Maggio 2020 n. 5 Anno L MINIMONDO Periodico mensile per i giovani Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registrazione 25-11-1971 n. 202 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del MiBACT. Indice Travolti da morbi e bubboni Se diventassimo tutti vegetariani... Attenzione, questo articolo contiene parolacce Walt Disney: l'uomo dei sogni Negroni: il cocktail per l'eternit� Magnetica Mexico City Una vasca per due Travolti da morbi e bubboni (di Violetta Testa, "Focus Storia" n. 162/20) - Oggi tremiamo per il coronavirus, in passato i nemici erano peste, vaiolo, colera... Tutti flagelli che hanno deciso i destini di popoli e grandi imperi - "Effluvio mortifero", "nuova calamit�", "afflizione". E ancora: "violenza morbosa", "male", "sventura". Sono solo alcune delle espressioni che, nel corso dei secoli, i cronisti hanno usato per descrivere le devastazioni causate dalle grandi epidemie che hanno segnato - a volte modificandola - la Storia. Una sola parola, derivata forse dal latino pestis (ovvero "peggio"), le riassume tutte: peste. La prima cronaca puntuale di un'epidemia si deve allo storico greco Tucidide, che cos� descrisse il morbo che devast� Atene nel 430 a.C.: "La malattia era inspiegabile e ci furono vari modi in cui essa si abbatt� sui singoli individui, con troppa violenza perch� la natura umana potesse sopportarla. Alcuni morivano per mancanza di cure, altri morivano anche se curati. Nessun corpo si dimostr� sufficientemente forte per resistere al male, fosse robusto o debole. La malattia li portava via tutti". I germi che scatenarono l'epidemia, provenienti dall'Africa Settentrionale, giunsero nella citt� di Pericle dal mare, sbarcati dalle navi in sosta nel porto del Pireo. Il racconto dello storico greco non ci permette di individuare con certezza di che tipo di malattia si trattasse, ma le ipotesi pi� accreditate indicano il tifo esantematico o petecchiale (dovuto cio� ai pidocchi). Di certo, la situazione era aggravata dalla Guerra del Peloponneso, che proprio in quegli anni opponeva Sparta e Atene, e dalla folla dei profughi che, per sfuggire all'avanzata delle truppe nemiche, si erano rifugiati in citt�. L'epidemia uccise circa la met� dei 150-mila abitanti ateniesi. Non cambi� le sorti della guerra (anche se probabilmente ritard� la fine delle ostilit�) tuttavia incise profondamente sulla societ�, al punto che alcuni storici fanno risalire a quell'evento l'inizio della decadenza dei costumi che mise fine al periodo aureo della civilt� greca. Lo stesso Tucidide ce ne ha lasciato testimonianza: "Pi� facilmente uno osava quello che prima si guardava dal fare per suo proprio piacere. E ad affaticarsi per ci� che era riconosciuto nobile pi� nessuno era disposto". Per capire quanto anche la storia di Roma sia stata profondamente segnata dalle epidemie, basta dare un'occhiata ai numeri che gli storici sono riusciti a mettere insieme analizzando i resoconti dei cronisti dell'epoca. Stando alle ricostruzioni, la popolazione della Penisola italiana, che all'inizio dell'era cristiana contava circa 7,4 milioni di individui, scese a 4 milioni nel 500 e cal� a 2 milioni e mezzo nel 650. All'origine del crollo demografico (e del conseguente impoverimento dell'impero) ci furono anche carestie e crisi agricole, che ebbero l'effetto di indebolire la popolazione, rendendola pi� vulnerabile all'attacco dei germi. Cos�, fra il 167 e il 170 d.C., il "morbo di Antonino" - forse vaiolo o peste, importato dal Vicino Oriente, ma che prese il nome della famiglia imperiale al potere - fece circa 5 milioni di vittime nell'impero: in quell'occasione il medico Galeno abdic� alla sua professione e lasci� precipitosamente Roma, per rifugiarsi nella nativa Pergamo (oggi in Turchia). Fra il 252 e il 267 sull'Impero romano si abbatt� la malattia descritta dal vescovo di Cartagine Cipriano, futuro santo. Si trattava, probabilmente, di peste bubbonica ed era cos� contagiosa che, racconta Cipriano, "si propagava con il solo sguardo". Ma a determinare una svolta decisiva nella Storia fu la peste di Giustiniano. Lo storico Procopio ci informa che la nuova epidemia cominci� "dalla primavera del 543 a Costantinopoli, uccidendovi da 5 mila a 10-mila uomini al giorno". Anche in questo caso, la morte arriv� dal mare, a bordo delle navi provenienti dall'Egitto; Paese che, a sua volta, l'aveva importata dall'Estremo Oriente attraverso i commerci. Il quadro clinico descritto da Procopio fa pensare ancora una volta alla peste bubbonica. La peste del 543 si diffuse in gran parte dell'Europa, tornando periodicamente a flagellare le regioni che si affacciavano sul Mediterraneo per pi� di due secoli. Le devastazioni che provoc� furono descritte anche da Paolo Diacono (720-799) nella sua Historia Langobardorum: "Il mondo era ridotto al silenzio dei primordi. Nessuna voce nei campi, nessun fischio di pastori [...]. Non c'era ombra di alcun passante, n� si vedeva traccia alcuna di assassino, e tuttavia i cadaveri per le strade si perdevano a vista d'occhio". Ma perch� le grandi epidemie dell'antichit� venivano tutte dall'Est? "L'Oriente � stato a lungo, e in parte lo � ancora, una sorta di grande laboratorio batteriologico naturale, dove avevano luogo mutazioni di ceppi virali e nascevano quindi malattie nuove", spiega Paolo Gulisano, epidemiologo e studioso di storia della medicina. L'Italia, poi, era particolarmente vulnerabile, in quanto crocevia obbligato di merci, e quindi di germi. Nonostante questo, dopo le pestilenze dell'Alto Medioevo bisogner� aspettare sei secoli prima che una nuova grande epidemia torni a sconvolgere il Vecchio continente. Ma fu la pi� disastrosa che la Storia ricordi. La catastrofe ebbe inizio nel 1347, con l'arrivo, nel porto di Messina, di 12 vascelli provenienti da Caffa (Mar Nero) carichi di grano, di topi, di moribondi e di cadaveri. Nelle pulci dei roditori si annidava il batterio della peste bubbonica, ma le conoscenze dell'epoca non permettevano di riconoscerlo n�, quindi, di mettere in atto misure adeguate per prevenire il contagio. In pochi anni, il morbo si propag� in quasi tutta l'Europa. Di fronte all'avanzata della "morte nera" (chiamata cos� dal colorito delle vittime negli ultimi stadi della malattia) la medicina del tempo era impotente. "In tre anni, la peste uccise un terzo degli europei", riprende Gulisano. Firenze dimezz� la sua popolazione; ad Amburgo e a Brema mor� il 70% degli abitanti. Milano fu la sola citt� italiana che riusc� a contenere l'epidemia, grazie a misure drastiche che prevedevano, fra le altre cose, che le case infette venissero barricate lasciando morire al loro interno i malati e tutti i loro parenti. "Fu una catastrofe umanitaria che ebbe un fortissimo impatto sulla societ�, dal punto di vista sia demografico sia culturale e sociale. Si pu� dire che la morte nera segn� la fine di un'intera epoca", spiega Gulisano. La peste aggrav� una crisi economica gi� in atto e destabilizz� le autorit� secolari ed ecclesiastiche. Alcuni storici ritengono che molte sollevazioni popolari, come il tumulto dei Ciompi del 1378 a Firenze, siano state causate in ultima analisi dalla peste. L'epidemia aliment� l'odio nei confronti dei possibili "untori", accusati di diffondere la malattia, e fu la miccia che fece esplodere la violenza contro gli ebrei, ritenuti colpevoli di aver offeso Dio provocando la sua ira: nell'agosto del 1349 le comunit� ebraiche di Monaco e Colonia, in Germania, furono sterminate. L'impotenza di fronte alla malattia gett� nel discredito la classe medica, ma al tempo stesso contribu� alla nascita di un sistema nuovo. Per arginare il contagio furono istituiti i "pubblici uffici", che si occupavano dell'organizzazione dei lazzaretti, delle quarantene e delle disinfezioni. Era l'embrione del sistema sanitario moderno. Per quasi un secolo la peste torn� periodicamente, senza per� mai causare i disastri della prima ondata. Dall'altra parte dell'oceano, invece, a partire dal Cinquecento i germi dell'influenza, del vaiolo e del morbillo, portati dai conquistadores e contro i quali le popolazioni locali non avevano difese (cio� anticorpi), contribuirono ad annientare la civilt� degli Aztechi e, pi� tardi, dei pellerossa. Per l'Italia, il periodo di relativa calma si concluse nel 1630, quando "la peste, che il tribunale della sanit� aveva temuto che potesse entrare con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero", come scrisse nel 1842 Alessandro Manzoni nei Promessi sposi. Il quadro di desolazione rievocato dallo scrittore non � diverso da quello che tanti cronisti avevano raccontato prima di lui: "Dopo la peste, si trov� la popolazione di Milano ridotta a poco pi� di 64-mila anime, prima passava le 250-mila". L'epidemia - portata dai lanzichenecchi al servizio dell'imperatore tedesco Ferdinando II - non rimase confinata alla Lombardia, ma si estese presto ad altre regioni dell'Italia Settentrionale. Nello stesso periodo colp� duramente anche la Spagna, giocando un ruolo nel declino della sua influenza in un'Europa che vedeva sorgere le potenze di Francia e Inghilterra. Fra Ottocento e Novecento la peste coinvolse l'Estremo Oriente. Fu in questa occasione che il microbiologo svizzero Alexandre Yersin identific� il batterio responsabile, che adesso porta il suo nome: Yersinia pestis. Ma mentre la malattia che pi� di ogni altra ha falcidiato l'umanit� si esauriva, facevano la loro comparsa altri morbi capaci di cambiare le sorti delle nazioni. Proveniente dall'Asia, il colera colp� duramente l'Europa a partire dall'800. Da Londra il morbo giunse a Parigi, pass� in Germania, attravers� l'Impero asburgico (mettendo a dura prova le sue infrastrutture e accelerandone la disgregazione) e arriv� in Russia. Viaggiando sulle rotte commerciali giunse in Africa e in America. Per il modo in cui si diffuse, il colera fu la prima grande emergenza del mondo globalizzato. La seconda doveva seguire a ruota: la Prima guerra mondiale era alle battute finali quando, nel 1918, arriv� l'influenza "spagnola", cos� chiamata perch� la Spagna fu la prima nazione a denunciare i casi. Sebbene i numeri siano ancora controversi, di certo il virus uccise pi� della guerra: morirono dai 20 ai 50 milioni di persone, per lo pi� fra i 20 e i 40 anni. "Bench� gli storici militari non ne abbiano mai sottolineato a sufficienza l'importanza", sostiene Paolo Gulisano, "� probabile che le sorti della Prima guerra mondiale, senza le decine di migliaia di morti che colpirono in particolare l'esercito austriaco, sarebbero state diverse". Se diventassimo tutti vegetariani... (di Simone Valtieri, "Focus" n. 330/20) - Alcuni chiedono di rinunciare alla carne per motivi etici, altri per salvaguardare l'ambiente. Ma � possibile farne a meno? E con che effetti - "Dobbiamo prenderci le responsabilit� delle nostre azioni e fare qualche sacrificio nelle nostre vite, cos� da fare la differenza". A pronunciare queste parole, dopo aver ricordato il legame tra allevamenti intensivi e cambiamento climatico, � stato l'attore Joaquin Phoenix in occasione della cerimonia di premiazione dei Golden Globe, manifestazione che si svolge durante una sfarzosa cena di gala che quest'anno presentava un men� rigorosamente vegano. Non � stato il primo e neppure l'unico invito a rinunciare alla carne. Ma che cosa accadrebbe se tutti gli abitanti del Pianeta intraprendessero una dieta vegetariana come suggerito da alcuni scienziati e dalla giovane paladina ambientalista Greta Thunberg? Abbiamo provato a fare qualche calcolo e a delineare qualche scenario. In primo luogo � bene precisare che non tutti potrebbero seguire un'alimentazione "verde", sia per motivi di salute - poich� impossibilitati ad assimilare fibre vegetali - sia per questioni di habitat e sussistenza. Alcuni popoli (un centinaio di milioni di individui tra cui inuit, beduini, berberi e mongoli, per citare i pi� noti) non hanno infatti accesso diretto a risorse "vegetali", vivendo in aree prevalentemente aride o ghiacciate. Dipenderebbero completamente dalle importazioni. In passato si � anche provato a riconvertire all'agricoltura alcune zone estremamente inospitali, come la vastissima striscia del Sahel (3.000.000 di km quadrati tra l'Equatore e il deserto del Sahara), ma senza successo e con pesanti conseguenze per le economie locali, basate sulla pastorizia. Al netto di tali eccezioni, gli altri potrebbero invece intraprendere la scelta vegetariana. Con alcuni effetti positivi per tutti. Innanzitutto le emissioni di gas serra si ridurrebbero notevolmente. Secondo la Fao, attualmente gli allevamenti contribuiscono per pi� del 14% al totale delle emissioni di gas serra prodotte dall'uomo; di questa percentuale, il 65% viene dagli allevamenti di bovini. Per la maggior parte, queste emissioni sono causate dalla produzione di mangimi e dalla loro digestione. Come � noto, infatti, rutti e flatulenze delle mucche producono metano: da 200 a 500 litri al giorno per mucca. Liberarci dei 3,1 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti emesse ogni anno da tutti i ruminanti sarebbe un bel colpo per l'ambiente. Marco Springmann, ricercatore dell'Universit� di Oxford, ha calcolato che se tutti smettessimo di mangiare carne, entro il 2050 le emissioni dovute alla produzione di cibo (verdure, ma anche latticini e uova) crollerebbero del 60%, arrivando addirittura al 70% se rinunciassimo a ogni alimento di origine animale, nell'ipotesi pi� radicale, quella vegana. Certo, una decisione cos� radicale e rivoluzionaria ci farebbe perdere numerose tradizioni culturali. E non ci riferiamo soltanto al cotechino, al prosciutto e alla nduja (salsiccia piccante calabrese) a cui � andato immediatamente il nostro pensiero. La carne � legata all'identit� di molti popoli, � parte integrante di festivit� religiose (per gli ebrei, per esempio) o di riti di passaggio, soprattutto nelle popolazioni indigene di Sud America, Africa, Asia e Oceania. Per non parlare poi delle popolazioni nomadi come berberi e mongoli; una vita sedentaria basata sull'agricoltura e non sull'allevamento o la caccia sarebbe una perdita della loro identit�. Ma, dal punto di vista della salute ci guadagneremmo tutti, visto che andremmo incontro a una concreta riduzione delle morti per cancro e per malattie cardiovascolari perch� si eviterebbero quelle dovute a un eccessivo consumo di carne rossa, globalmente quantificabile tra il 6% e il 10%. Sarebbero 5-8 milioni di vite salvate ogni anno. Il tutto con un risparmio di circa il 2-3% del prodotto interno lordo globale in termini di minori spese sanitarie. Inoltre, una dieta vegetariana � adatta a tutti dal punto di vista biologico. "L'aumento di fibra alimentare che una dieta vegetariana porta con s� ha un impatto rilevante in primis sulla flora intestinale, ma anche sulla sensazione di fame e saziet�, e, contrariamente a quanto si possa pensare, se l'alimentazione vegetariana continuasse ad apportare tutti i nutrienti necessari all'organismo, i cambiamenti a livello fisiologico sarebbero minimi", spiega Francesca Scazzina, docente di Fisiologia all'Universit� di Parma. Il fabbisogno quotidiano di proteine � di 0,9 grammi per kg di peso corporeo e si pu� facilmente assumere mangiando pasta, legumi, latte, uova e yogurt. "Molte proteine vegetali possono integrarsi perfettamente tra loro garantendo un adeguato apporto di tutti gli amminoacidi, e nel contesto di una dieta vegetariana equilibrata non si riscontrano carenze rilevanti di nutrienti", prosegue l'esperta. "Al limite, pu� essere utile integrare gli acidi grassi omega-3 con l'introduzione delle alghe nell'alimentazione". Diverso sarebbe il discorso per quanto riguarda una dieta vegana, cio� priva di prodotti come latte, formaggi e uova. "In tal caso sarebbero necessari diversi accorgimenti", aggiunge Scazzina. "Servono infatti omega-3, ma anche fonti affidabili di vitamina B12, calcio, ferro e zinco. L'assenza di tali elementi potrebbe comportare carenze nutrizionali soprattutto in bambini, anziani, e nelle donne in gravidanza e allattamento". Dovremmo dunque assumerli attraverso integratori. Il mercato di questi prodotti, gi� oggi in crescita, si svilupperebbe notevolmente. Quanto detto finora vale per� per i Paesi sviluppati. I problemi arriverebbero per chi abita nel resto del Pianeta, soprattutto in aree sovrappopolate e non in grado di sostenere con i soli vegetali il fabbisogno della popolazione. Il nodo sta nel rimpiazzare un prodotto come la carne, che fornisce un numero ingente di proteine a costi relativamente bassi e facilmente reperibile, con legumi, cereali e verdure. Ma la quantit� di proteine proveniente oggi dagli allevamenti � facilmente sostituibile? Teoricamente s�, se ipotizziamo di coltivare ogni terreno con la soia: produrremo il 468% di proteine in pi� rispetto alla carne, a fronte di una spesa maggiore soltanto del 65%. L'unica vulnerabilit� in tale meccanismo � che le monocolture, a lungo andare, depauperano il terreno diminuendone la biodiversit�, ed � necessario ruotare le coltivazioni per mantenerlo fertile. Per cui, dopo alcuni raccolti, occorrerebbe variare la nostra fonte di proteine seminando piante alternative. Nello scenario pi� radicale, quello vegano, dovremmo poi pensare a ricollocare in altri settori circa 38 milioni di pescatori e 570 milioni di allevatori. Anche volendo non sarebbe possibile trovare lavoro per tutti nell'agricoltura. Per un terzo la superficie terrestre, infatti, � adatta all'allevamento e non all'agricoltura. Non solo: oggi al mondo ci sono 5 miliardi di ettari destinati ad agricoltura e allevamento, e il 68% � destinato solo a quest'ultimo. Secondo gli esperti basterebbe usare il 20% di quelle aree per coltivare alimenti sostitutivi della carne. Il resto potrebbe essere lasciato per foreste e zone verdi, contribuendo ad aumentare la biodiversit�. Servirebbero per� tempo e investimenti economici perch� in una prima fase i terreni lasciati dall'allevamento si impoveriscono. Il rovescio della medaglia � che comunque anche la presenza degli animali da allevamento contribuisce alla biodiversit�. Se invece decidessimo di mantenere gli allevamenti e convertirli alla produzione di latte e derivati, i problemi riguarderebbero la quantit� di latte prodotto, inferiore a quello attuale giacch� buona parte sarebbe destinata alla nutrizione dei vitelli non pi� macellati. Resterebbe poi la difficolt� nel "ricollocare" questi ultimi in natura, dove molti esemplari non sopravvivrebbero per l'incapacit� di procurarsi cibo, soprattutto nelle stagioni pi� fredde, o perch� predati da altri animali. Un discorso analogo andrebbe fatto per i 10 miliardi di "polli" al fine di mantenere la produzione delle uova. Ma al di l� dello scenario drastico di un mondo totalmente vegetariano sognato da molti, basterebbe un consumo pi� moderato della carne (una o due volte a settimana al massimo) per ridurre notevolmente le emissioni globali (nel solo Regno Unito, secondo un recente studio, crollerebbero del 17%) e stare meglio in salute. In sostanza, se da domani tutti mangiassimo il giusto quantitativo di carne, il mondo di dopodomani ne trarrebbe sicuramente beneficio. Attenzione, questo articolo contiene parolacce (di Vito Tartamella, "Focus" n. 331/20) - Perch� ne diciamo cos� tante? Per capirlo abbiamo indagato in un'abitudine molto diffusa - Correva l'anno 1967, e due psicologi dell'Universit� del Nevada (Usa), Allen e Beatrice Gardner, avevano deciso di fare un esperimento mai tentato prima: insegnare il linguaggio dei segni (quello dei sordomuti) a uno scimpanz�. Per vedere se l'avrebbe usato per comunicare con gli uomini. Gli scimpanz�, in effetti, si esprimono per lo pi� a gesti perch� non sono in grado di parlare: la loro lingua � troppo sottile e la laringe alta. Eppure, almeno geneticamente, ci somigliano: il loro Dna � uguale al nostro al 98,5%. E, come noi, hanno un'infanzia molto lunga durante la quale imparano tutte le conoscenze necessarie a sopravvivere. Cos� i due ricercatori, marito e moglie, adottarono uno scimpanz� femmina di 10 mesi d'et�: la chiamarono Washoe, come la contea del Nevada dove sorgeva l'ateneo. Con molta fatica le insegnarono a bere da una tazzina, a mangiare usando le posate, a vestirsi e, soprattutto, a usare il vasino: � impossibile convivere con una scimmia abituata a defecare ovunque. Nel frattempo, Washoe imparava a usare il linguaggio dei segni. A 5 anni d'et�, Washoe conosceva 132 parole: per esempio, diceva "bere" stringendo il pugno con il pollice allungato, che poi portava alla bocca. E cos� via. E riusciva anche a combinare le parole in frasi semplici, come "fammi-uscire-fretta". Un giorno, per�, per indicare una scimmia che non le piaceva, Washoe fece il segno di "sporcascimmia". Nella lingua dei gesti, "sporco" si esprime poggiando il polso sotto il mento e muovendo le dita, per imitare una brodaglia repellente che cola dal mento. Fino ad allora, Washoe aveva usato quel segno solo per riferirsi agli escrementi, agli abiti sporchi e alle funzioni corporali. Ma ora "sporco" acquisiva significati spregiativi per indicare ci� che non le piaceva: insomma, "scimmia di mer**" Dopo aver imparato a parlare, Washoe aveva fatto un passo avanti: aveva imparato a insultare. La storia di Washoe - morta nel 2007 a 42 anni d'et� - sfata un mito diffuso: che le parolacce siano solo un orpello degradante, una rozza degenerazione del linguaggio. Svolgono invece funzioni fondamentali. Le parolacce nascono quando, in un gruppo, si crea un sistema di valori binario: da una parte le azioni permesse e accettate, giudicate buone; e dall'altra quelle vietate e rifiutate, considerate cattive. Queste ultime, e le parolacce che le rappresentano, assorbono anche le emozioni negative: rabbia, paura, disprezzo, sorpresa. Le volgarit�, infatti, sono il linguaggio delle emozioni. Ecco perch� le parole scurrili sono gi� presenti nel pi� antico poema della storia, l'Epopea di Gilgamesh (2600 a.C.): uno dei personaggi � Shamhat, una put*** e in tutta la letteratura successiva. E non c'� lingua al mondo che ne sia priva. Perch� le parolacce sono profondamente umane: un paio d'anni fa il prestigioso Massachusetts Institute of Technology (Mit) ha fatto un sondaggio. Ha chiesto a 2-mila persone: "Se apparisse sullo schermo di un computer una sola parola, quale permetterebbe di capire se l'ha scritta un uomo o un'intelligenza artificiale?". Insomma, cosa ci distingue da un robot evoluto? La maggioranza ha risposto che quella parola � "cacca" (seguono amore, misericordia e compassione). Il turpiloquio, insomma, � l'ultimo baluardo che ci differenzia dalle macchine intelligenti. Ed � cos� radicato in noi che nel nostro cervello esistono aree specializzate nel controllo delle volgarit�. Il turpiloquio � entrato cos� profondamente nella nostra espressivit� da diventare un riflesso neurologico: quando ci diamo per errore una martellata su un dito, urliamo "C***o!" prima ancora di rendercene conto. Le parolacce, infatti, sono la reazione a situazioni importanti: tutte quelle che favoriscono o mettono a rischio la nostra sopravvivenza. Io ho iniziato a studiarle nel 2006 per elaborare un trauma infantile, se cos� si pu� definire: quando frequentavo le scuole elementari, una mia compagna di classe, Stefania, mi aveva dato, per gioco, un colpo in testa con un pesante atlante geografico. Provai un dolore fortissimo. E dalla mia bocca usc� una parola che non avevo mai osato pronunciare: "Put****!". Stefania e tutte le altre bambine mi guardarono male per quell'insulto spropositato. Io rimasi amareggiato e incredulo per tutto il giorno: da chi avevo imparato quella parola? Possibile che avesse tutto quel potere, cio� ferire un'altra persona e farmi sentire in colpa per questo? Richard Stephens, uno psicologo della Keele University (Regno Unito), ha deciso invece di studiare il turpiloquio quando, nel 2004, assistette al parto di sua moglie. "Nostra figlia stava cercando di uscire per i piedi, e il travaglio si � complicato", racconta. "A un certo punto, il dolore fu cos� forte che mia moglie url� un'imprecazione. Anzi, ha lanciato una sequenza impressionante di parolacce a ogni ondata di contrazioni. Alla fine, imbarazzata, si � scusata con i medici e le infermiere, che per� non erano affatto scandalizzati: a ogni parto ne sentono di tutti i colori. Quell'episodio mi � rimasto impresso". Pare che l'espressione pi� frequente registrata nelle cabine di pilotaggio degli aerei, quando stanno per precipitare, sia "Oh, mer**!". Cos� si chiude il cerchio: le parolacce ci accompagnano dalla nascita alla morte. Ma in dettaglio, a che diavolo servono le parolacce? Hanno 5 funzioni: enfatizzare, descrivere, imprecare, maledire e insultare. 1. Enfatizzare - Dire "Che cosa vuoi?" � diverso rispetto a "Che c***o vuoi?". Il contenuto � lo stesso, ma la seconda frase esprime anche l'emozione del parlante (rabbia, irritazione). Le volgarit� servono infatti ad attirare l'attenzione, a sorprendere o anche a far ridere, come ben sanno i comici. Il turpiloquio � anche il linguaggio dei giovani ribelli: lo usano per rimarcare la loro differenza rispetto agli adulti benpensanti. Ed � il linguaggio della schiettezza: chiama le cose col loro nome, eliminando formalismi e giri di parole. In una ricerca pubblicata su Social Psychological and Personality Science, lo psicologo olandese Gilad Feldman ha misurato il grado di sincerit� di 276 persone, scoprendo che chi era pi� onesto diceva anche pi� parolacce, per esprimere le proprie emozioni in modo genuino. � per questo che, negli ultimi 30 anni, i politici usano sempre pi� un linguaggio triviale: per apparire sinceri, strizzando l'occhio agli elettori ("Parlo come te perch� sono come te"). Ma spesso la battuta salace � usata come arma di distrazione di massa, per nascondere le proprie difficolt� o la mancanza di idee. 2. Descrivere - Perch� "feci" si pu� dire, mentre mer** no? Si riferiscono allo stesso oggetto, ma solo il secondo � tab�, perch� ci fa visualizzare gli escrementi in modo diretto, abbassante od offensivo. Lo stesso avviene per i termini osceni: se espressi in modo triviale, evocano il sesso in modo esplicito, mettendoci davanti agli occhi il nostro lato animalesco, che cerchiamo sempre di negare. Per questo sminuiamo i genitali, usati come emblemi delle cose di poco valore (c***ata, cog***nata). Le parole oscene, da cui siamo ossessionati, evocano in realt� le nostre ansie. Come ricorda Steven Pinker, psicolinguista alla Harvard University (Stati Uniti), il sesso suscita angosce perch� "pu� comportare figli illegittimi, incesto, gelosia, adulterio, abbandono, faide, abusi su minori, stupro, sfruttamento, malattie". Ecco perch� le parole del sesso sono tab�. Chi le dice in maniera esplicita si comporta come un elefante in una cristalleria: non adotta il necessario riguardo verso un tema delicato. 3. Imprecare - Quando ci rovesciamo il caff� sul vestito nuovo esplodiamo in un "Porca tr***!" (o simili). Sono parole o frasi cristallizzate, che non hanno un significato letterale: servono soltanto a esprimere la forte emozione che stiamo vivendo. In origine, per�, le imprecazioni avevano un significato religioso: erano giuramenti. "Per Giove!" significa infatti "Che Giove mi fulmini se mento". Le imprecazioni (letteralmente: pregare contro) servivano a segnalare un solenne impegno davanti alla divinit�. Oggi, invece, la loro forza serve a sfogare un dolore, chiedere aiuto, intimidire un avversario. E funzionano davvero. Nel 2009 il professor Stephens, quello che aveva assistito al parto della moglie, l'ha verificato con un esperimento. Ha reclutato alcuni volontari, e ha fatto loro immergere la mano in un secchio d'acqua gelata (5�C). Chi lo faceva imprecando, riusciva a resistere con la mano immersa per il 30% di tempo in pi�. Non si sa come, ma le parolacce hanno davvero un effetto analgesico. 4. Maledire - Le maledizioni possono esprimere un comando ("vaff******", ovvero "Che tu abbia un rapporto sessuale passivo"), un desiderio ("ti venisse un cancro") o un'esortazione ("che vadano a ca****"). Tutte sono per� un sortilegio, simile alla magia nera: si basano infatti sulla credenza che il malaugurio si realizzi. E questo in parte avviene: il destinatario � costretto a immaginarsi in una sgradevole prospettiva. Percependo l'odio o il rancore di chi pronuncia queste frasi. 5. Insultare - Dire a qualcuno che � uno stronzo significa liquidarlo con un giudizio negativo. Gli insulti feriscono perch� ci fanno sentire sminuiti, emarginati e rifiutati, abbassando la nostra autostima. Di una persona si pu� insultare qualunque cosa: l'aspetto fisico (grassone), le origini geografiche (terrone), il comportamento (rompiballe), l'intelligenza (idiota)... Le ingiurie pesano come pietre, ma consentono di esprimere la rabbia senza causare danni irreparabili. Sono aggressioni rituali: una lingua pu� essere tagliente come una spada, ma non sparge sangue e apre la possibilit� di risolvere i conflitti attraverso le parole. Ecco perch�, come diceva Sigmund Freud, "chi per la prima volta ha lanciato all'avversario una parola ingiuriosa invece che una freccia � stato il fondatore della civilt�". Walt Disney: l'uomo dei sogni (di Gian Domenico Iachini, "Focus Storia" n. 162/20) - I suoi personaggi hanno incantato intere generazioni. Ecco chi c'era dietro questo leggendario nome - Con la sua inconfondibile firma curvilinea, il nome di Walt Disney � divenuto una leggenda della storia del cinema, sinonimo di intrattenimento di qualit� per tutta la famiglia. Vincitore di 26 Oscar, vari premi e importanti riconoscimenti internazionali, Disney ha emozionato e divertito pi� generazioni di spettatori di ogni et� riscuotendo un successo talmente grande da essere spesso considerato come l'inventore dell'animazione disegnata. Questa tecnica in realt� esisteva da circa vent'anni, ma � stata la fantasia e la determinazione di Disney a farle spiccare il volo. Walter Elias Disney Jr., quarto di cinque figli, nacque a Chicago nel 1901 da una famiglia di umili origini. Gli anni dell'infanzia furono difficili. Il padre, uomo autoritario, lo costringeva a lunghe ore di lavoro nelle attivit� di famiglia e non gli risparmiava punizioni corporali. Il bambino si consolava come poteva: con il disegno, grande passione fin da subito; con la compagnia del fratello Roy di poco pi� grande; con le amate fiabe che la mamma gli leggeva la sera; e con la magia del cinema di Charlie Chaplin. Disegno, cinema, fiabe... a ben guardare, gli ingredienti per il futuro re dei cartoon c'erano gi� tutti. Infatti, subito dopo gli studi artistici tra Kansas City e Chicago, il ragazzo inizi� a dedicarsi all'animazione. I primi passi in quello che diverr� il suo mondo, fantastico e totalizzante, li mosse con l'amico Ub Iwerks. Insieme realizzarono cortometraggi che chiamavano Laugh-O-grams. Ma i tempi erano quelli che erano, e le difficolt� finanziarie non mancavano. Cos� trasloc� a Los Angeles, sperando in una maggiore fortuna, che in effetti era ormai a portata di mano. Il giovane Disney infatti si fece strada in fretta, e nel 1923 fond� insieme al fratello una sua casa di produzione, la Disney Brothers Cartoon Studio. Qui si ritrov� a lavorare gomito a gomito con una ragazza minuta e graziosa di nome Lillian Bounds: lui disegnava, lei gli ripassava i disegni con l'inchiostro. La mancanza di talento artistico, e un certo nascente interesse del boss nei suoi confronti, la portarono a cambiare mansione e a diventare la segretaria personale di Walt. E poco dopo la moglie. Nel 1925 si sposarono e nel 1933 ebbero la prima e unica figlia biologica, Diane Marie. Per festeggiarne la nascita Walt annunci� che il primo giorno di ogni film Disney la proiezione sarebbe stata gratuita per tutti gli orfani. Pochi anni dopo adottarono la seconda figlia, Sharon Mae. Lilli e Walt resteranno insieme fino alla morte di lui, nel 1966. Nel 1927 nacque la serie di Oswald il coniglio fortunato, personaggio che in breve Iwerks, rielaborando alcuni schizzi, trasform� in un topo. Lillian lo battezz� Mickey Mouse - in Italia Topolino - e lo stesso Disney gli diede personalit� e voce. Fu proprio questo fortunato personaggio, emblema stesso dell'impero Disney, a debuttare col sonoro. Il cortometraggio, del 1928, si chiamava Steamboat Willie e scaten� nel pubblico un'ondata di entusiasmo. Non che Topolino fosse particolarmente divertente o interessante, come osserva lo storico Stephen Cavalier nel suo Cartoon, storia mondiale del cinema d'animazione (Atlante), ciononostante il topo detective si afferm� come "l'individuo retto che cerca di controllare i personaggi e le situazioni caotiche che gli gravitano attorno, un amabile "eroe" a cui i bambini - e i genitori - possono fare riferimento". Un mondo luminoso e magico, lo descrive Cavalier, in cui "l'intero scenario � intelligentemente realizzato per essere apprezzato da ogni bambino ma anche dal bambino che alberga in ogni adulto". Vero pioniere delle tecniche di animazione, Disney era pronto a rischiare la bancarotta pur di elevare le sue produzioni a nuova forma d'arte. Dopo l'introduzione del sonoro speriment� l'utilizzo della musica e del colore per migliorare le atmosfere dei suoi cortometraggi, che ottennero il picco di maggior successo nel 1933 con I tre porcellini. Per Disney l'animazione era lo strumento con cui raccontare storie in grado di suscitare una vasta gamma di emozioni. Una visione che port�, nel 1937, alla realizzazione del primo lungometraggio nella storia dell'animazione d'oltreoceano: Biancaneve e i sette nani. Costato molto di pi� di quanto stimato, Biancaneve non soltanto ripag� ampiamente la compagnia (che crebbe fino ad avere ben oltre 1.000 dipendenti), ma apr� la strada verso la produzione di molti altri classici, come Fantasia e Pinocchio (entrambi del 1940), Dumbo (1941), Bambi (1942), fino ai successivi Cenerentola (1950), Alice nel paese delle meraviglie (1951), Peter Pan (1953) e La carica dei 101 (1961). In molti dei suoi film, tuttavia, la carica fantastica di Disney assume anche una dimensione pi� profonda e oscura. Stando alla biografia di Marc Eliot dal titolo Walt Disney, Hollywood's Dark Prince (Birch Lane Press), ogni lungometraggio riflette vari aspetti del grande tema che pi� gli stava a cuore: la sacralit� della famiglia e le tragiche conseguenze dovute al suo venir meno. Non a caso ci� che spesso accumuna questi film � il tema dell'abbandono e della ricerca dei veri genitori da parte del protagonista. Un fatto che avrebbe personalmente ossessionato Disney sin dalla giovane et�, da quando, non potendo prendere parte alla Prima guerra mondiale perch� minorenne, scopr� l'inesistenza del suo certificato di nascita e si insinu� in lui il dubbio di essere stato adottato, tanto da giustificarsi cos� le punizioni subite da bambino. Un simile retaggio lo port� a considerare la sua azienda come una grande famiglia, disposizione che gli rese particolarmente odiosi i contrasti che si verificarono con i dipendenti. Il suo carattere dispotico mise a dura prova le relazioni con i numerosi animatori e, presto, i rapporti divennero conflittuali, tanto pi� che Walt non voleva riconoscere il loro contributo creativo. Di pi�: paghe basse, licenziamenti ingiustificati e rifiuto del sindacato portarono le relazioni nell'azienda-famiglia allo scontro aperto. Nel maggio del 1941 i dipendenti entrarono in sciopero con tanto di picchetti all'ingresso della casa cinematografica e la partecipazione di diverse centinaia di dimostranti muniti di cartelli con slogan e caricature dei celebri personaggi disneyani. La lotta si protrasse per due mesi, finch� un arbitrato riconobbe aumenti salariali, ferie pagate, la riassunzione dei licenziati e la presenza del sindacato. Disney se la leg� al dito. Durante la Seconda guerra mondiale anche gli studi della Disney vennero "arruolati" per produrre film di propaganda per il governo. Tra le decine di titoli il pi� noto - e anche premio Oscar come miglior cortometraggio animato - � La faccia del F�hrer, con Paperino che vive l'incubo di trovarsi sotto il regime nazista. Sembra che lo stesso presidente Roosevelt fosse rimasto condizionato dall'abile propaganda di Disney e avrebbe dato il via alla strategia del bombardamento a lungo raggio solo dopo aver visto il film-documentario Victory Through Air Power, realizzato per raccogliere fondi per la costruzione di aerei da guerra. Ma l'impegno politico e ideologico di Disney non fin� con il termine del conflitto. Anzi, le tensioni della Guerra fredda e l'inizio della caccia alle streghe che negli Anni '50 invest� anche Hollywood, vide Walt Disney in prima linea contro il "pericolo comunista". Cominci� con il togliersi qualche sassolino dalla scarpa contro i suoi dipendenti che avevano scioperato anni prima: testimoni� al Comitato contro le attivit� antiamericane (Huac) e denunci� l'infiltrazione dei comunisti nella sua azienda. Negli anni del maccartismo fu un informatore del'Fbi, diretta dall'amico J. Edgar Hoover, e nel 1954 divent� Special Agent in Charge, offrendo all'agenzia un uomo di fiducia anche dietro le quinte della neonata industria della televisione. Disney trov� nel piccolo schermo, dove presentava i suoi programmi, un'occasione per rendere il volto dello "Zio Walt" familiare e osannato tanto quanto quello delle grandi stelle del cinema. Ma la televisione si rivel� soprattutto uno strumento straordinario per finanziare e promuovere la sua ultima visionaria creazione: Disneyland, il parco divertimenti che apr� nella citt� di Anaheim, vicino a Los Angeles, nel 1955. Inaugurato in diretta televisiva, il suo straordinario successo non si ferm� neanche con la scomparsa del suo stesso ideatore, finendo per arrivare in molte grandi citt� del mondo dove continua ad attrarre milioni di famiglie. Tra le molteplici creazioni della sua carriera, Disney lasci� un segno indelebile anche nel cinema dal vero con il film Mary Poppins uscito nel 1964, due anni prima della sua scomparsa. In una miscela impeccabile di riprese dal vivo e animazione, Disney dipinse il grande ritratto dell'eterno trionfo della speranza sul cinismo, della giovent� sulla vecchiaia, della vita sulla morte. Come osserva il biografo Marc Eliot: "� il suo grande monumento all'immortalit�". Negroni: il cocktail per l'eternit� (di Giangiacomo Schiavi, "Ulisse" n. 419/19) - Fu grazie a un viaggio in America in cerca dei cowboy che nacque, cento anni fa, l'aperitivo pi� noto - Un Negroni in questi tempi di spritz e di shottini � come una Ferrari alle prese con le citycar: se le beve tutte. La popolarit� di un cocktail diventato leggenda resiste alle mode e ai riti che cambiano di generazione in generazione. Chiederlo al bar � un segno distintivo, un diploma speciale, roba da professionisti: quasi un richiamo della foresta alle origini del buon bere leggendario. Sar� un po' vintage, molto Novecento, un ologramma della Dolce Vita e dell'Italia del boom, ma ovunque siate nel mondo un Negroni resta un Negroni: non passa inosservato. Come il suo ideatore, quel conte dandy e disinvolto che cent'anni fa cambi� il gusto all'aperitivo abituale, l'Americano, cocktail a base di vermouth, bitter e soda che si faceva preparare dallo storico bartender dell'epoca, Fosco Scarselli, uomo immagine della rinomata drogheria Casoni a Firenze. Per il conte Camillo Negroni l'aperitivo era un rito, un'esibizione di classe e mondanit� tra una partita a poker e una stoccata col fioretto; era un bicchiere esclusivo da sfoggiare come un abito da sera nei bar della Firenze postbellica, turbolenta, futurista, non ancora fascista. Correva l'anno 1919 quando il suo nome entr� definitivamente nella storia del costume: al ritorno da un viaggio in America, dove aveva attraversato le praterie del Wyoming portando le mandrie con i cowboy, chiese al barman di fiducia un correttivo all'aperitivo in voga. Nei caff� italiani del primo Novecento si servivano i vermouth piemontesi della Martini e Rossi e i bitter della casa Campari che combinati insieme con ghiaccio e scorza di limone formavano l'Americano. Il conte Negroni sollecit� il barman a irrobustire il suo cocktail e fu cos� che il talentuoso Fosco Scarselli tir� fuori l'idea del Gin. Racconta Luca Picchi, storico barman fiorentino che al Negroni ha dedicato studi e libri, che l'effetto-bomba fu immediato. "Una meraviglia per il palato con tre ingredienti che esprimono diversi stili di vita: Gin, Campari, Vermouth, anima, mente e cuore". Il cocktail Americano alla maniera del conte Negroni diventa in pochi mesi il Negroni e basta. Un brand. Da Firenze a Roma, da Milano a Torino, da Napoli a Palermo, e poi nei caff� d'Europa e d'America, � l'immagine dell'Italia da bere. Scrive l'insospettabile direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci, anche lui affascinato dal mito liquido rosso-dorato che resiste nel tempo: "Il Negroni da cent'anni porta nel mondo il nome del suo inventore, tra guerre e rivoluzioni, tra amori e disamori; per consolare, per intrigare, per dimenticare e rendere, anche solo per un attimo, felici gli uomini e le donne". Soli, in compagnia, durante le feste, i party, i ricevimenti e le serate mondane, nei momenti intimi, contemplativi o proustianamente retrospettivi, c'� sempre un posto per il Negroni. "Va bene tutto il giorno, � forte ma suadente, amaro e speziato, ma con una dolcezza che tutto tiene insieme, nobile, popolare. � uno dei pochi cocktail diventato genere, dal particolare all'infinita variazione", spiega Marco Cremonesi nella rubrica "Barfly" del Corriere della Sera. O la perfezione, dicono gli esperti, una ricetta elementare che tutti sono in grado di replicare: un terzo di gin, un terzo di bitter Campari, un terzo di vermouth rosso, una scorza di arancia o limone e ghiaccio. La pensava cos� anche Mirko Stocchetto, il barman amato dai tiratardi del Bar Basso, a Milano. Era un drago dello shaker, ma una sera invece di tirar su la bottiglia del gin, gli capit� di sbagliare mano: prese uno spumante. Incredibile ma vero, ne � uscito l'errore pi� famoso della storia dei drink: il Negroni sbagliato. Prosecco, Charmat o Champenoise al posto del Gin. Da quel giorno, era il 1972, il Bar Basso � diventato un punto fermo per i bevitori da tutto il mondo. Ci sono i turisti del Negroni, dice Maurizio Stocchetto figlio di Mirko, e vengono qui per fare il confronto: meglio lo Sbagliato o il Negroni perfetto? I due se la giocano, quasi si divertono: uno pi� tosto, l'altro pi� disinvolto, entrambi eccellenti. "Il segreto sono gli ingredienti, la qualit� fa la differenza: bisogna lavorare sul vermouth e sul gin, e alla fine il Negroni resta il drink degli intenditori", annuisce il barman. Cent'anni dopo non c'� pi� la coda al bancone di certi locali, come avveniva negli Anni Ottanta, stagione clou degli aperitivi cocktail, tanto che Milano era diventata la Milano da bere. Il Negroni oggi deve vedersela con le varianti e le mille alternative, dal Negroski al Bencini, all'Alexander, al Manhattan, fino alla Tequila bum bum. Ma nei locali top di Venezia e Firenze, di Londra e New York, si gioca sempre il primo posto tra i pi� richiesti, come Federer con Djokovic a Wimbledon: anche se � il pi� vecchio, difficile scalzarlo. Il cocktail amato da Orson Welles e Hemingway, festeggia il secolo con un "God save the Negroni", omaggio al mito shakerato e il conte Camillo benedice dall'alto, soddisfatto. Chiss� che cosa pensa dei giovani d'oggi che si stordiscono con uno shot di rum e un altro di succo di pera, chiamato Chupito. Via, non confondiamo. Meglio un Negroni, per l'eternit�. Magnetica Mexico City (di Cristina Griner, "Ulisse" n. 416/19) - Nei quartieri posh della "nuova" capitale. Tra ristoranti gourmet, spazi artistici d'avanguardia e locali leggendari - Di fascino la capitale messicana ne ha da vendere. Da sempre. Come testimonia l'assoluta meraviglia dei primi conquistadores di fronte a Tenochtitl�n, antica capitale della civilt� azteca, e al suo Tempio Mayor, le cui rovine, rimaste sepolte per quasi cinquecento anni, sono oggi il cuore della citt� coloniale costruita dagli spagnoli. Sintesi di culture e luogo di contrasti, perennemente in bilico tra splendori e miserie, Citt� del Messico � al centro di una rinascita che ne ha fatto parlare come di una "nuova Berlino", residenza d'elezione di intellettuali e creativi internazionali attratti dal fermento culturale, dalla vivibilit� e dal basso costo della vita. Una citt� capace di fare tendenza, capitale mondiale del design nel 2018 e meta gourmet, grazie a una generazione di chef talentuosi e innovativi. Roma, Condesa e Polanco sono i quartieri posh, che le classi medio-alte si sono ritagliate all'interno di una megalopoli di 25 milioni di abitanti, altrove problematica. Colonia Roma, celebrata dal film autobiografico del regista premio Oscar Alfonso Cuar�n, � letteralmente rinata dalle macerie del terremoto del 1985. Oggi � il quartiere hipster per eccellenza, dove vivono scrittori, architetti, designer e artisti arrivati dagli Stati Uniti e dall'Europa, dove nuovi spazi creativi affiancano vecchi negozi e dalle tradizionali case con patio sono stati ricavati boutique e hotel. Indirizzi da cercare senza fretta, come quello del raffinato ristorante Virginia, al primo piano in Monterrey 116, o dello spazio culturale e artistico Terreno Bald�o (Orizaba 177), ma anche noti e frequentati come OMR (C�rdoba 100), una delle gallerie top della capitale messicana. Anche il MUCA, Museo Universitario di Scienza e Arte, spazio di coworking, ludoteca e biblioteca, ha trovato sede nel cuore di questa istrionica colonia. Rosetta, il ristorante di Elena Reygadas in una dimora del XIX secolo di Calle Colima, � ormai un punto fermo, come il cocktail bar Maison Artemisia (Tonal� 23). Mentre i classici tacos venduti agli angoli delle strade si trovano in versione gourmet da El Parnita, in avenida Yucatan. Roma Norte confina con Colonia Condesa, quartiere affine ma meglio conservato, mix di art d�co e stile neo coloniale dove si trova una delle gallerie d'arte pi� influenti al mondo, Kurimanzutto, nata per dare spazio ai nuovi talenti messicani. Tappe obbligate sono la libreria-bar El Pendulo, presente in tutte le classifiche delle librerie pi� belle del mondo, e il Pata Negra, locale leggendario e ancora un punto di riferimento. Per un pasto informale e contemporaneo � di moda Lardo (Agust�n Melgar 6), ma per provare l'autentica cucina messicana casalinga, elaborata e di qualit�, si va alla Fonda Fina (Medellin 79), dove il menu � un viaggio attraverso i tesori culinari del Paese. L'ha creata Jorge Vallero, chef di Quintonil, insieme a Juan Cabrera, che ha lavorato al Pujol di Enrique Olvera. Sono i due ristoranti top della capitale, nel quartiere elegante di Polanco, rispettivamente all'undicesimo e al tredicesimo posto nella classifica dei 50 Best Restaurants del mondo. Tra Polanco e Granada ci sono anche i due musei pi� innovativi, il Soumaya e il Jumex. Ma il tour dei design addicted non pu� che cominciare dalle case di Luis Barrag�n, famoso architetto ed enigmatico designer messicano. Nella sua casa-studio vicino al Bosque de Chapultepec, come a Casa Gilardi e Casa Pedregal, stupiscono i colori sgargianti, i giochi di luce, le linee pulite e la straordinaria modernit�, considerato che sono state pensate a met� del secolo scorso. New entry nello skyline cittadino � invece Torre Reforma, prisma irregolare alto 246 metri per 57 piani progettato dallo studio LBR&A di Benjamin Romano e inaugurato nel 2018. La maggiore testimonianza del rinnovamento che attraversa la capitale anche sul fronte dell'architettura � per� il nuovo aeroporto internazionale progettato da Norman Foster e Fernando Romero. L'opera, che ha richiesto un investimento di 9 miliardi di euro, � in costruzione e dovrebbe concludersi entro la fine del 2020. Per un tuffo nostalgico nella citt� com'era, oltre a classici come il Gran Hotel Ciudad de M�xico, il Caf� de Tacuba e il Palacio de Bellas Artes, ci sono i mercati. Quello vivacissimo del quartiere malfamato di Tepito, dietro alla cattedrale, e quello dell'antiquariato, la domenica in avenida Alvaro Obreg�n. E ancora, il piccolo mercato di San Angel e quello di Coyoac�n, quartiere meridionale che ha mantenuto le sembianze di un pueblito di provincia e ospita la Casa Azul, abitazione-museo dove hanno vissuto Frida Kahlo e Diego Rivera. Una vasca per due (di Giorgio Terruzzi, "Focus" n. 330/20) - Linda Cerruti e Costanza Ferro, che hanno alle spalle una medaglia d'argento ai Mondiali 2019 e che si preparano alle prossime Olimpiadi - Entrambe sono nate in Liguria, nello stesso anno, il 1993. Entrambe hanno un fratello maggiore. Entrambe fanno parte della Marina Militare. E poi l'acqua, la stessa, quella della Rari Nantes Savona dove nuotano, insieme, sin dall'et� di sei anni. Linda Cerruti e Costanza Ferro hanno in comune radici e destino. Formano una formidabile coppia del nuoto artistico, con una quantit� enorme di medaglie dietro le spalle, compreso uno storico argento nella prova "Highlight" a squadre ai Mondiali in Corea del Sud del 2019 dove hanno ottenuto anche un quinto posto nel duo (programma tecnico). Le chiamano "le gemelle" perch� hanno sviluppato un rapporto fatto di amicizia e intesa strepitose. Al punto da riuscire a dialogare persino sott'acqua: "Per certi versi � proprio vero", spiega Linda, "ci basta pochissimo per comunicare in ogni condizione. Dipende dalla conoscenza reciproca, dalla fiducia, dalla sensibilit�". Un pensiero ovviamente condiviso: "Siamo cresciute fianco a fianco e siamo cresciute in acqua, si pu� dire", aggiunge Costanza. "Stessi allenatori, stesse abitudini. Trascorriamo insieme ore e ore allenandoci, viaggiando, gareggiando. E troviamo sempre qualcosa da dirci, anche nel tempo libero". Ma soprattutto quando si muovono in piscina o al termine di un allenamento. Linda: "Non ci poniamo limiti, discutiamo, ci confrontiamo. Ma soprattutto abbiamo imparato a stimolarci in continuazione, a comportarci in modo positivo e ad aiutarci nei momenti critici". Costanza aveva paura dell'acqua, non sapeva nemmeno nuotare: "Infatti sono io quella pi� emotiva. O, meglio, Linda riesce a mascherare meglio i propri sentimenti". Il nuoto sincronizzato � tecnica, arte, espressivit� tutte assieme e messe a punto in continuazione. Ed � difficile tenere la forma lungo una interminabile stagione di gare: "Comunque la competizione � importante", racconta Linda, "perch� spezza la quotidianit�. Stiamo parlando di uno sport basato sulla tenuta mentale: devi memorizzare ogni movimento, perfezionarlo e mantenere una concentrazione assoluta durante l'esercizio per cercare di spingere quando sei in gara. Dunque ogni test agonistico ha la sua funzione". Sono entrambe diplomate e contano di rimanere nella Marina Militare una volta conclusa la carriera di atlete, magari allenando chi verr� dopo di loro. Del resto, da questa lunga e felice avventura hanno accumulato un'esperienza strepitosa: "In termini di forza, di perseveranza, di gestione di una difficolt�", spiega Linda. "Abbiamo stretto amicizie con ragazze di molti Paesi, abbiamo imparato a stare al mondo, come si dice. Soprattutto ad accogliere e a condividere ci� che fai anche con chi � diverso da te e non sempre sintonizzato sul tuo carattere", dice Costanza. In testa hanno Tokyo, in duo e con la squadra, e il sogno di una medaglia olimpica tutt'altro che fuori portata. Intanto sognano qualcosa di pi� comodo e, per molti versi, irraggiungibile. Costanza: "Un letto dentro il quale stare al mattino, un po' di quiete". Linda: "Un po' di tempo in pi� per prendersela comoda, senza l'assillo di arrivare in ritardo". Analisi e tecnica "La musica � fondamentale. Un brano composto appositamente da Michele Braga per esaltare mobilit�, velocit� e componente artistica di Linda e Costanza. Che sentono ogni nota grazie agli altoparlanti subacquei. Le sentono a ripetizione per due anni. Tanto � lunga la vita di un esercizio". Patrizia Giallombardo, ligure come le "sue" ragazze, � il direttore tecnico azzurro del nuoto sincronizzato dal 2011. Segue 23 atlete, basa il proprio lavoro sull'educazione, il rispetto delle regole e l'autoanalisi individuale approfondita, utilizzando poi riprese video di ogni esercizio. Con lei agisce un'intera �quipe, visto che questo sport � fatto di molte componenti: "Mi aiutano alcuni coreografi, un insegnante di teatro che cura l'espressivit�, perch� serve comunicare anche con un sorriso naturale, con i tratti della propria emotivit�; tre preparatori atletici per migliorare la forza fisica, un allenatore per l'apnea, uno per il nuoto pi� un nutrizionista. Sono tanti, ma sono tante anche le specifiche abilit� richieste a una squadra di alto livello". 8 ore al giorno. La piscina � una bolgia, tra corsi di acquagym, bambini che fanno lezione, nuotatori in allenamento. Ma Linda e Costanza eseguono, ascoltano, riprovano con una concentrazione assoluta: "Questo sport richiede una piena consapevolezza di ogni gesto per migliorarne la padronanza e dunque la sincronia, abbinando resistenza e potenza. In Italia abbiamo poche atlete di talento e a loro serve, oltre alla tecnica specifica, alla volont�, alla tenacia, una buona presenza fisica, un po' come accade per la ginnastica ritmica o la danza. Dunque stiamo parlando di una disciplina molto complessa: pretende dalle atlete la continua ricerca di una soluzione specifica per raggiungere la perfezione e diventare vincenti. All'inizio della preparazione si tratta di acquisire ogni singolo movimento: viene quindi creata una sequenza dentro un equilibrio tra elemento tecnico e artistico. Per questo Linda e Costanza si allenano 8-9 ore al giorno, sette giorni su sette per tre settimane filate. Poi una settimana di relativo riposo, nel senso che si allenano nelle loro societ� di appartenenza. Per allenamento intendiamo vasca, palestra, corsa, danza, hi-pop, teatro. Il tutto per un'esibizione che dura tre minuti, valutata da quindici giudici: 5 per la parte artistica, 5 per la sincronia, altrettanti per l'esecuzione". Ogni esercizio, per queste atlete di livello internazionale, � preparato lavorando in apnea sugli angoli prodotti fuori dall'acqua da gambe e braccia; curando le spinte e l'elevazione (in gergo thrust), la flessibilit� dei movimenti articolari, la velocit� e la qualit� delle transizioni (gli spostamenti laterali sull'acqua); gli agganci, cio� i movimenti con le atlete in contatto tra loro". Patrizia Giallombardo � molto chiara. Ma gi� la descrizione di ci� che viene richiesto a una campionessa offre la misura della fatica e della dedizione richieste. Esercizi complicati, ripetuti all'infinito per una perfezione comunque labile. Il senso della sfida, forse, sta proprio qui. In una ricerca per molti versi infinita.