso allontana il problema buttandosi in distrazioni". Atteggiamento che, alla fine, paga. Credere in se stessi indubbiamente facilita la vita. A cominciare dal rapporto di coppia. Quante volte abbiamo sentito il monito "se non ti ami, nessuno t'amer�"? Psicologia spiccia, certo, ma vera. "Infatti. Se volessimo delineare il profilo della coppia perfetta, avremmo due individui dotati ciascuno di un buon livello di autostima e assolutamente in asse con se stessi, cos� da non cercare nell'altro compensazione e sostegno", spiega Crosera. Nella fase iniziale l'autostima funziona da potente afrodisiaco: chi si piace � pi� seduttivo. Poi nella coppia rende il rapporto pi� appagante e meno ansiogeno, al netto di quell'insicurezza che genera gelosie o paura dell'abbandono. L'autostima � un balsamo anche per la nostra salute. Lo ha dimostrato una ricerca recente della Concordia University di Montreal: dopo i 60 anni chi si piace sta anche bene. Ma � nello studio e nel lavoro che la fiducia in s� viene considerata viatico per il successo. "Un'alta autostima favorisce due qualit� fondamentali: l'intraprendenza, perch� si � disposti a scommettere su se stessi, osando avventurarsi in imprese dall'esito incerto; e la tenacia, perch�, confidando nelle proprie risorse, non ci si arrende facilmente. Al contrario, chi ha una bassa autostima � meno ambizioso e pi� esposto all'insuccesso perch�, avvoltolato nelle sue inadeguatezze, tende a concentrarsi sui propri timori anzich� sul compito da svolgere. E finisce col rinunciare alle prime difficolt�", chiarisce Miceli. Ma c'� anche l'altra faccia della medaglia. La sicurezza in se stessi non protegge dai fallimenti, e chi si aspetta molto da s� pu� viverli in modo ancora pi� drammatico; inoltre pu� impedire di valutare lucidamente i propri errori; e, ancora, rende l'individuo meno interessato ai rapporti personali. In quest'ottica appare illuminante una ricerca condotta nel 2011 dall'Ohio State University. A un gruppo di studenti si chiese di valutare in che misura si fossero comportati con atteggiamento altruistico nei confronti del proprio compagno di stanza. Venne poi consegnato loro un questionario sulla fiducia in se stessi: chi si era comportato in modo altruistico aveva aumentato sia la propria autostima sia quella del coinquilino, mettendo in moto una sorta di circolo virtuoso in cui tutti ci avevano guadagnato. Insomma, la propria autostima e quella altrui si possono nutrire con la generosit�. Quale migliore notizia per chi sta ancora cercando la ricetta per vivere bene? Come andavamo al cinema (di Giuliana Rotondi, "Focus Storia" n. 122/16) - Oggi i film si guardano su tablet e smartphone. Una volta invece si andava al "cinematografo", sotto una tenda in campagna o nelle sale di citt� immerse nel fumo di sigaretta - Gli spettatori paganti in tutto erano trentatr�. Seduti nella stanza buia di una malfamata sala da biliardo parigina, assistevano a quella che gli storici considerano la prima proiezione pubblica col cinematografo. All'improvviso un raggio di luce usc� da un baldacchino di velluto rosso e colp� uno schermo. Poi fu "magia": per 50 secondi apparvero gli operai della fabbrica Lumi�re di Lione mentre uscivano dalle officine. Mai prima di quel momento si erano viste immagini muoversi con tanta precisione. Correva l'anno 1895 e la settima arte muoveva i suoi primi passi in una societ� in profonda trasformazione economica, culturale e tecnologica, dando vita a un nuovo intrattenimento: il cinema. Assistere alle proiezioni, nel giro di pochissimi anni, divenne un passatempo irrinunciabile, gradito a tutti i ceti sociali. Ma cosa significava esattamente andare al cinema in quegli anni? In principio voleva dire recarsi alle fiere di paese che ospitavano le prime proiezioni itineranti, sulla scia dei gi� noti giochi di luce proposti dalle "lanterne magiche". Si entrava in un tendone e si assisteva alla proiezione. Poi il tendone si smontava e la "sala cinematografica" spariva. Non ci volle molto per� perch� le immagini in movimento raggiungessero anche i teatri, intercettando cos� un pubblico pi� selezionato. "A un anno dalla prima esibizione francese del 1895, Vittorio Calcina, responsabile della filiale italiana della ditta Lumi�re a Torino, organizz� una proiezione al Palazzo degli Stemmi di via Po, invitando le pi� importanti personalit�", spiega Franco Prono, docente di storia e critica del cinema all'Universit� di Torino. "Al teatro dell'Opera di Roma, poco prima, c'era stata un'esibizione simile a cui venne abbinata anche una conferenza scientifica per spiegare al pubblico la nuova tecnologia. Conferenza alquanto noiosa, secondo un cronista del tempo. A differenza della proiezione, assolutamente affascinante". I primissimi film erano muti e duravano al massimo 10 minuti, ma gi� a partire dal 1910 un lungometraggio poteva durare 50 minuti. Questo significava che in sala regnava il silenzio per quasi un'ora? Niente affatto. Ad accompagnare la pellicola c'era di solito un'orchestrina che interpretava la colonna sonora (spesso composta appositamente). A volte c'era anche un uomo, di solito il gestore della sala, incaricato di leggere le didascalie agli spettatori, tra i quali c'erano molti analfabeti, e di spiegare alcune scene. Nelle sale pi� grandi c'erano vere orchestre e persino un coro sotto il palco o dietro lo schermo. "Le pellicole erano girate in bianco e nero, ma venivano successivamente colorate con tonalit� che viravano sul rosso nelle scene di amore e passione e sul blu nelle sequenze che simulavano la notte", aggiunge Franco Prono. "All'inizio venivano proiettate in vecchi teatri e in magazzini adattati. Ma c'erano anche spazi costruiti apposta: a inizio Novecento a Torino si apr� l'Ambrosio, una sala del muto inserita in un fastoso complesso che includeva anche un caff�, un ristorante, sala da ballo e da gioco. Tutto ovviamente in stile liberty. Invece nelle sale di periferia, ricavate in spazi di fortuna, con poche lire si poteva assistere a proiezioni di "serie B" che ogni pomeriggio e ogni sera ospitavano decine di spettatori". Negli anni Venti in Italia si cominciarono a costruire sale su larga scala, sull'onda degli ottimi ricavi e dell'impulso che il fascismo diede alla settima arte come strumento di propaganda. Ogni cinema aveva il suo stile e il suo pubblico: c'era quello che proiettava solo film western, musical, commedie o i primi kolossal storici. Alcune sale ospitavano le prime visioni; altre, come quelle delle parrocchie, seconde o terze. Le sale pi� belle avevano nomi altisonanti e insegne evocative: Lux, Eden, Aurora, Moderno. A Rimini c'era il Fulgor, reso immortale da Fellini e dalla signora Gradisca nel film Amarcord (1973). A 40 anni di distanza il regista lo ricordava ancora cos�: "Sotto lo schermo c'erano le pancacce. Poi uno steccato, come nelle stalle, divideva i "popolari" dai "distinti". Noi pagavamo undici soldi; dietro si pagava una lira e dieci" (cio� meno di un euro di oggi). Tanto i "distinti" che i "popolari" vicino alla cassa potevano trovare, entrando, un'ampolla in vetro trasparente con alcune caramelle, vendute al costo di 1 lira: la moda dei pop-corn si diffonder� in Italia solo a partire dagli anni Sessanta. Pagato il biglietto, tutti si sedevano. Chi non trovava posto stava in piedi o si metteva sugli scalini. Le norme di sicurezza ancora non c'erano. Il pubblico si disponeva secondo regole non scritte: i bambini sempre nelle prime file, a met� le coppie sposate, in fondo gli uomini soli. E il rito della visione era completamente diverso rispetto a oggi. Si poteva entrare in qualsiasi momento (non era obbligatorio l'ingresso prima dell'inizio della proiezione), poi si aspettava in sala che cominciasse il nuovo spettacolo e si recuperavano le scene perse. Il tutto in un'aria irrespirabile: il divieto di fumare fu introdotto soltanto nel 1975, seppure a lungo ignorato. Come ha raccontato la critica e scrittrice Maria Giulia Alemanno in occasione della mostra torinese "100 anni di cinema", "si apriva il sipario e nel grande cono di luce iniziava a fluttuare il fumo delle sigarette, accese in continua intermittenza come lucine del presepio. Fumavano gli uomini che per tutta la durata del film tenevano il cappello in testa come Humphrey Bogart, imbacuccati in cappotti pesanti. Fumavano i ragazzi della galleria, cercando di non farsi scoprire dai padri fumatori e fumavano le ragazze pi� emancipate, lanciando nel buio i primi messaggi di libert�. Era tutta una storia di fumo". I racconti di quegli anni sono numerosissimi. Italo Calvino rievoc� l'esperienza del cinematografo cos�: "Cinema vuol dire sedersi in mezzo a una platea di gente che sbuffa, ansima, sghignazza, succhia caramelle, ti disturba, entra, esce, magari legge le didascalie forte come al tempo del muto; il cinema � questa gente, pi� una storia che succede sullo schermo". Insomma, c'era parecchia confusione, ma il fascino di quel rito era enorme. E tale rimase fino agli anni Sessanta. Cio� fino a quando, con la diffusione della televisione prima e delle videocassette poi (per non parlare di dvd e film digitali), andare al cinema � progressivamente diventato uno dei tanti intrattenimenti a disposizione, ridimensionato nel suo ruolo e nel suo peso sociale. Anche le sale hanno cambiato pelle. Molti spazi hanno variato la loro destinazione d'uso: dove prima c'era un cinema oggi c'� un supermercato o un centro commerciale. E a centri commerciali somigliano i multisala. Eppure, assicurano i pi� ottimisti, a essere morto non � il cinema, ma soltanto la vecchia, romantica, sala cinematografica. Perch� i cinema avevano spesso gli stessi nomi? Lux, Astra, Radium, ma anche Moderno, Garibaldi, Piemonte: i nomi delle sale cinematografiche, le cui insegne luminose hanno rallegrato le piazze delle nostre citt� per decenni, erano tutti simili e seguivano mode particolari. Da un lato evocavano la luce, la tecnologia, la modernit�, dall'altro luoghi esotici. Comparvero cos� nomi evocativi come Paradiso, Splendor, Excelsior: cio� nomi capaci di far sognare a occhi aperti mettendo in bella vista le locandine di stelle del cinema italiano e internazionale. Ma ci furono anche altre ragioni dietro ai nomi delle sale italiane. Molti cinema furono costruiti durante il Ventennio fascista. Nel clima autarchico e nazionalista anche l'onomastica prefer� nomi legati alla geografia e alla storia patria. Nacquero cos� il Trieste e il Magenta a Brescia, il Roma a Bologna e il Brescia a Torino. Senza contare, in ordine sparso, i tanti Dante, Manzoni, Mazzini, Garibaldi, Don Bosco, Marconi, Verdi, Rossini, altrettanti omaggi alle nostre glorie nazionali. Il litio ci d� la carica (di Giovanna Camardo, "Focus" n. 284/16) - Fa funzionare telefoni e auto. Ed � sempre pi� richiesto, tanto che dovremo imparare a... riciclarlo - I pozzi della nuova benzina si trovano in uno dei deserti pi� aridi del pianeta. Non in qualche classico paesaggio mediorientale, ma in una piana coperta di sale a 2.300 m di altitudine, ai piedi delle Ande. Siamo in Cile, nel Salar de Atacama: uno sconfinato bacino dove si estrae un metallo che ci � diventato indispensabile, visto che senza di esso i nostri smartphone non squillerebbero. E che potrebbe anche far muovere l'auto che ci compreremo domani: non a caso � stato definito, appunto, la "nuova benzina". Stiamo parlando del litio. E dire che fino a non molti anni fa era un materiale dallo scarso appeal, diciamo, visto che era usato perlopi� nella produzione di vetro e ceramiche o grassi lubrificanti; i pi� ne avevano sentito parlare al massimo come antidepressivo. Oggi invece � il cuore energetico dei dispositivi che abbiamo sempre con noi. Tutto � cambiato con la diffusione delle batterie ricaricabili, fondamentali per telefonini, fotocamere, tablet. Un immenso mercato in cui si sono imposte le batterie agli ioni di litio. "Il litio permette infatti di immagazzinare grandi quantit� di energia in dispositivi piccoli e leggeri", ci spiega Francesco Vizza, dirigente di ricerca dell'Istituto di Chimica dei composti organometallici (Iccom) del Cnr. "Perch� non solo � il pi� leggero tra i metalli, ma � anche molto "attivo" dal punto di vista elettrochimico: ci� significa che nelle batterie ricaricabili cede elettroni - quindi ci fornisce corrente - molto velocemente e altrettanto rapidamente li recupera nella ricarica". Ecco spiegato perch� "oggi quasi tutte le batterie di cellulari e dispositivi portatili sono al litio". E perch� sta diventando sempre pi� prezioso: la previsione � che batterie agli ioni di litio alimenteranno non solo i nostri gadget, ma sempre pi� le nostre auto e persino le case. Tanto che gli scienziati stanno studiando come cominciare a recuperarlo dalle batterie usate, per riutilizzarlo. Eppure, non si tratta di un metallo raro. � uno dei tre elementi che si sono formati subito dopo il Big Bang, insieme a idrogeno ed elio, e continua a prodursi nelle stelle. Pur non presente "puro" in natura, ma solo come composto insieme ad altri elementi, "il litio � disponibile sotto forma di sali e si trova dappertutto: volendo, sarebbe possibile estrarlo anche dall'acqua di mare grazie alla cromatografia ionica, una tecnica ben consolidata", commenta Maurizio Masi, direttore del dipartimento di Chimica, materiali e ingegneria chimica del Politecnico di Milano. Ma questo non vuol dire che estrarlo cos� sia convenien te, dal punto di vista economico. Di fatto, si produce solo in quei luoghi dove ce n'� davvero molto ed � redditizio ottenerlo: dai minerali che ne contengono abbastanza come lo spodumene o - metodo pi� economico - da "salamoie", acque cariche di sali. Come nel Salar de Atacama, di cui parlavamo all'inizio. Da sotto questa crosta salata si estrae infatti una soluzione salina ricca di litio: questa � poi fatta evaporare in una serie di vasche in cui precipitano i sali presenti nelle acque, che vanno dall'azzurro intenso al giallo fluo. Il risultato dei passaggi in queste saline psichedeliche e delle lavorazioni successive � una polvere bianca, il carbonato di litio: la materia prima che sar� spedita alle fabbriche di batterie in Asia e torner� nelle nostre tasche nascosta nella batteria di un telefonino. Il Cile ha il 18,9% delle risorse identificate di litio del mondo, superato solo dalla Bolivia col 22,7%. In Bolivia le salamoie cariche di litio si nascondono sempre sotto una piana di sale, il Salar de Uyuni: qui una compagnia statale ha appena iniziato a sfruttare tali risorse e sta sorgendo un mega impianto. Altri comunque stanno spuntando in tutto il mondo, dall'Argentina (3 per risorse) al Messico. Anche con gli investimenti dei produttori di batterie e auto, che si vogliono assicurare le forniture. Finora la produzione mondiale � cresciuta soddisfacendo la richiesta: nel 2015 � stata di 32.500 tonnellate, al 35% usata per fare batterie. "Coi consumi attuali, le riserve basterebbero per secoli. Ma a fare la differenza sar� la diffusione dei veicoli elettrici, considerando che gi� ora gli accumulatori al litio si stanno diffondendo nelle auto elettriche o ibride", dice Vizza. Secondo la Iea (International Energy Agency), nel 2050 saranno costruiti ogni anno 100 milioni di veicoli elettrici. E dal 2017 partir� la produzione nella Gigafactory della Tesla Motors: una mega fabbrica di batterie agli ioni di litio, che l'azienda Usa di veicoli elettrici sta costruendo in Nevada e che, a regime, produrr� gli accumulatori necessari per 500.000 auto all'anno. "Pur considerando la circolazione di pile al litio non ricaricabili e batterie agli ioni di litio ricaricabili, ognuna usa pochi grammi di materiale. Ma un'auto con potenza di 80 kW pu� usarne 8 o 9 kg", sottolinea Vizza. "Quindi il nostro bisogno di litio aumenter� in modo esponenziale". E come aggiunge Massimo Guarnieri, ordinario di elettrotecnica all'Universit� di Padova, "da alcuni anni sono iniziate altre applicazioni che richiedono una potenza nettamente pi� alta: abbiamo infatti bisogno di accumulare energia per fare funzionare meglio le reti elettriche, nell'ottica delle cosiddette smart grid". Per esempio, una serie di accumulatori pu� immagazzinare l'energia prodotta da centrali solari o eoliche quando non viene sfruttata, per alimentare in seguito case e industrie. "Insomma, la produzione di litio potrebbe diventare insufficiente nel giro di qualche decennio. E dobbiamo essere pronti", dice Vizza. "Anche "estraendo" il metallo dalle batterie usate: oggi non si fa, costa troppo. Per questo stiamo mettendo a punto un sistema economico per il riciclo qui all'Iccom, in collaborazione con Cobat, Consorzio nazionale raccolta e riciclo". Il problema riguarda tutti: le batterie vanno comunque smaltite correttamente, anche se il litio in forma di sale non � nocivo per l'ambiente. "� vero che le batterie al litio sono di gran lunga meno pericolose di quelle al piombo", chiarisce Luigi De Rocchi di Cobat. "Ma le diverse tipologie contengono altri metalli che possono inquinare e vanno trattati, come manganese o cobalto. Oggi le batterie al litio raccolte in Italia sono inviate per lo smaltimento in impianti all'estero: recupero e trattamento sono un obbligo alla fine della vita dei prodotti. Poi qualche azienda recupera ci� che ha un valore pi� elevato, come il cobalto". E per non limitarsi a smaltire il resto? "La sfida", dice De Rocchi, "� mettere a punto una tecnologia che renda vantaggioso recuperare anche il litio e altri metalli". Lo studio di Iccom e Cobat � in corso. "Puntiamo a creare un sistema in laboratorio entro l'anno. Le difficolt�? Separare il litio e le varie sostanze in modo che siano pure, per essere riutilizzate; gestire in modo automatizzato batterie diverse; fare tutto in sicurezza, perch� il metallo nelle batterie - quando, dopo aver acquistato elettroni nella ricarica, non � nella forma di ioni di litio - a contatto con l'acqua genera idrogeno, che � infiammabile e con l'altrettanto infiammabile elettrolita della pila pu� dare una miscela esplosiva", dice Vizza. C'� in effetti un rischio che le batterie al litio inneschino incendi: per esempio ci sono limitazioni per il trasporto in stiva in aereo. "Insomma, il riciclo deve essere efficiente ed economico", dice De Rocchi. Per non rischiare di perdere la carica. Sott'oli: gusto contadino, moderna praticit� ("RivistAmica" n. 10/16) - Due soli ingredienti: verdure lavorate dal fresco e olio di qualit�. Ottimi per godere tutto l'anno della bont� delle primizie di stagione, quando vuoi, dove vuoi - Oggi in cucina si ricerca semplicit� e sensazione di casa. Emozioni piacevoli, che fanno stare bene e che riportano alla mente momenti vissuti da bambini con le nonne mentre le si guardava tagliare le verdure sottili sottili e riporle in vasetti sottovuoto. I prodotti pi� ricercati al giorno d'oggi spesso derivano da esigenze pratiche di origini contadine. Perch� quello che vogliamo trovare sulle nostre tavole � "comfort food", cio� cibo che ci "coccola". E quale coccola pi� grande del rumore sordo che fa il barattolino quando, abbandonato il suo stato di sottovuoto, si apre e si offre a noi, in tutto il suo aroma e piacere, come "fatto in casa". Le conserve alimentari hanno un'origine che affonda le radici in un lontano passato. Un tempo, conservare gli alimenti sotto aceto, sott'olio, sotto sale o in salamoia era l'unico modo per avere a disposizione quei cibi tutto l'anno, anche fuori stagione. Inoltre, cos� conservati, i cibi potevano sopportare lunghi viaggi necessari per trasportare le pietanze da un lato all'altro della Penisola. Solo cos� i prodotti mantenevano le caratteristiche organolettiche e non si deterioravano. Questi trucchi, tramandati dalle massaie di mezzo mondo, negli ultimi decenni sono stati adottati anche dalle grandi industrie. La tecnica di conservazione sott'olio � una delle pi� diffuse. Il suo scopo � quello di isolare gli alimenti dal contatto con l'aria. In tal modo si inibisce la proliferazione di batteri aerobi, ovvero i microrganismi che si sviluppano con l'apporto dell'ossigeno. Ma qual � l'olio migliore per la conservazione? Di solito viene utilizzato quello di girasole o di semi. Si pu� utilizzare anche l'olio di oliva, che per� svolge una sorta di processo di "cottura" della verdura e la rende meno croccante. Conservare in maniera corretta barattoli di cipolline, melanzane e pomodorini sott'olio ancora chiusi � molto semplice. Spesso si pensa che sia necessario tenerli al fresco, ma in realt� questa � una convinzione sbagliata. � sufficiente posizionarli su una mensola della cucina, a patto che sia lontano da fonti di calore come il forno o i fuochi. Solo una volta aperti, � bene che vengano riposti in frigorifero. Qui potrete tenerli per circa un mese, perch� l'olio li protegge dall'aggressione di muffe e microrganismi. Un altro modo per conservare gli alimenti � metterli sotto aceto. In questo caso il discorso � completamente diverso. La sua acidit�, infatti, crea un ambiente assolutamente inospitale per le popolazioni microbiche che difficilmente si sviluppano a PH molto bassi. Attenzione, per�: la scelta dell'aceto non � banale. Il grado di acidit�, per essere efficace, dev'essere compreso tra il 4 e il 6%. Per evitare variazioni nella colorazione del prodotto conservato, il che ne diminuirebbe l'appetibilit�, � consigliabile utilizzare aceto di vino bianco. L'utilizzo del sale per la conservazione degli alimenti appartiene a tempi molto antichi. La sua azione � semplice ma efficace, tanto da poter essere applicata per svariate tipologie di alimenti, anche di origine animale. Il processo di osmosi, che si genera in presenza di sale, porta alla progressiva disidratazione delle cellule e quindi anche dei microrganismi potenzialmente presenti che vengono devitalizzati. Anche se esistono modalit� di conservazione che prevedono l'utilizzo di sale nella sua forma cristallina, per gli ortaggi solitamente si utilizza una soluzione, nota come salamoia: acqua e sale. Marsiglia la scontrosa (di Karin Finkenzeller, "The Magazine" n. 1/16 Marsiglia non � in Provenza. Certo � l�, geograficamente parlando, ma la sua anima e la sua indole non � provenzale. Marsiglia �, come scrisse Jean-Claude Izzo, "utopia del mondo", una citt� con un'identit� forte, netta, brutale, eppure da sempre capace di accogliere il diverso, l'altro. Perch� anche lei �, da sempre, l'altra. Una citt� con le montagne alle spalle, obbligata a guardare l'orizzonte. La fisionomia di Marsiglia � mutevole e coinvolgente, come il vento che la sferza costantemente. Solo poche centinaia di metri, per esempio, separano le luccicanti vetrine dei negozi di lusso sulla Rue Grignan, a est del Porto Vecchio, dal Quartiere dei Creativi al di l� di Cours Julien, dove il volto della citt� si fa pi� brusco e meno pretenzioso. Mentre i muri dei palazzi rimangono soffocati dai colori stridenti dei graffiti, si susseguono tra le strette e caratteristiche vie boutique di moda e di design dai nomi stravaganti, negozi alternativi di prodotti biologici, gallerie d'arte, sale spettacoli e innumerevoli piccoli ristoranti esotici. Si ha l'impressione di essersi spostati di mille chilometri, quando invece si sono svoltate solo poche traverse. Lo stesso accade tornando indietro verso il Porto Vecchio, attraversando il March� de Noailles e la Canebi�re: ecco il suk di Marsiglia, il quartiere multiculturale, con gli odori dei mercati di strada e l'atmosfera e i colori dell'Africa e dell'Oriente, mentre i negozi di Herm�s rimangono dietro l'angolo. Marsiglia � particolare. La sua non � una "bellezza classica", come quella di Cannes o di Nizza; n� aggraziata, come quella delle tipiche cittadine del sud della Francia, perennemente circondate dal profumo di lavanda. Marsiglia � forte, � scontrosa, � appassionata e spassionata. "Chi sostiene di amare Marsiglia senza riserve, quasi certamente non la conosce fino in fondo. � una citt� sicuramente affascinante, ma allo stesso tempo "scostante"; � ribelle, � dotata di una forza esuberante difficile da domare". Cos� la descrive Roselyne Gierlinger, nata Simoni, fashion designer di 56 anni. Trasferitasi dalla Corsica vent'anni fa, oggi preferisce portare il cognome del marito austriaco. La sua boutique si chiama "Floh", parola che in tedesco significa "pulce"; � questo, del resto, il nomignolo che le ha dato il marito, "perch�, quando ci siamo conosciuti, non stavo mai seduta tranquilla un momento, facevo sempre tante cose e tutte insieme. Forse � anche per questo che mi trovo cos� bene a Marsiglia". Un paio di mesi fa, Roselyne ha trasferito l'attivit� dal melting pot di Cours Julien al pi� raffinato distretto sul Porto Vecchio che ospita anche l'Op�ra e il Museo delle Civilt� dell'Europa e del Mediterraneo, inaugurato nel 2013, anno in cui Marsiglia � stata Capitale Europea della Cultura. "Mi piaceva anche dov'ero prima - spiega la stilista - ma qui c'� pi� passaggio". In effetti, i turisti delle navi da crociera, che prima sbarcavano a Marsiglia solo per prendere l'autobus per la vicina Aix-en-Provence, distante una trentina di chilometri, oggi si trattengono volentieri in citt�. Tradizione e modernit�, ricchezza e povert� e una miriade di culture diverse convivono a stretto contatto nella seconda citt� pi� grande della Francia, gi� centro commerciale e porto industriale di portata globale quando il concetto di globalizzazione ancora non esisteva. Una metropoli di contrasti, ma non in contrasto; la multietnia, qui, c'� sempre stata. "Incrocio di tutte le mescolanze umane. Da secoli", l'ha dipinta lo scrittore Jean-Claude Izzo nelle pagine dei suoi libri, "un luogo dove chiunque, di qualsiasi colore, poteva scendere da una barca o da un treno, con la valigia in mano, senza un soldo in tasca, e mescolarsi al flusso degli altri. Una citt� dove, appena posato il piede a terra, quella persona poteva dire: "Ci sono. � casa mia". [...] Questa era la storia di Marsiglia. La sua eternit�. Un'utopia. L'unica utopia del mondo". Mentre, sul Porto Vecchio, i piccoli pescatori vendono il frutto del loro duro lavoro circondati da yacht di lusso, poco distante, nella cucina del ristorante La Kahena, Noureddine Miladi � indaffarato a preparare il suo apprezzatissimo couscous seguendo la ricetta magrebina della sua infanzia a Gerba. Nei vicoli in salita del pacifico quartiere Le Panier, il cuore della vecchia Marsiglia, anziane donne chiacchierano sulla porta di casa avvolte in scialli e grembiuli che sanno d'antico. La biancheria stesa alle finestre, che lambisce le insegne delle gallerie d'arte e dei negozi d'artigianato sottostanti, ha un che di poesia popolare. Era questo, in fin dei conti, l'antico quartiere dei pescatori, dei marinai e dei diportisti, un tempo malfamato e oggi addirittura sede del pi� lussuoso hotel della citt�, l'InterContinental, aperto nel 2013 dopo un lungo restauro sulle strutture medievali dell'allora gi� prestigioso Hotel Dieu. A Le Panier si pu� trovare il migliore sapone di Marsiglia, da sempre realizzato con oli vegetali e sostanze naturali e gi� molto apprezzato alla corte di Luigi XIV. "Questa citt� � un crogiolo di culture e modi di vivere. Noi ci sentiamo prima di tutto marsigliesi, poi, forse, anche francesi", afferma Corinne Vezzoni, architetto e urbanista di 51 anni. Nata ad Arles, come molti degli 850 mila abitanti della citt� non � originaria di Marsiglia e, fino a 18 anni, ha vissuto con i genitori in Marocco. "Sono stati i Greci a fondare Marsiglia, 2600 anni fa - spiega - arrivarono dal mare e non via terra attraverso la Francia". Forse � proprio per via delle montagne alle spalle che i marsigliesi rivolgono costantemente lo sguardo all'orizzonte: "L'Africa per noi � pi� vicina di Parigi", dichiara Corinne, che ha il proprio studio al sesto piano di un grattacielo per nulla attraente, progettato da Le Corbusier negli anni Cinquanta; l'approccio "brutalista" dell'architetto svizzero, d'altra parte, � impresso anche nei tanti caseggiati che si ergono davanti al porticciolo dell'Estaque. "L'architettura di Marsiglia non pu� certo dirsi bella. Ma, almeno, tutti possono godere di una magnifica vista sul mare", dichiara Corinne indicando entusiasta il panorama che si vede dalla finestra del suo ufficio, con le montagne che si spingono a lambire la costa e che danno origine alle sorprendenti calanques, canyon rocciosi simili a fiordi che si tuffano in un mare turchese tra la macchia mediterranea, emblema di una natura forte e selvaggia come lo stesso carattere della citt�. Un tempo in queste insenature si nascondevano corsari e contrabbandieri, pi� tardi i soldati della resistenza durante la Seconda Guerra Mondiale. Chi ha fatto un business dell'irriverenza e della cattiva fama dei marsigliesi � Guillaume Ferroni, che ha ideato il "Carry Nation", bar clandestino che riprende ironicamente il nome della donna americana che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, molto prima che si affermasse il Proibizionismo, dichiar� guerra al consumo di alcolici. L'indirizzo del "Carry Nation" � sconosciuto: per ottenerlo, � obbligatorio registrarsi sul sito online, dopodich� viene inviato un codice d'accesso e le relative istruzioni. Il codice serve per aprire la porta elettronica di un fasullo negozio di souvenir; una volta entrati, si deve scovare un guardaroba e, dietro ai soprabiti appesi, aprire una porticina che conduce a un seminterrato, dove si trova finalmente il bar. Ferroni, 47 anni, non solo � uno dei barman pi� famosi della citt�, ma anche un fine distillatore di rum, liquore da lui preferito al locale Pastis che proprio a Marsiglia deve le sue origini. "Fino al XIX secolo esistevano a Marsiglia ben 25 distillerie di rum, oggi tutte chiuse". Ferroni vuole cambiare la situazione e da anni � impegnato nella ricerca degli eredi delle ex distillerie per poterle rilevare. "Nei miei bar - ne gestisce tre in citt� - non si usa nascondere l'alcol nei succhi di frutta; si offre puro e basta", dichiara l'imprenditore. Marsiglia, dopotutto, non � una citt� per "deboli". Fabio Cannavaro: un italiano campione del mondo e il calcio sotto la Grande Muraglia (di Filippo Nassetti, "Ulisse" n. 384/16) � l'italiano pi� famoso in Cina. Fabio Cannavaro, 43 anni, capitano dell'Italia campione del mondo 2006, � l'attuale allenatore del Tianjin Quanjian, squadra che milita nella China League One. Fabio aveva fatto gi� un'esperienza di sette mesi a Guangzhou, dove era subentrato al suo ex tecnico Marcello Lippi. "Mi trovo molto bene in Cina, � un Paese in grande sviluppo, molto dinamico, aperto alle novit�. Spesso in Italia abbiamo un'immagine negativa legata allo smog delle metropoli, io in questi mesi ho trovato invece citt� pulite, curate, grandi parchi e servizi che funzionano". Nel poco tempo libero dagli impegni sportivi Fabio ama fare shopping e turismo: "Sar� banale, ma sono rimasto impressionato dalla Grande Muraglia, un'opera meravigliosa che sa trasmetterti in un'istante la forza e la tenacia di questo popolo". Il calcio in Cina � molto popolare e, con discrezione, Cannavaro, uno dei quattro italiani con Rivera, Rossi e Baggio ad aver vinto il Pallone d'oro, viene fermato per strada dai suoi tifosi per una foto ricordo. "Con la lingua un po' di difficolt� c'�, il cinese � molto complicato, con i giocatori comunico perlopi� in inglese e spagnolo". George Michael: addio a un mito del pop (di Alessandro Alicandri, Tv Sorrisi e Canzoni" n. 2/17) Con la morte del cantautore britannico George Michael, avvenuta il giorno di Natale ad appena 53 anni, scompare una delle voci pi� belle del pop internazionale. � stato il compagno, Fadi Fawaz (parrucchiere di celebrit� come Naomi Campbell ed Emily Blunt), a ritrovarlo al mattino senza vita: la coppia aveva scelto di passare le festivit� nell'abitazione di Goring-on-Thames, un paesino nell'Oxfordshire a circa 85 chilometri da Londra. Sembra si sia trattato di un arresto cardiaco. George Michael lascia un patrimonio di oltre 120 milioni di euro e nessun figlio, quindi la partita sull'eredit� si annuncia particolarmente intricata. Oltre alle due sorelle Melanie e Yioda potrebbero entrare in gioco anche diverse associazioni benefiche, alle quali Michael forniva generose donazioni, e i figli degli amici pi� cari. Ci lascia cos� la star degli Wham!, il duo pop che sulle note di brani come "Club tropicana", "Wake me up before you go-go" e "Last Christmas" ha scalato i vertici delle classifiche di tutto il mondo, incantando gli adolescenti, e non solo, per tutti i primi Anni 80. Nel 1987 George Michael d� il via a una fortunata carriera solista ("Faith" vender� 25 milioni di copie), mostrando in modo ancora pi� evidente non solo le sue formidabili doti canore ma soprattutto quelle di autore. Figlio di un ristoratore greco-cipriota (il suo vero nome era Georgios Kyriacos Panayiotou) e di una ballerina inglese, l'artista ha venduto in vita oltre 100 milioni di album. Da dieci anni si dedicava quasi solo ai concerti dal vivo, ma stava preparando per marzo 2017 un documentario sulla sua vita intitolato "Freedom", accompagnato dalla ripubblicazione di "Listen without prejudice Vol. 1", forse l'album pi� rappresentativo della sua carriera con quella hit mondiale e inno alla libert� individuale che � stata "Freedom! '90". Nel 2011 le ultime esibizioni dal vivo in Italia: il "Symphonica tour" fece tappa nel nostro Paese per sei date e mostr� l'anima pi� adulta dell'artista, con una scaletta che lasci� poco spazio ai successi raccontando rarit� del suo repertorio. In quasi 40 anni di carriera, George Michael ha lasciato, con il suo spirito provocatorio, un'impronta profonda nella cultura degli Anni 80 e 90.