Marzo 2021 n. 3 Anno LI MINIMONDO Periodico mensile per i giovani Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registrazione 25-11-1971 n. 202 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del MiBACT. Indice Contro ogni evidenza Il lockdown ai tempi del Medioevo Come funziona la pompa di benzina Emmental e Groviera: due tesori dalla Svizzera Wild Sudafrica Claudio Coccoluto: il mondo della disco perde il suo re Contro ogni evidenza (di Andrea Frediani, "Focus Storia" n. 172/21) - Il negazionismo � frutto di paura, pregiudizi e razzismo (come nel caso della Shoah). Analisi di un fenomeno che Internet alimenta - La Shoah? Una colossale messinscena inventata dagli ebrei per ottenere sostegno, dopo la Seconda guerra mondiale, in vista della creazione dello Stato d'Israele: nei campi di sterminio non esistevano le camere a gas e se qualcuno � morto � stato a causa del tifo o di altre malattie. � questa, in sintesi, la tesi dei negazionisti dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. Una tesi delirante, che fa il paio (seppure con pesi ben diversi) con altre teorie complottiste: la Terra � piatta; l'uomo non � mai andato sulla Luna; le Torri gemelle sono state abbattute dalla Cia; il riscaldamento globale � una frottola; il Covid-19 � una montatura. Che cosa hanno in comune queste bufale, sostenute senza prove ma con granitica certezza e talvolta con una certa aggressivit� dai "laureati di Internet"? Chi le diffonde � convinto che siamo tutti vittime di un grande complotto mondiale (ora della finanza, ora delle multinazionali, ora di una "cupola" giudaicomassonica) che manovra i destini del mondo e ha il controllo dei media facendoci vivere in un grande mondo fittizio e costruito come quello raccontato dal film The Truman Show (1998). Di conseguenza, tutto ci� che ci viene raccontato dai media � falso. Che cosa spinga i negazionisti a credere a verit� alternative lo hanno chiarito da tempo psicologi e sociologi: paura, bias cognitivi (il desiderio di vedere confermati i propri pregiudizi e le proprie convinzioni), ricerca di un capro espiatorio in tempi di crisi e razzismo. Quanto al metodo, i negazionisti ignorano la realt� dei fatti: non consultano documenti di archivio, non verificano sul posto, ma si limitano a giudicare dalla loro postazione del computer, sulla base di informazioni di chi, dall'altra parte del globo, la pensa come loro. Questo non significa che la Storia sia scritta sulla pietra e non si possa cambiare la ricostruzione di qualche evento in base a nuove prove verificate. Pi� di una volta, infatti, grazie a studi approfonditi, gli storici hanno scoperto complotti e trame oscure di cui non si era a conoscenza. Ma si tratta sempre di congiure con obiettivi circoscritti: eliminare un rivale, conquistare un trono, depistare indagini, destabilizzare un governo. Immaginare un complotto globale � invece un'ingenuit�. Significa semplificare il passato, ipotizzare che centinaia di migliaia di persone abbiano mentito mantenendo il segreto per decenni. Significa spiegare in modo banale, e talvolta incoerente, eventi complessi come i processi sociali, economici, politici e militari. Il mondo � troppo vasto e complesso per essere manipolato da un complotto sovranazionale. In ambito storico l'argomento pi� negato resta, paradossalmente, la Shoah, uno dei fatti pi� documentati di tutti i tempi. Il negazionista tipo non mette in dubbio l'esistenza delle Crociate, della Rivoluzione francese o del Risorgimento. Non ritiene, giustamente, di avere le competenze per farlo. Tuttavia si crede perfettamente in grado di contestare lo sterminio di 6 milioni di ebrei - oltre a zingari e slavi - da parte del regime nazista e dei suoi alleati. L'intento del negazionista della Shoah non � storico, ma ideologico perch� il negazionista �, prima di tutto, un antisemita. Se gli si presenta una confessione, come l'autobiografia del comandante di Auschwitz, Rudolf H�ss, che si vanta di essere stato il pi� efficiente esecutore degli ordini di sterminio e spiega in dettaglio il funzionamento delle camere a gas, il negazionista sostiene che quella confessione � stata estorta con la tortura, o fornita sperando nella clemenza dei giudici. E se, dopo anni di traumatico silenzio, parlano gli internati, coloro che quella esperienza l'hanno vissuta, li liquida come millantatori. Se gli si mostra un documento, lo considera contraffatto. Per esempio, il fatto che alcune parti del Diario di Anna Frank siano state scritte con una penna a sfera - che si diffuse dopo la guerra - per il negazionista � la dimostrazione che � un falso. Non � disposto a prendere in considerazione la realt�, cio� che il padre, sopravvissuto ad Auschwitz, sia intervenuto in qualche misura, senza pregiudicare per questo l'autenticit� del testo. "Nel campo della ricerca storica, le tesi negazioniste non hanno ottenuto nessuna ricezione, essendo state rigettate per la loro palese inconsistenza scientifica, per la mancanza di rigore metodologico e, non di meno, per la loro smaccata tendenziosit� ideologica", spiega lo storico Claudio Vercelli nel suo libro Il negazionismo, storia di una menzogna (Laterza). "In genere, chi si � dedicato alla lettura dei testi negazionisti ne ha evidenziato il ricorso esasperato a un "metodo ipercritico": l'omissione di dati significativi, quando non funzionali al proprio discorso, e l'enfatizzazione di altri, irrilevanti, fino all'uso deliberato di menzogne. Il metodo ipercritico consiste nell'assumere alcuni fatti, in s� esatti ma insignificanti e comunque sempre isolati dal contesto in cui si sono verificati, per arrivare, per il loro tramite, a una indebita generalizzazione. Se una testimonianza risulta imprecisa o lacunosa, per esempio, da tale inadeguatezza i negazionisti traggono la conclusione che tutte le testimonianze sono inattendibili se non addirittura menzognere". Lo scrittore americano Jonathan Littell illustra alla perfezione, nel suo libro Le benevole (Einaudi), l'attivit� degli Einsatzgruppen, i corpi speciali aggregati alle armate tedesche nella Campagna di Russia, incaricati di sterminare ebrei e bolscevichi. Eppure i negazionisti ritengono che la loro attivit� si sia limitata a fronteggiare l'attivit� partigiana. Ignorano (deliberatamente o no) la quantit� di rapporti, facilmente consultabili, che quelle unit� inviavano a Berlino per informare le autorit� in tempo reale di aver adempiuto al loro incarico: rapporti dettagliati, con cifre ed elenchi di ebrei fucilati e gettati in fosse comuni. I revisionisti, dal canto loro, ammettono che i massacri ci furono, ma scagionano le unit� combattenti delle Ss, le Waffen Ss, e la Wehrmacht. Tuttavia anche i revisionisti, per rafforzare la loro ricostruzione, ignorano la quantit� di lettere dal fronte dei soldati, che confidavano ai genitori o alle fidanzate di aver partecipato attivamente ai massacri. Una corrispondenza resa nota, in tempi recenti, dallo storico Nicholas Stargardt, nel suo saggio La guerra tedesca (Neri Pozza). Quanto poi alle famigerate camere a gas, i negazionisti non ne ammettono l'esistenza, sostenendo che non se n'� trovata traccia. I nazisti, in effetti, fecero un grande sforzo per far sparire le tracce della loro politica di sterminio. Non soltanto accelerando lo sterminio stesso, ma anche facendo saltare, poco prima dell'arrivo dei sovietici, tutte le camere a gas. O meglio, quasi tutte: a Majdanek, vicino a Lublino, in Polonia, non hanno fatto in tempo. E se non bastassero le tracce fisiche, ci sono le testimonianze. Ma i negazionisti non considerano degni di fede i racconti dei superstiti dei Sonderkommando, le unit� di ebrei assegnate allo smaltimento dei cadaveri nei forni crematori. Al contrario, attribuiscono grande importanza alle perizie (da loro stessi finanziate) che attesterebbero una scarsa presenza di gas, lo Zyklon B, sui resti degli edifici destinati allo sterminio, sostenendo che ne � stata rilevata molta di pi� nelle baracche adibite alla disinfestazione dai pidocchi. Ignorando non solo che un edificio fatto saltare non pu� conservare evidenti tracce di gas preesistenti (eppure ne conservava ancora, nonostante tutto!) ma che era necessaria una quantit� maggiore di Zyklon B per uccidere i pidocchi, rispetto a quella necessaria per uccidere gli esseri umani. Appare chiaro dunque che il negazionismo non � una corrente della storiografia, ma un prodotto del razzismo e dell'antisemitismo, un male con radici profonde e antichissime. Un'ideologia che vede negli ebrei una presunta minaccia per gli altri popoli e che prese le mosse con l'affermazione del cristianesimo nell'Impero romano. Fu allora che l'integralismo dei padri della Chiesa, sostenuto dalla politica imperiale e dalla societ�, sollev� i Romani dalla responsabilit� di aver giustiziato Cristo, indicando nel popolo di Israele il capro espiatorio ideale, da allora vittima di persecuzioni ricorrenti e massacri, come i pogrom organizzati nella Russia zarista dell'Ottocento. Con il Novecento - il "secolo dei genocidi" secondo la definizione dello storico francese Bernard Bruneteau - il razzismo elevato a programma politico, il nazionalismo aggressivo e la violenza estrema della Prima guerra mondiale spianarono la strada al concetto aberrante di "pulizia etnica", alla Shoah e agli altri crimini contro l'umanit� compiuti nel XX secolo: in Armenia nel 1915, in Ucraina nel 1932-1933, in Cambogia negli Anni '70, in Bosnia e Ruanda nei Novanta. Tutti ben documentati, con buona pace dei negazionisti. La verit� negata Nel 1996 suscit� molto clamore la causa per diffamazione intentata dal britannico David Irving contro l'americana Deborah Lipstadt, storica della Shoah, che in un suo libro aveva definito le tesi di Irving negazioniste. La sfida in aula si trasform� dapprima in un libro e poi in un film, La verit� negata, uscito nel 2016. Il processo si celebr� in Inghilterra, dove la legislazione vigente prevede che il querelato dimostri la sua innocenza. La studiosa doveva provare che le tesi di Irving non erano solo una visione anticonvenzionale della Storia, ma deliberate forzature e manipolazioni delle fonti. Un pool di ricercatori vagli� il metodo di lavoro di Irving e molti studiosi si susseguirono sul banco dei testimoni. Sebbene alcuni difendessero il diritto di libera espressione del presunto storico (mai laureato) e le sue competenze nell'ambito della storia militare, emerse il suo disinvolto uso della documentazione. Oltre alla volont� di ignorare tutto ci� che non serviva al suo scopo, ossia negare l'esistenza delle camere a gas, di un piano preordinato di sterminio e di una responsabilit� diretta di Hitler. Anzi, nella ricostruzione di Irving il F�hrer non solo non sapeva, ma venuto a conoscenza di certi piani avrebbe anche cercato di fermarli. Nel 2000, Lipstadt vinse la causa. E pare che recentemente Irving sia in parte tornato sui suoi passi. Il lockdown ai tempi del Medioevo (di Roberto Roveda, "Focus Storia" n. 173/21) - Sono passati secoli da quando le pestilenze infuriavano in Europa, eppure per far fronte alla pandemia da Covid-19 si � ricorsi oggi a strumenti per la prevenzione e la limitazione dei contagi elaborati a partire dal Trecento - Primato italiano - Di fronte all'improvvisa esplosione dell'epidemia di Covid-19 a marzo 2020 il nostro Paese ha messo in atto strategie poi replicate nel resto del mondo. Stessa cosa successe ai tempi della peste. Fu nella citt� di Ragusa, odierna Dubrovnik (in Croazia), allora sotto la Repubblica di Venezia, che nel 1377 venne introdotta, novit� assoluta, la quarantena per le imbarcazioni. Quarantina. Le navi provenienti da zone colpite dalla peste dovevano rimanere 30 giorni fuori dal porto per verificare che l'equipaggio non sviluppasse sintomi. Mentre coloro che arrivavano da terra dovevano fermarsi a circa 16 km dalla citt�. Il periodo di isolamento fu poi prolungato a 40 giorni, da cui il nome "quarantena" (in veneziano "quarantina"). A Milano nel XV secolo furono vietati per la prima volta gli assembramenti di fiere e mercati. Inoltre, in molte citt� italiane ai forestieri fu richiesta, per circolare, una "patente di immunit�", che certificava la non provenienza da zone a rischio. In barba ai divieti - Anche in tempi di peste (ben pi� letale dei coronavirus!) qualcuno cercava di sfuggire alle restrizioni. Talvolta le persone non dichiaravano di essersi ammalate oppure se in quarantena, o nei lazzaretti, cercavano di fuggire. Le fonti riportano di lamentele frequenti da parte di funzionari, addetti ai controlli, che denunciavano fughe di persone contagiose, o assembramenti nelle case e all'aperto. Qualcuno tent� di intervenire con misure molto severe. "Vennero create delle dittature sanitarie. Durante la peste del 1630 il Granduca di Toscana eman� un editto che prevedeva la pena capitale per chi trasgrediva la quarantena. In alcuni casi si arriv� a minacciare l'impiccagione immediata, davanti a casa, per chi lasciava l'isolamento oppure non denunciava la malattia", afferma la storica Maria Paola Zanoboni, autrice del libro La vita al tempo della peste (Jouvence). Qualche esecuzione in effetti ci fu, ma quasi mai queste pene molto dure vennero applicate. Si salvi chi pu� - Durante le epidemie del passato non sempre le autorit� hanno mostrato un grande senso di responsabilit�. Anzi, talvolta i governanti abbandonavano le citt� per sfuggire al contagio. A Milano, durante la peste del 1576, tutti i notabili, compreso il governatore spagnolo, fuggirono e solo l'arcivescovo Carlo Borromeo si adoper� per cercare di governare la difficile situazione in citt�. Firenze aveva tentato di correre ai ripari qualche secolo prima, in seguito alla peste del 1383, quando fu emanata un'ordinanza che proibiva ai governanti di lasciare la citt� in caso di epidemia (divieto rimasto, pare, solo sulla carta). Non di rado, poi, le autorit� ritardavano a dare l'allarme in caso di epidemia, per non bloccare le attivit� commerciali ed evitare il panico. Per esempio: la peste descritta da Manzoni, nei Promessi sposi, aveva cominciato a circolare nel 1629, eppure a Milano un anno dopo ancora nessun provvedimento era stato preso. Anche a Bergamo quando l'epidemia cominci� a infuriare, nell'aprile del 1630, la popolazione non fu avvisata. "Le autorit� cittadine si ostinavano a negare la peste. Si parlava di febbri maligne e anche quando i morti arrivarono a essere migliaia, i venditori di merci non essenziali vennero obbligati a tenere aperte le botteghe, pena multe salatissime" afferma Zanoboni. Lazzaretti salvavita - Uno degli errori commessi all'inizio dell'emergenza Covid � stato quello di non aver previsto per i malati spazi riservati negli ospedali, favorendo cos� i contagi. Accadde anche nel Trecento, quando si manifestarono le prime pestilenze. Inizialmente i malati furono portati negli ospedali, che all'epoca erano luoghi di accoglienza e degenza, pi� che di cura, ma si cap� in fretta che questa non era una buona idea. Nacquero cos�, in Italia, i lazzaretti, strutture appositamente pensate per riunire e isolare i malati. Il primo fu costruito a Venezia nel 1423. Nei lazzaretti malati e sani (guariti) venivano separati e le condizioni igienico-sanitarie (almeno nei momenti di affollamento non eccessivo) erano migliori di quelle della maggior parte delle case (e in questo modo si abbassavano anche le possibilit� di contagio in famiglia), il cibo inoltre era garantito a tutti, cosa non scontata nel Medioevo. Per tutte queste ragioni, il tasso di sopravvivenza dei malati nei lazzaretti era buono, oltre il 66% dei contagiati guariva. Allergici alle restrizioni - Come per il Covid, anche ai tempi della peste l'Inghilterra fu tra i Paesi pi� restii, rispetto ad altri, ad adottare norme severe per il contenimento del contagio. Solo dopo la met� del '500 le autorit� inglesi emanarono norme per limitare gli spostamenti durante le epidemie. Di lazzaretti, poi, si cominci� a parlare solo all'inizio del Seicento (circa due secoli dopo l'Italia). E se nell'attuale emergenza sanitaria la Svezia ha rappresentato un'eccezione nel panorama dei lockdown generalizzati, durante le pestilenze del passato fu invece impero ottomano a mostrarsi contrario a ogni tipo di restrizione. Secondo i commentatori cristiani - anche se non sappiamo quanto obbiettivi fossero - questo fu dovuto al fatto che il contagio era vissuto dai turchi come volont� di Allah, a cui era inutile opporsi. Crisi economica e "ristori" - Epidemie e quarantene, come purtroppo ben sappiamo anche oggi, portavano al collasso le economie. Nel 1575, causa peste, la produzione tessile di Verona venne messa in ginocchio e la popolazione si impover� enormemente: quelli che non morivano di peste spesso morivano di fame. Nel 1576 a Milano 80-mila persone rimasero senza lavoro n� sostentamento. Si cerc� di dare aiuti soprattutto durante i lockdown. "A Firenze nel 1630 furono distribuiti sussidi economici e viveri a chi era costretto in casa. Queste misure furono adottate un po' ovunque anche se c'era chi se ne approfittava, restando in casa il pi� possibile, se il sussidio era superiore al suo salario" racconta la storica. Non sempre per� le casse statali e cittadine riuscivano a coprire i costi e talvolta fu necessario imporre nuove tasse (quasi impossibili da riscuotere) oppure chiedere prestiti o emettere titoli di debito pubblico. E, cosa ben poco incoraggiante per noi, gli effetti negativi sull'economia dovuti alle epidemie si prolungarono negli anni a venire. Sanificazione naturale - Nel Medioevo non si conosceva l'origine della peste e si dava la colpa ai "miasmi". Siccome non esistevano disinfettanti efficaci si ricorreva ai rimedi naturali, lavandosi le mani con l'aceto, oppure si usavano la liscivia (detergente a base di cenere) e l'acqua di mare per trattare oggetti entrati in contatto con i malati. Si consigliava anche di lasciare cose e vestiti al sole (oppure in quarantena per un periodo). Temutissime erano le lettere, dato che passavano di mano in mano. "Il consiglio era di disinfettarle passandole con una fiamma prima di spedirle e di leggerle solo all'aperto", afferma Zanoboni. Anche strade, luoghi pubblici e case venivano sottoposti a sanificazione. A Milano esistevano fin dall'epidemia del 1451 squadre addestrate per la sanificazione di abitazioni e arredi. Erano i nectatores domorum che spruzzavano aceto, bollivano materassi e tessuti. Mentre per arazzi e oggetti delicati, usavano fumi di incenso, mirra, laudano e ginepro. Lockdown ante litteram - Le misure restrittive non erano tanto diverse da quelle attuali. Durante il picco di epidemia si vietava lo spostamento di uomini e merci e venivano isolate le aree colpite (antenate delle odierne "zone rosse"). Veniva imposta la chiusura delle botteghe, eccezion fatta solo per gli alimentari e per le botteghe dei farmacisti. Erano vietate cerimonie religiose, processioni e funerali. Provvedimenti che spesso suscitavano le proteste degli ecclesiastici. A questi divieti l'arcivescovo Carlo Borromeo, nel 1576, durante la peste di Milano trov� un rimedio: fece allestire altari nelle strade perch� la gente potesse assistere alle messe dalle finestre. Anche le (poche) scuole erano chiuse. E non mancarono nemmeno lockdown (in italiano "confinamento"). "Fin dal XVI secolo si diffuse la pratica della quarantena generale, prima a Palermo, poi a Milano, Firenze e Genova. Bisognava rimanere serrati in casa e a Genova il regolamento imponeva che solo il capofamiglia potesse uscire per fare la spesa al mattino" afferma l'esperta. Con un occhio di riguardo verso i pi� poveri, era consentito mendicare ma per non pi� di due ore al giorno (molti all'epoca vivevano di elemosina). Manifestanti e negazionisti - Durante le epidemie di peste non mancarono nemmeno le proteste, talvolta anche violente, provocate soprattutto dalle ordinanze che imponevano di bruciare oggetti e indumenti contagiati. Un'altra norma che scaten� la rabbia popolare fu la sepoltura dei morti in fosse comuni e senza funerale. Nel 1710 in Svezia la popolazione di un villaggio riesum� i corpi degli appestati sepolti in maniera anonima per tumularli nel cimitero locale. E come oggi anche allora medici e sanitari erano bersaglio dell'ostilit� dei "negazionisti", perch� accusati di diffondere la paura e amplificare i rischi del contagio. Nel 1506 un documento mantovano racconta di sassate da parte di ragazzi contro i medici, tanto che a volte i dottori preferivano non denunciare il contagio per non incorrere nelle ire del popolo (o peggio ancora in quelle delle autorit�). Il medico che per primo parl� di peste a Busto Arsizio (Varese), nel 1630, venne assassinato. Mentre a Napoli un suo collega fu incarcerato dopo aver denunciato l'epidemia del 1656. Sopravvivere allo smartworking (di Giuseppe Riva, "Psicologia contemporanea" n. 284/21) - Alcuni consigli per ridurre i disaggi del lavoro da remoto e in particolare di troppe videoconferenze - Accanto agli aspetti sanitari, il Coronavirus e le limitazioni imposte dal lockdown stanno avendo un impatto significativo sull'esperienza relazionale e organizzativa delle famiglie. Il primo grande cambiamento � il passaggio alla formazione a distanza, che vede coinvolti tutti gli studenti delle scuole superiori e una buona parte degli studenti delle scuole medie. L'altro grande cambiamento � l'uso massiccio dello smartworking (lavoro agile) al posto del tradizionale lavoro in ufficio, completando una trasformazione che era iniziata qualche anno fa. Prima del Coronavirus, solo il 3% dei lavoratori italiani (meno di 600000 su oltre 18 milioni di lavoratori con mansioni che permettono di lavorare da casa) utilizzava lo smartworking, e quasi per intero in grandi aziende. Una percentule decisamente inferiore a quella di altri Paesi, come la Germania (9%) o il Regno Unito (20%). Eppure, almeno sulla carta, lo smartworking � un vantaggio per tutti, aziende e lavoratori. Alle aziende, lo smartworking consente un significativo risparmio sul costo degli uffici. E poi aumenta la produttivit�, come dimostrato da un recente studio di Marta Angelici e Paola Profeta realizzato per un centro studi della Bocconi. Ma anche per il lavoratore lo smartworking pu� essere un vantaggio. Lo stesso studio segnala che i lavoratori in smartworking dichiarano che l'orario di lavoro si adatta alla vita privata nel 6% dei casi in pi� e che dedicano il 15% di tempo in pi� alle faccende domestiche. Tuttavia, non � tutto oro quello che luccica. Infatti, lo smartworking modifica in maniera radicale l'esperienza di lavoro, andando a toccarne alcuni aspetti critici, come il senso di appartenenza all'azienda, il rapporto con il capo, il lavoro in team, e producendo in molti di noi una nuova sensazione di stress: la cosiddetta "zoom fatigue". Con questa espressione gli psicologi definiscono una sensazione di fatica e di disagio legata alle numerose sessioni di videoconferenza che rappresentano il cuore dello smartworking. Da dove nasce questa sensazione? Le motivazioni sono 5: le prime due pi� ovvie, mentre le altre tre derivano dalle riflessioni pi� recenti delle neuroscienze. - La tecnologia spesso non funziona in maniera ottimale. Chi non ha mai avuto problemi di connessione, di microfoni o telecamere che non funzionano? E la situazione peggiora quando nella stessa casa ci sono pi� persone che fanno contemporaneamente smartworking o distance learning. Da una parte, non sempre ci sono computer o tablet per tutti, e questo richiede una stressante pianificazione per non trovarsi senza tecnologia prima di una riunione importante; dall'altra, la videoconferenza richiede una disponibilit� di banda elevata, e avere nella stessa casa pi� persone connesse riduce la qualit� dell'esperienza, con tutti i problemi del caso, compreso un aumento del livello di stress. - A casa nostra noi non siamo solo lavoratori, ma anche genitori, figli, e cos� via. In pratica, l'essere al di fuori dell'ufficio non ci garantisce un'identit� sociale definita che impedisca a familiari e amici di interrompere volontariamente o involontariamente le nostre attivit�. Inoltre, ci spinge a fare pi� cose in contemporanea - per esempio, partecipare alla riunione mentre con un occhio controlliamo i compiti di nostro figlio -, aumentando inevitabilmente la stanchezza e lo stress. - La videoconferenza non attiva la memoria autobiografica, perch� non attiva i neuroni GPS che consentono di associare a un luogo una specifica esperienza di vita, conferendogli un senso. Ci� pu� portare a una saturazione della memoria a breve termine, che non riesce a memorizzare pi� di 7 blocchi (chunk) di informazione. - La videoconferenza, limitando la possibilit� di espressione e di riconoscimento della dimensione non-verbale della comunicazione, non consente i meccanismi di sintonizzazione capo-dipendente e di sincronizzazione tra i membri del team, basati sull'attivazione dei neuroni specchio e che hanno un ruolo centrale nel sostenere i processi creativi e di leadership. - Durante la videoconferenza noi vediamo il nostro volto. Da un lato, il controllo implicito del volto attira la nostra attenzione spostandola dalla discussione; dall'altro, vedere le nostre emozioni ne amplifica l'intensit�, rendendo pi� difficile controllarle efficacemente in situazioni sociali. Come possiamo difenderci dalla zoom fatigue? Una serie di suggerimenti efficaci sono riportati qui sotto. 1. Fare smartworking sempre nello stesso punto della casa. Pu� aiutare ad attivare la memoria autobiografica collocare sulla scrivania e intorno al PC una serie di oggetti che identifichino chiaramente il momento del lavoro (per esempio, l'agenda su cui prendere appunti, libri di riferimento ecc.). 2. Evitare la tentazione di fare multitasking e spiegare ai membri della propria famiglia che lavorare da casa non vuol dire essere in vacanza. 3. Pianificare con cura la propria agenda, lasciando degli spazi vuoti tra una riunione e l'altra in cui fare un break e staccare dal PC. Pu� avere senso anche stabilire una giornata a settimana in cui non fissare proprio videoconferenze e limitarsi a rispondere a telefonate ed e-mail. 4. Cercare di ridurre il numero e la durata delle videoconferenze. Nei contesti aziendali, le riunioni faccia a faccia spesso si moltiplicano perch� semplicemente partecipando alla riunione si attivano i diversi neuroni che definiscono la nostra identit� e sostengono le interazioni, facilitando la sincronizzazione tra i membri di un team. Questo, per�, non avviene nelle videoconferenze, per cui ha senso fissare e partecipare a riunioni solo quando davvero necessarie, cercando di ridurne al minimo la durata. 5. Se la banda di casa non basta, comprarsi un modem portatile aggiuntivo (il costo si aggira sui 405 euro) insieme a una scheda 4G dedicata. 6. Usare sempre lo stesso computer o lo stesso tablet e, se possibile, non condividerlo con altre persone. 7. Prendere appunti per fissare gli elementi chiave della riunione, in modo da liberare la memoria a breve termine. 8. Vedere il volto degli altri, e in particolare del proprio capo durante le riunioni (chiedere di attivare la telecamera degli altri e spegnere la propria dopo aver verificato di non inquadrare qualcosa di problematico). 9. Usare un approccio blended e non esclusivamente a distanza. Basta anche una volta ogni settimana od ogni due settimane se non bisogna realizzare compiti che richiedano uno sforzo creativo. Come funziona la pompa di benzina (di Simone Valtieri, "Focus" n. 340/21) - Fu inventata pi� di un secolo fa. Potrebbe andare in soffitta tra qualche anno, quando si affermer� una mobilit� meno inquinante - Nel 1888 nasceva la prima stazione di servizio ante litteram, nella cittadina di Wiesloch, in Germania, in cui Bertha Benz - moglie di Karl Benz, fondatore della Mercedes-Benz - si ferm� a "fare benzina" durante il primo viaggio a lunga percorrenza della storia con un mezzo dotato di motore a scoppio, un'autovettura brevettata dal marito. Si tratt� di un viaggio molto avventuroso per l'epoca: 194 km, da Mannheim a Pforzheim, senza strade asfaltate e senza possibilit� di fare benzina. Allora, infatti, per rifornirsi di carburante occorreva rivolgersi alle farmacie, come fece Bertha Benz, o agli empori. La realizzazione di aree preposte esclusivamente al rifornimento risale agli anni successivi e rappresent� una rivoluzione pari almeno a quella che ci troviamo di fronte con l'avvento dei moderni veicoli elettrici, destinati a cambiare presto il volto di questi luoghi. Il tutto fu possibile grazie all'invenzione dell'americano Sylvanus F. Bowser, che nel 1885 applic� per primo a un barile di kerosene una pompa a stantuffo simile a quelle usate per attingere l'acqua dai pozzi. Il vero boom arriv� per� nel secondo dopoguerra, di pari passo con quello dell'automobile, quando i distributori di benzina divennero un nuovo spazio, urbano e non. In Italia le stazioni proliferarono con la crescita della rete autostradale, ed � proprio nel nostro Paese che ha sede la pi� ricca collezione di "colonnine" d'epoca: ben 180 unit� e 6.000 pezzi di antiquariato industriale. La si pu� ammirare al Museo Fisogni di Tradate, nel Varesino. Una moderna pompa di benzina Premendo il grilletto della pistola si mette in moto un efficiente meccanismo che pesca il carburante dalla cisterna sotterranea e lo porta in pochi secondi fino al serbatoio del veicolo. In primis si aziona il motore elettrico dell'unit� di pompaggio rotante, posta all'interno di ogni colonnina, che avvia il risucchio del carburante dalla cisterna. Il liquido, all'inizio del percorso, passa attraverso un filtro depuratore e un separatore d'aria e, prima di raggiungere l'ultimo tratto del tubo, viene misurato attraverso un flussometro che dialoga in tempo reale con il display; quest'ultimo ci permette di visionare la quantit� di prodotto in uscita. Interfaccia utente - � la parte pi� tecnologica della colonnina. Ospita un display di grandi dimensioni sul quale osservare il quantitativo di carburante immesso e il costo, totale e al litro. Negli erogatori pi� recenti pu� essere arricchita dalla parte adibita al pagamento, solitamente riservata a una colonnina a parte. Misuratore di carburante - Il "flussometro" rileva la quantit� di carburante in uscita. Le moderne colonnine erogano circa 40 litri di diesel e 35 di benzina al minuto, una differenza dovuta all'accumulo di residui sui filtri nel primo caso e al recupero dei gas nel secondo. I modelli "hi-flow" (quelli ad alto flusso per i camion) arrivano fino a 130 litri al minuto, con un errore di misurazione entro il pi�/meno 5 per mille. Unit� di pompaggio - � il dispositivo incaricato di aspirare il carburante dalla cisterna nel momento in cui premiamo il grilletto della pistola. � attivata da un piccolo motore elettrico ed � posta all'interno del corpo centrale della colonnina. Filtro e separatore d'aria - Sono posti tra l'unit� di pompaggio e il misuratore di carburante. I filtri hanno una maglia larga appena 80 micron e servono a rimuovere le impurit� di benzina e gasolio; i separatori, invece, scindono i gas dal prodotto liquido prima del transito nel misuratore. Pistola - Possiede una linguetta in prossimit� dell'impugnatura che, se tirata verso il basso, mantiene in trazione il grilletto e consente al benzinaio di lasciare la presa. Per legge la linguetta non c'� nei self service. Tubo di erogazione - Nelle pompe di benzina il tubo coassiale contiene due condotti: uno per il rifornimento e l'altro per aspirare i vapori di benzene, una sostanza cancerogena contenuta nel carburante. I vapori vengono rimandati attraverso un tubo all'interno della cisterna, dove condensano. Cisterne/Serbatoi - Interrati ad almeno un metro di profondit�, sono a doppia camera e collegati a diversi sensori per evitare perdite. Quelli moderni hanno una capienza fino a 50.000 litri. Da essi fuoriescono pi� tubi che vanno alle colonnine. Emmental e Groviera: due tesori dalla Svizzera (di Roberto Rossi, Greenstyle.it) - Due formaggi con molte caratteristiche in comune ma anche grandi differenze: ecco quali - Il Groviera e l'Emmental sono tra i formaggi di origine svizzera pi� apprezzati perch� rappresentano due delle variet� maggiormente richieste dai consumatori. Con la loro pasta dura, si prestano per il consumo fresco o come aggiunta alle pi� svariate ricette, nonch� come gustosi elementi fusi. Tuttavia, capita spesso che vengano fra di loro confusi, forse proprio per l'origine elvetica in comune. Quali sono le differenze e, soprattutto, le loro calorie? Prima di cominciare, � bene specificare come le propriet� nutritive di ogni formaggio possano variare leggermente a seconda dell'alimentazione delle mucche da latte, del metodo di preparazione, della stagionatura e molto altro ancora. Le informazioni di seguito riportate, di conseguenza, hanno un carattere unicamente illustrativo. Di primo acchito, Emmental e Groviera possono apparire come due formaggi decisamente simili, tanto che confondersi non � difficile. Eppure, vi � un trucco molto veloce per distinguerli: solo l'Emmental, infatti, presenta i caratteristici buchi. Il Groviera � infatti un formaggio dalla pasta uniforme, ovvero � privo dell'occhiatura. Una breve analisi delle loro caratteristiche, inoltre, permetter� di identificarli con maggiore certezza. L'Emmental - conosciuto anche come Emmentaler - � un formaggio tipico della Svizzera, il cui nome deriva dall'omonima valle del Canton Berna, dove scorre il fiume Emme. A pasta dura, si caratterizza per dei buchi, dovuti a delle sacche di anidride carbonica che vengono a formarsi durante la maturazione del formaggio. Dal sapore vagamente acido, quasi piccante, questo alimento � realizzato a partire da latte vaccino crudo, ricavato da mucche nutrite solo con erba e fieno, cos� come dettano le regole di preparazione. L'Emmental, infatti, gode della denominazione di origine protetta. � molto apprezzato fresco, sia da solo che a fette all'interno di panini e sandwhich, nonch� fuso per la fonduta. Il Groviera - noto anche come gruviera o gruy�re, dalla definizione francese - � sempre un formaggio di origine svizzera, tipico dell'omonimo distretto della Gruy�re del Canton Friburgo. Anche questo garantito dal marchio di denominazione di origine protetta, rappresenta una variante a pasta pressata cotta, dalla forma tondeggiante e priva di occhiatura. Dal sapore inconfondibile, e persistente sul palato, viene consumato spesso fresco, ma anche e soprattutto per realizzare le pi� svariate tipologie di fonduta. L'errata associazione con l'Emmental pare possa derivare da un alimento molto simile diffuso in Francia, chiamato anch'esso groviera nel linguaggio comune, poich� quest'ultimo � dotato di evidenti buchi e di una pasta pi� spessa. Emmental e Groviera condividono un profilo calorico molto simile, come peraltro tutti i formaggi alpini dalle analoghe caratteristiche. Ad esempio, 100 grammi del primo - ovvero dell'alimento dotato di buchi - equivalgono a 403 calorie, contro le 413 dell'alternativa priva di occhiatura. Si tratta di una differenza davvero irrisoria, il cui peso all'interno della dieta quotidiana � pressoch� identico. Anche la suddivisione di macronutrienti e micronutrienti � praticamente sovrapponibile. Sempre per 100 grammi di peso, l'Emmental include 30,60 grammi di grassi, 28,50 di proteine e 3,60 di carboidrati, mentre il Groviera presenta valori rispettivamente di 32,30 e 0,4 grammi. Sul fronte di sali minerali e vitamine, la coppia garantisce un apporto abbastanza identico: sono presenti sodio, potassio, ferro, fosforo e calcio, nonch� vitamine A, D e alcune del gruppo B. Rilevante � anche il contenuto in colesterolo, circa 110 milligrammi, da tenere in considerazione in caso si seguisse una dieta volta a migliorare la salute del cuore o per controllare eventuali disturbi cardiocircolatori. Entrambi i formaggi, all'interno di un'alimentazione sana come quella basata sulla dieta mediterranea, rappresentano una fonte importante per la salute delle ossa, della pelle e degli annessi cutanei, grazie al grande apporto di vitamine A e D. La prima stimola la rigenerazione cellulare, combattendo anche gli effetti dei radicali liberi, donando brillantezza a unghie e capelli. La seconda rafforza le ossa, mantenendo l'apparato scheletrico sempre in salute. Wild Sudafrica (di Ilaria Simeone, "Ulisse" n. 422/20) - Da Johannesburg al Kruger National Park, uno dei santuari naturalistici del pianeta. Dove vedere gli animali della savana � pura emozione - E poi dicono che le zanzare sono inutili e dannose. Invece � proprio grazie a loro che il Kruger National Park, nel lembo nord occidentale del Sudafrica, si � salvato diventando uno dei santuari naturalistici del pianeta. Guardie forestali ante litteram, questi fastidiosi animaletti che trasmettono la malaria limitarono le battute di caccia ai soli mesi invernali e scoraggiarono qualsiasi velleit� di colonizzazione del territorio salvaguardando cos� la vita degli animali selvatici. Poi arriv� il boero Stephanus Johannes Paul Kruger che nel 1898 proclam� la nascita della Sabie Game Reserve, cuore dell'attuale parco nazionale fondato ufficialmente nel 1926 e oggi uno dei luoghi pi� visitati del Sudafrica. Un'area densa di colline di granito, fiumi, pozze d'acqua, praterie di cespugli, fitti boschi di acacie e sicomori. Un territorio vastissimo - copre 19.485 chilometri quadrati, poco meno dell'intera Slovenia - che i locali chiamano wildtuin, "giardino selvaggio". Un giardino dove vivono 13.000 elefanti, 86.000 impala, 5.000 giraffe, 10.000 gnu, 9.000 kudu, 5.000 facoceri, 25.000 zebre, 180 ghepardi, oltre 1.000 leopardi, 1.500 leoni, 6.500 rinoceronti tra bianchi e neri (il 70% della popolazione mondiale) e altre 137 specie di mammiferi e 500 di uccelli. Il Kruger � un parco facile da visitare: lo attraversano oltre 400 chilometri di strade asfaltate e numerose piste che si possono percorrere, in autonomia, con la propria auto; al suo interno una dozzina di campi gestiti dall'Ente nazionale Sanparks garantisce ai visitatori la possibilit� di restare anche di notte all'interno dell'area protetta. Al mattino presto, davanti agli ingressi, una piccola folla consulta i cartelloni che segnalano gli avvistamenti per decidere il percorso della giornata: ci sono famiglie di sudafricani con i bambini, anziani habitu� che tornano ogni anno per le vacanze, turisti e safaristi della domenica, che non dormono nel parco e sperano in un'escursione fortunata da fare in poche ore. C'� chi prende nota del punto in cui � appena passato un ippopotamo, altri pensano di andare verso le pozze a "caccia" di coccodrilli mentre i pi� ottimisti preparano le macchine fotografiche e studiano l'itinerario ideale, quello che gli consentir� di immortalare i Big Five, i cinque grandi animali della savana: elefante, leone, leopardo, bufalo e rinoceronte. Alcuni preferiscono al fai da te i tour guidati in compagnia dei ranger. Come il River Walk, una breve camminata lungo il corso del fiume Olifants, nel cuore del Kruger, o un giro tra i due campi di Satara e di Lower Sabie nella zona chiamata The Lion Country, la terra dei leoni. Da soli si pu� seguire la strada asfaltata H41 e fermarsi alla Sunset Dam, un bacino artificiale dove al tramonto si danno appuntamento gli abitanti del Kruger. Ecco i branchi di bufali, gli gnu, le zebre, i maestosi elefanti, le iene, le giraffe, gli ippopotami, i rari rinoceronti neri e un solitario leopardo. Accanto agli animali pi� celebri si raccoglie la corte delle specie pi� piccole. Gli occhi si lasciano catturare dall'avanzare goffo dei facoceri appesantiti dal grosso muso che sbilancia il corpo tozzo, dal volo maestoso dell'aquila marziale, dal lento incedere dell'otarda kori, il pi� grande uccello volante del globo, dalla corsa degli struzzi che allargano le piume come i pavoni, dal lavorio delle bufaghe (gli uccelli-zecca che vivono in simbiosi con i grandi erbivori) intente a spidocchiare i bufali. Il Kruger � un posto che non sopporta confini. A ovest ha inglobato nel Greater National Park molte riserve private (Sabi Sands, Timbavati, Manyeleti...) che offrono lodge lussuosi e safari organizzati; a nord ha rotto gli argini dando vita al pi� grande parco transfrontaliero al mondo: il Great Limpopo che lo unisce in un'unica immensa area protetta al mozambicano parco Limpopo e al Gonarezhou in Zimbabwe. A sud si distende, serrato tra l'Oceano Indiano e l'Atlantico, il resto del Sudafrica. La citt� pi� vicina al grande parco - a cinque ore d'auto - punto di arrivo e partenza dei turisti in visita al Kruger, � Johannesburg. Una metropoli che negli ultimi dieci anni ha completamente cambiato faccia. E che merita una sosta. Il quartiere hipster di Maboneng � pieno di gallerie d'arte mentre il vicino sobborgo di Braamfontein accoglie il Wits Art Museum con la sua ricca collezione di artisti africani - da Gerard Sekoto a Walter Battiss, da Irma Stern a William Kentridge - e il Constitution Hill, che ricostruisce le vicende che hanno portato all'approvazione della Costituzione. D'obbligo una visita al museo pi� toccante della citt� dedicato all'apartheid. Aperto nel 2001 � un viaggio nella storia del Sudafrica e della sua politica razziale. A ricordo della discriminazione dei neri ci sono due porte d'entrata e due percorsi di visita: per "bianchi" e per "non-bianchi". Non lontano si trova la township di Soweto, oggi diventata una delle mete predilette dai turisti. Prima di dirigervi a nord verso il Kruger, fermatevi a dare un ultimo sguardo alla citt� dalla terrazza panoramica del Carlton Centre, per oltre 40 anni l'edificio pi� alto d'Africa. Claudio Coccoluto: il mondo della disco perde il suo re (di Enrico Casarini, "Tv sorrisi e canzoni" n. 10/21) Per Amadeus e Fiorello era il dj da andare ad ascoltare, da ammirare ieri, oggi e sempre, come hanno detto ricordandolo nella prima serata del Festival di Sanremo. Ma Claudio Coccoluto, scomparso dopo una lunga malattia nella sua casa di Cassino il 2 marzo a 58 anni, non � stato certo un dj per "esperti". Passando di club in club, dal Goa di Roma (fondato da lui e Giancarlo Battafarano nel 1996) a templi della musica elettronica come il Pacha di Ibiza, il Ministry of Sound di Londra e il Sound Factory Bar di New York, senza dimenticare i grandi locali sulla costa romagnola, il "Cocco" ha fatto ballare davvero tutto il mondo. � stato uno di quei maestri che hanno fatto capire che il loro mestiere non era solo "mettere i dischi" e poi guardare la gente dall'alto della consolle. Nato a Gaeta nel 1962, Coccoluto ha cominciato la sua avventura da ragazzino, nelle discoteche della costa pontina; poi sono arrivate le radio private (una passione che ha conosciuto il punto pi� alto tra il 2003 e il 2009, quando ha "occupato" il venerd� notte di Radio Deejay con il suo programma "C.O.C.C.O.") e club importantissimi. Sempre lo stesso il progetto: creare un fiume di musica senza argini di genere. Per inseguire questa idea, Coccoluto non si � limitato a serate, produzioni, remix, collaborazioni (una per tutte quella con i Subsonica nel 1999 per "Il mio D.J.", e infatti il gruppo lo ha salutato chiamandolo "maestro, amico e persona meravigliosamente generosa") e perfino partecipazioni alla "giuria di qualit�" di Sanremo (nel 2003 � stato il primo dj a essere chiamato, ed � tornato nel 2007 e nel 2013), ma ha partecipato a tante iniziative in cui lasciava da parte il suono per raccontare mode e modi di un pubblico giovanile che conosceva perfettamente, avendolo incontrato in ogni parte del mondo.