Agosto 2020 n. 8 Anno L MINIMONDO Periodico mensile per i giovani Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registrazione 25-11-1971 n. 202 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del MiBACT. Indice Noi, esclusi dalla scuola online durante la quarantena L'origine dei vaccini La scienza della spesa La lunga storia del bagno Dolomiti: emozioni verticali J-Ax: faccio rap anche per i settantenni Noi, esclusi dalla scuola online durante la quarantena (di Daniele Chirico, "Millennium" n. 36/20) Archiviato l'anno scolastico pi� difficile, insegnanti e ragazzi si definiscono innanzitutto stanchissimi. Anche fieri, per�. Appena qualche settimana addietro, in piena emergenza Coronavirus, nessuno avrebbe scommesso su di loro o sulla Didattica a distanza (Dad). E invece dirigenti, docenti e studenti hanno risposto alla crisi rimboccandosi le maniche e hanno tenuto in piedi la baracca. � cos� che la scuola italiana - per molti la Cenerentola nelle scelte del governo durante la pandemia - ha saputo resistere. "Abbiamo salvato l'anno scolastico, ce l'abbiamo fatta", sostengono professori e presidi. E anche al Ministero dell'Istruzione pensano che la prova sia stata superata: "Oltre il 94% degli studenti � stato coinvolto in attivit� di didattica a distanza", nel 95% delle scuole c'� stata la formazione docenti, il 97,3% afferma di aver attivato misure per i ragazzi con disabilit�. Un successo, verrebbe da dire. Soprattutto rapportando i dati al drammatico stato di partenza certificato dall'Istat all'inizio della pandemia: in Italia una famiglia su tre (il dato sale al 41,6% al Sud) non ha pc o tablet in casa, quattro studenti su dieci vivono in condizioni di sovraffollamento abitativo, ampie fasce del Paese non hanno una connessione decente (solo il 20% del Paese ha la banda Ultra larga ad almeno 100 Mbps). Ma scavando poco pi� a fondo, non tutto � andato per il verso giusto. Anzi. Dopo un mese di lockdown una scuola su tre non aveva attivato la Dad, a fine aprile appena l'11% dei presidi dichiarava (secondo il Censis) di avere raggiunto tutti gli alunni, alla fine di maggio, rivela Cittadinanzattiva, solo l'85% degli studenti faceva le videolezioni (pi� di un milione di ragazzi non l'ha fatta) e appena il 9% osservava un "normale" orario scolastico. Ci sono stati troppi problemi e disparit�, accusano in molti. Una ragione la indica Enrico Galeano, docente all'IC Italo Svevo di Chions in Friuli Venezia Giulia, in libreria con Garzanti con Dormi stanotte sul mio cuore e creatore della web serie (da 20 milioni di visualizzazioni su Fb) Cose da prof: "Gli insegnanti meritano un 10 pi�: � stato fatto uno sforzo collettivo davvero importante per restare in contatto con gli studenti. A livello generale invece � mancato un coordinamento: per esempio le videolezioni ci sono state solo in alcune scuole. Sarebbero servite linee guida nazionali pi� chiare e stringenti. Se gli strumenti erano a disposizione, perch� non sono stati utilizzati da tutti?", chiede. � stata confusione insomma, non autonomia scolastica. Gli fa eco Chiara Alberio, insegnante di spagnolo all'IC De Amicis di Lissone, in Brianza: "All'inizio abbiamo temporeggiato, pensando che presto saremmo tornati in classe". Dpcm dopo Dpcm hanno capito che l'anno scolastico sarebbe terminato sul web. "E allora ci siamo dovuti organizzare, un passo per volta, ciascuno secondo le proprie possibilit�, a causa di direttive ministeriali confuse e generiche: il risultato sono stati enormi differenze tra scuole e scuole, persino tra sedi centrali e succursali". In fondo, c'era da aspettarselo. Perch� al netto dello shock per il virus, il sistema scuola non ha mai compiuto il processo di digitalizzazione avviato addirittura nel 2007 con il Piano nazionale per la scuola digitale. Come fai a trasformare la didattica dall'oggi al domani se hai docenti non formati (secondo Save the children la met� non aveva ricevuto alcun training formale sulle nuove tecnologie), carenza di connessioni e di hardware tra gli studenti (� stato necessario distribuire dispositivi nel 99% delle scuole) e persino tra i docenti (nel 23% degli istituti c'erano insegnanti sprovvisti)? Il ministero � intervenuto con 85 milioni che sono serviti a distribuire oltre 200-mila dispositivi (a cui se ne sono aggiunti 230-mila da parte delle singole scuole) e 117-mila connessioni. Il resto lo hanno fatto fondazioni private e associazioni. Uno sforzo importante, eppure insufficiente: tantissimi ragazzi hanno comunque seguito le lezioni dallo smartphone, spesso in condivisione con i fratelli. E infatti, denuncia ancora Save the children, "circa 1 minore su 5 ha avuto maggiori difficolt� a fare i compiti e quasi 1 su 10 tra gli 8 e gli 11 anni per mesi non ha seguito le lezioni a distanza". Ovvio perci� che i dirigenti scolastici segnalino, rivela il Censis, che la Dad "ha ampliato il gap di apprendimento tra gli studenti in base alla disponibilit� di strumenti informatici e alle competenze tecnologiche dei familiari". Lo conferma la Comunit� di Sant'Egidio che ha condotto un'indagine su 800 bambini (dai 6 ai 10 anni) di Roma per valutare l'efficacia della Dad tra marzo e aprile: il 61% non aveva ancora fatto lezione online, l'8% aveva addirittura interrotto ogni rapporto con la scuola. "Numeri a cui corrispondono storie", commenta Stella Cervogni, coordinatrice delle scuole della pace della Comunit�. E racconta di Ahmed "che vive in una casa affollata e dove non c'� mai silenzio, obbligato a seguire le videolezioni di notte". Di Daniela "che per permettere ai 5 fratellini, dai 6 agli 11 anni, di fare i compiti era costretta ogni giorno a ricopiare a mano le schede che arrivavano via Whatsapp sul telefono della mamma". Di Maria e Nicola "che ricevevano i compiti sul cellulare della vicina di casa". Ci sono decine di casi del genere, "per non parlare degli enormi problemi degli stranieri, dei rom, dei bimbi con bisogni speciali". Guai e guasti della Didattica a distanza ne ha raccolti e raccontati tanti e diversi Enrico Galeano in un video nel quale possono riconoscersi tanti docenti e studenti. Difficolt� di vedersi e sentirsi, invasioni di cani e gatti, appelli interminabili e genitori invadenti, lezioni in pigiama o seminudi. Un modo ironico per sottolineare le difficolt� che ogni giorno una popolazione di 8,5 milioni di studenti e un milione di insegnanti ha dovuto affrontare nel tentativo di non spezzare il filo. "Faccio video a scuola dal 2012 - racconta Galeano - ma stavolta � stato diverso". Stavolta il web non era un'opportunit� ma l'unico strumento possibile. "Non funziona travasare dalle lezioni tradizionali alla Dad, � stato necessario inventarsi qualcosa di nuovo: abbiamo portato tutto all'essenziale - spiega - fatto tanti laboratori e lavori manuali e cercato in ogni modo possibile di non perdere il contatto con gli studenti". Giovanni Mannara insegna italiano all'istituto Colozza-Bonfiglio di Palermo, nel quartiere popolare della Zisa. � uno dei protagonisti del bello e delicato documentario sulla dispersione scolastica La nostra strada del regista Piero Li Donni, fresco vincitore del Biografilm festival. Racconta: "Abbiamo attivato subito la Dad, prima in modalit� asincrona e in un secondo momento con le videolezioni". Con il passare dei giorni ha messo a punto gli strumenti "anche ascoltando i suggerimenti dei ragazzi: Facebook � stato una grande agor�, abbiamo realizzato molti video, usato persino TikTok sul quale i ragazzi hanno dato vita a un progetto di adozione di un monumento cittadino. Abbiamo fatto di necessit� virt� e la nostra esperienza � positiva, nonostante le difficolt�". Difficolt� non soltanto strutturali o tecnologiche, ma anche relative alla famiglia. Non ha dubbi la professoressa Chiara Alberio: la Dad "ha funzionato solo dove c'� stato un ruolo positivo delle famiglie e non tutti gli studenti hanno avuto questa fortuna": i genitori hanno dovuto gestire lo smarrimento per la quarantena, lo smartworking improvvisato, l'assenza di servizi, le lacune tecnologiche. Per le mamme - denuncia Save the children nel dossier "Le equilibriste" in cui mette in fila le difficolt� e le rinunce a cui sono costrette ogni giorno le 6,2 milioni di mamme con almeno un figlio minorenne - � stato ancora pi� difficile. Inoltre oltre un milione di minori combatte ogni giorno contro la povert� assoluta e, durante l'emergenza, un genitore su 7 tra quelli con una situazione socio-economica pi� fragile ha perso il lavoro. Insomma, trovare un equilibrio � stato difficilissimo, a volte impossibile. Ma, quando � successo, a volte la Dad ha riservato belle sorprese: "Ci sono stati ribaltamenti dal punto di vista delle valutazioni con alcuni alunni di solito meno brillanti che si sono fatti notare", racconta Mannara. � accaduto anche tra gli alunni di Chiara Alberio in Brianza: "Diversi di loro si sono galvanizzati forse per l'uso del pc o per la gestione autonoma del tempo. Magari - ammette - � successo anche perch� alcuni soffrono la socialit� della scuola". Che � una circostanza strana solo in apparenza. "I ragazzi pi� timidi - spiega Galeano - durante la quarantena hanno spesso avuto degli exploit perch� seguire da casa annulla l'ansia da prestazione e la difficolt� del rapporto sociale". Un elemento spesso trascurato. Non � stata l'unica sorpresa. "Spesso i ragazzi - racconta Mannara - hanno scelto di nascondersi, di spegnere le telecamere, di non mostrarsi". Proprio loro che quasi vivono sui social e si fotografano di continuo. � accaduto per diverse ragioni. A volte hanno preferito nascondere situazioni familiari di difficolt�, povert�, malattia, a volte violenza. In qualche caso � stato "perch� non volevano mostrarsi imperfetti, per esempio nel taglio di capelli o nel vestire", altre volte hanno voluto evitare sfott� e scherzi pesanti e a nulla � servito il richiamo alla netiquette (le regole di comportamento online adottate dalle scuole). Anzi, in qualche caso, anche alcuni insegnanti hanno spento la telecamera per evitare di finire nel gioco degli screenshot imbarazzanti. "Ma � successo anche per una ragione pi� banale - sottolinea Alberio - qualche ragazzo ha scelto di non seguire le lezioni: da questo punto di vista non ha certo aiutato il messaggio del ministro che alla fine sarebbero stati tutti promossi. Ma questo non ha pregiudicato il buon lavoro fatto nelle condizioni date". Riconosce il loro lavoro la ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina che, nel saluto di fine anno, ha commentato: "� stata una prova molto impegnativa per tutti, ma so che in tanti hanno apprezzato il lavoro fatto. Siamo partiti da zero. Abbiamo costruito un modello che ha permesso di salvare l'anno scolastico. E la scuola si � riscoperta un po' pi� digitale". In fondo � quello che sostengono anche i quasi 3-mila dirigenti scolastici (pi� di un terzo del totale) che hanno partecipato alla ricerca del Censis "Italia sotto sforzo": promuovono a pieni voti studenti e docenti ma sottolineano che, nonostante gli sforzi, "la scuola si � scoperta non attrezzata per la didattica a distanza" e il virus ha acuito difficolt� educative e diseguaglianze sociali. Allora ha forse ragione la ministra Azzolina quando invoca "maggior distacco", "maggior equilibrio" e quindi il tempo giusto per tracciare un bilancio, ma � anche vero - sostengono i dirigenti - che "volont� e impegno personale non bastano". E che settembre � dietro l'angolo. "Fateci tornare in classe, fateci tornare al nostro lavoro - rivendicano all'unisono i docenti rientrati in classe per gli esami, tradendo anche una certa emozione - conserviamo quello che di utile abbiamo imparato con la Dad, ma restituiamo la loro scuola ai ragazzi". Il ministero in un clima difficile (i sindacati hanno chiuso l'anno proclamando lo sciopero) e con le incognite legate all'andamento del virus rivendica gli investimenti di questi mesi (4 miliardi di cui 400 milioni per il piano digitale), prepara un nuovo patto educativo e mette sul tavolo una bozza di linee guida: turni differenziati, classi divise per gruppi, lezioni anche il sabato. E didattica a distanza, seppure in misura marginale e solo per le Superiori. Non fa in tempo a diffonderle che l'Associazione nazionale presidi esprime subito delusione: "Il ministero scarica la patata bollente sui dirigenti". E c'� chi commenta sfiduciato: "Cambieranno idea molte volte: aspettiamo il documento ufficiale". La partita della scuola � ricominciata. L'origine dei vaccini (di Maria Leonarda Leone, "Focus Storia" n. 165/20) - Le migliori armi che usiamo contro le malattie sono nate da... una mucca - A Hong Kong l'influenza sembrava molto pi� aggressiva e virulenta del solito. Maurice Hilleman, il capo del dipartimento per le malattie respiratorie del Centro medico della difesa americana, voleva vederci chiaro. Col suo team isol� il virus e lo analizz�: si trattava di un ceppo nuovo, potenzialmente catastrofico. Sarebbe potuto essere l'ormai tristemente noto SarsCov2, se non fosse che quello era il 1957, l'anno in cui il virus A/Singapore/1/57 H2N2 scaten� l'epidemia di influenza asiatica che uccise circa due milioni di persone in tutto il mondo. Negli Usa le vittime sarebbero potute essere milioni, ma non superarono quota 69-mila. Il motivo? Hilleman era riuscito a creare un vaccino e a distribuirne 40 milioni di dosi in fretta e furia in tutto il Paese. Fu soltanto una delle brillanti scoperte del microbiologo americano, padre di vaccini contro oltre 40 agenti infettivi, sette dei quali (morbillo, orecchioni, rosolia, epatite B, varicella, meningite e batterio emofilo dell'influenza b) li troviamo nel nostro calendario dei vaccini obbligatori. Ma anche se � stato senza dubbio il pi� prolifico, Hilleman non fu il primo e neppure l'ultimo a percorrere la difficile strada della prevenzione (e della cura) delle malattie attraverso queste preparazioni, somministrate fin dalla fine del Settecento per fornire all'uomo l'immunit� contro i peggiori virus e batteri in circolazione. Tra curve strette, bivi difficili e fortunati fuoripista, l'Ayrton Senna del Gran Premio della vaccinologia degli esordi fu senz'altro il chimico e microbiologo francese Louis Pasteur. Era il 1885, quando nel suo laboratorio parigino, in rue d'Ulm, entr� Joseph Meister, un bambino di nove anni accompagnato dalla madre. Arrivavano da un villaggio dell'Alsazia: cinque giorni prima, il piccolo era stato azzannato pi� volte da un cane idrofobo. Joseph non aveva scampo, per questo il suo medico, un fan degli studi di Pasteur sulla rabbia, lo aveva mandato l�. "Ebbene, non morir�", fu la risposta del barbuto scienziato, che somministr� al piccolo il suo trattamento antirabbico. Era la prima volta che lo sperimentava su un essere umano: dopo 12 iniezioni e due settimane a letto, Joseph si alz� e torn� a casa, guarito. Pasteur, che confess� di aver trascorso notti tormentate, tir� un sospiro di sollievo. E dire che quella sorprendente invenzione era nata da un errore: sei anni prima, mentre studiava il colera dei polli, aveva inoculato per sbaglio nelle sue cavie alcuni batteri indeboliti, perch� rimasti fuori dal terreno di coltura. I fortunati volatili avevano sviluppato sintomi molto lievi della malattia e quando Pasteur aveva somministrato loro batteri vivi, non si erano ammalati. Il caso gli aveva suggerito il meccanismo alla base dei moderni vaccini attenuati: con un batterio o un virus indebolito in laboratorio, si poteva provocare una malattia pi� leggera che non danneggiava il paziente e lo rendeva immune alla versione pi� aggressiva del male. Ma in che modo Pasteur aveva reso meno letale il virus della rabbia? Procedendo per tentativi. Scopr� che, a mano a mano che la materia cerebrale infetta delle sue cavie seccava, il virus in essa contenuto perdeva forza, diventando innocuo nel giro di due settimane. Polverizzata e allungata in acqua, la poltiglia di cervello e virus indebolito si era trasformata nell'intruglio salvavita somministrato a Joseph. Pasteur lo chiam� "vaccino", in onore del suo precursore inglese Edward Jenner: quasi un secolo prima, il medico di campagna di Berkeley aveva salvato in modo simile i suoi pazienti dal vaiolo. Nel Settecento, quella orribile piaga del vaiolo mieteva 40-mila vittime l'anno nella sola Inghilterra. L'unico palliativo noto era la variolizzazione, usata fin dal X secolo in Cina e giunta poi in Europa attraverso la Turchia. Si trattava di un sistema un po' rudimentale, con cui i medici trasmettevano alle persone sane una forma pi� lieve di vaiolo, soffiando nelle loro narici le croste polverizzate dei malati.. o deponendo il pus delle piaghe infette su un graffio profondo. Certo non era al livello di un bacilloparty di ultima generazione no-vax, ma anche la variolizzazione era pericolosa: diffondeva il contagio impiegando un virus umano vivo, attenuato in modo artigianale. Perch� allora non provare con qualcos'altro? Jenner e molti suoi colleghi avevano notato che i mungitori erano immuni al vaiolo se sulle loro mani erano comparse delle piaghe, simili a quelle vaiolose e uguali a quelle che a volte spuntavano sulle mammelle delle mucche. E se il "vaiolo bovino", meno aggressivo del vaiolo umano, fosse stata la soluzione? Nel 1796, Jenner pass� ai fatti: prese James Phipps, il figlio di otto anni del suo giardiniere, e gli innest� il pus estratto dalle pustole di Sarah Nelmes, una mungitrice che aveva contratto il vaiolo bovino. Il ragazzino ebbe un po' di febbre, ma in due giorni guar�: due mesi dopo, quando, senza etica e scrupoli, il medico lo variolizz�, James non svilupp� alcun sintomo. Dopo due anni e altri 23 esperimenti, Jenner fu il primo a dimostrare scientificamente l'efficacia antivaiolosa di quello che ribattezz� "vaccino" (inteso come "derivato dalla mucca"), aprendo cos� la strada alle attenuazioni di laboratorio di Pasteur e alla gara all'ultima scoperta tra i "pastoriani", cio� i collaboratori dello scienziato francese, e i discepoli di Robert Koch, il padre tedesco della batteriologia. La corsa al primo rimedio contro un'altra grave malattia infettiva, la difterite, fu un testa a testa: nel 1888, il braccio destro di Pasteur, �mile Roux, aveva scoperto che il batterio della difterite produceva una tossina, un veleno che attaccava la gola dei malati e la faceva gonfiare, soffocandoli. Da qui partirono le ricerche del microbiologo prussiano Emil von Behring. Entrambi, per vie diverse, riuscirono a mettere a punto una cura, usando il siero sanguigno (cio� la parte liquida che rimane quando il sangue coagula) ricco di "qualit� antitossiche" di un cavallo reso immune alla difterite. Fu per� von Behring, grazie all'aiuto dell'immunologo Paul Ehrlich e delle sue teorie sugli anticorpi, a dare fondamenta pi� solide al suo studio e a ricevere il Nobel per la medicina, e il titolo non ufficiale di pioniere della moderna sierologia. Bench� l'effetto protettivo del siero si esaurisse in una ventina di giorni, la sieroterapia si estese alla cura di altre malattie, come il tetano, l'influenza spagnola del 1918-1920 e, oggi, in fase sperimentale, la Covid-19. Eppure tante vite salvate non bastavano: la gente continuava a non fidarsi dei vaccini. Ed era stato cos� fin dall'inizio. "Nella settecentesca et� dei Lumi, il "favoloso innesto" di Jenner non fu solo una conquista della medicina, ma anche uno spartiacque fra due schieramenti ideologici contrapposti", racconta il medico e saggista Giorgio Cosmacini, ne L'arte lunga. Storia della medicina dall'antichit� a oggi. "Da una parte gli "oscurantisti", che si opponevano a quella che consideravano un'offesa nei confronti del Creatore, dall'altra gli "illuministi", che erano a favore di una pratica efficace, che ritenevano figlia della "ragione vera" e nemica della cieca ignoranza". A offrire nuovi stimoli a quella che era diventata una storia d'amore complicata fu, dopo la Seconda guerra mondiale, un'epidemia particolarmente violenta di poliomielite. Il poliovirus, identificato nel 1949, colpiva il sistema nervoso centrale e i neuroni motori del midollo spinale: fra il 1951 e il 1955 uccise o paralizz� circa 28.500 persone all'anno. "I genitori non mandavano i figli a scuola e i bambini evitavano i parchi e le piscine e giocavano solo in piccoli gruppi e con gli amici pi� cari", ricordano gli Annali americani. Sembra un d�j�-vu. Ma anche allora, "poich� il panico non portava nulla di buono e la quarantena sembrava inutile, i genitori capirono che potevano proteggere al meglio i propri figli solo contribuendo [economicamente] alla scoperta di un vaccino o, magari, di una cura". La partita si gioc� sul suolo statunitense e a vincerla fu un vaccino. Anzi, due: il primo, messo a punto dallo scienziato statunitense Jonas Salk, conteneva virus inattivato e, invece di causare la malattia, stimolava gli anticorpi per difendere l'organismo in caso di contagio. Adottato tra mille festeggiamenti nel 1955, venne soppiantato pochi anni dopo dal vaccino con virus attivo attenuato del virologo polacco Albert Sabin: pi� economico e semplice da somministrare, a gocce su una zolletta di zucchero, quello di Sabin fu l'arma letale usata nelle vaccinazioni a tappeto partite dal 1962. Salk, il cui vaccino (potenziato) oggi � in uso in Italia, mor� nel 1995, mentre cercava un vaccino contro l'Aids. Poco pi� di un decennio prima era cominciata la vera rivoluzione nello sviluppo dei vaccini, scandita dall'avvento della biologia molecolare, delle tecniche di manipolazione del Dna e dello studio di ogni minima informazione contenuta nel Dna delle cellule dei microrganismi. Costruiti a tavolino, non pi� con gli stessi virus e batteri che devono combattere, ma solo con una parte delle loro molecole o con specifici antigeni, oggi i vaccini vecchi sono stati migliorati, mentre i pi� recenti sono in grado di prevenire i tumori o di venirci in aiuto contro malattie nuove e letali. Lontane come Ebola o vicine come Covid-19. La scienza della spesa (di Raffaella Procenzano, "Focus" n. 325/20) - Abbiamo fatto da cavia nel supermercato-laboratorio dove si studia, tracciando lo sguardo dei clienti, come distribuire meglio i prodotti sullo scaffale: obiettivo vendere - I rumori sono quelli giusti: tanto brusio, una musica di sottofondo e il "pin-pin" dei registratori di cassa al passaggio dei prodotti sul lettore. A un certo punto sento l'altoparlante: "Apre cassa 8", e l'illusione � pressoch� perfetta. Non mi accorgo neanche pi� del peso degli occhiali che porto sul naso e il mio sguardo percorre le confezioni di biscotti, scatolame, detersivi, mentre spingo il carrello tra i corridoi. Non mi resta che fare la spesa. No, non sono al supermercato: sono in un laboratorio scientifico "a forma" di supermarket. Qui, si valuta che cosa il cliente guarda davvero mentre fa la spesa, per capire qual � la disposizione migliore dei prodotti sugli scaffali e, soprattutto, se un nuovo prodotto di consumo che sta per essere lanciato sul mercato � abbastanza efficace, ovvero cos� attraente da catturare l'attenzione nei veri negozi della grande distribuzione ed essere acquistato. La raccolta dei dati sull'attenzione (anche inconsapevole) del cliente avviene principalmente grazie a un paio di occhiali "speciali", dotati di eye tracker, che consente di catturare la direzione dello sguardo che fruga tra gli scaffali e trasferire i dati a un computer collegato in tempo reale. Tutto viene registrato. Su uno schermo, che si trova nella stanza al piano di sopra, compaiono le immagini riprese dalle telecamere presenti in tutto il supermercato-laboratorio, in modo che i ricercatori possano vedere quali scaffali stiano guardando i clienti-cavia (gruppi di persone reclutate dalla societ� di marketing Ipsos) e soprattutto quali prodotti finiscano nel carrello e quali no. Ma le immagini pi� interessanti sono quelle riprodotte dai computer che si trovano nella stanza accanto al laboratorio: si tratta dei tracciati seguiti dagli occhi di chi in quel momento sta osservando i prodotti, rappresentati da punti colorati che scorrono tra la merce sullo scaffale. "Alle persone che entrano qui, e che reclutiamo con caratteristiche diverse a seconda della ricerca che stiamo conducendo, chiediamo solo di fare la spesa", spiega Carlo Oldrini, vicedirettore marketing di Ipsos Italia ma soprattutto creatore di questo negozio-laboratorio. "Diamo loro una lista di tipologie di prodotti da acquistare, per esempio un ammorbidente, una scatola di tonno, o qualcosa di pi� generico tipo "prodotti per la colazione". Indossano gli occhiali e cominciano. E capita che qualcuno ci resti male quando scopre che non pu� portare a casa gli acquisti. Noi, dopo averli registrati in cassa con un lettore, proprio come nei supermercati veri, dobbiamo ovviamente rimetterli a posto per i clienti successivi". Lo spazio � piuttosto grande, oltre 4.000 prodotti disposti su 467 metri lineari di scaffali distribuiti in modo da ricordare visivamente i negozi di una grande catena del Norditalia (perfino il pavimento � uguale, e cos� il grado di illuminazione dei locali). I rumori che i clienti ascoltano durante la spesa sono stati registrati in un vero supermercato di questa catena, il sabato mattina. Ci sono i banchi frigorifero per i surgelati e la zona cassa, mancano solo la zona frutta e verdura oltre alla panetteria o salumeria interna dove si viene serviti al momento. L'insieme comunque riesce bene a dare l'impressione di trovarsi in un vero supermercato. Funziona? "Funziona: i nuovi prodotti che abbiamo giudicato far presa sul consumatore nel nostro laboratorio-supermercato poi hanno avuto realmente successo negli store reali", racconta Oldrini. Lo Shopper-lab, attivo dal 2016, si trova a Milano e ha un "gemello" a Bari, inaugurato nell'aprile 2017. Grazie a laboratori come questo e a varie ricerche condotte in questi ultimi anni nei supermercati reali con l'uso degli occhiali eye tracker (e altri metodi di valutazione dell'attenzione), gli scienziati del marketing sono riusciti a capire come organizzare un punto vendita in modo da rendere ben visibile la maggior parte dei prodotti, rendere comodo l'acquisto disponendo la merce nel modo migliore e, soprattutto, vendere di pi�. Nei supermercati, infatti, gli articoli sono tanti, ma hanno tutti lo stesso problema: attirare l'attenzione del consumatore e, possibilmente, farsi mettere nel carrello. Davanti agli scaffali si gioca infatti il momento pi� importante del meccanismo di acquisto di un prodotto: fare la spesa, infatti, solletica la parte pi� evoluta del nostro cervello, offrendole innumerevoli possibilit� di fare ci� per cui � nata: scegliere. Secondo uno studio Ipsos, il 40% degli acquisti di largo consumo si decide proprio nel punto vendita, e il 20% riguarda prodotti non pianificati, cio� che all'entrata nel supermercato non si pensava di acquistare. Ovvio che chi organizza la disposizione della merce sui bancali stia molto attento: una ricerca dell'Universit� di Taiwan dimostra che le vendite di un singolo articolo, se posizionato nel posto giusto, possono aumentare anche del 70%. Per questo, il tracciamento dello sguardo, cio� la rilevazione di dove si posa l'occhio del cliente e per quanto tempo, diventa fondamentale. "Gli eye tracker sono dispositivi ormai divenuti molto piccoli e leggeri, montati su un normale paio di occhiali. Ci dicono con precisione che cosa il consumatore ha guardato, visto, notato e considerato prima di prelevare un certo prodotto e metterlo nel carrello", aggiunge Oldrini. "Per esempio: se non acquisto un nuovo dentifricio che compare oggi sullo scaffale, � molto importante sapere se questa novit� io l'ho vista oppure no; infatti se l'ho vista prima di comprare il mio solito dentifricio vorr� dire che ho valutato di non provarla, se invece il nuovo prodotto non l'ho proprio visto significa che il packaging non ha attirato la mia attenzione. Le indicazioni per il produttore nei due casi saranno diverse: nel primo si dovr� lavorare per migliorare il nuovo dentifricio (caratteristiche, prezzo, comunicazione ecc.), nel secondo si dovr� migliorare la visibilit� della confezione". La scelta del resto avviene in pochi attimi: si calcola che nel giro di 3 secondi i nostri occhi esaminano tra 10 e 15 prodotti. Normale che chi � di fronte allo scaffale non li ricordi affatto. Gli occhiali cio� mostrano ci� che il cervello ha visto senza che chi li porta ne sia consapevole. "C'� un episodio che racconto sempre: tre anni fa, quando stavamo ancora allestendo il nostro laboratorio, abbiamo fatto un primo test lasciando entrare una decina di casalinghe che abitano nei palazzi vicini. Poi abbiamo chiesto che marchi avessero visto nei vari reparti, tra i quali quello delle bibite. 10 su 10 hanno affermato con sicurezza di aver notato la Coca-Cola. Il bello � che per un disguido i prodotti di quella marca non ci erano ancora stati consegnati!", racconta Oldrini. Morale: non possiamo fidarci dei nostri ricordi, perch� il cervello procede per schemi fissi. E di fronte allo scaffale, pi� che considerare i prodotti uno a uno, lavora scartando tutto ci� che non ritiene interessante. La nostra mente, cio�, non "vede" davvero tutto, e di solito punta decisa verso ci� che sta cercando: "Una delle cose pi� sorprendenti che abbiamo scoperto durante i nostri studi � che, mentre si avvicina allo scaffale, il nostro sguardo cerca dei "punti di ancoraggio" per capire innanzitutto in quale corridoio ci si trova", continua l'esperto. "Cos�, la macchia blu delle scatole Barilla, per esempio, ci dice che siamo nel reparto della pasta, mentre le bottiglie grandi dei bagnoschiuma che in genere sono sullo scaffale in alto ci indicano che siamo tra i prodotti per l'igiene personale". A questo punto, una volta che ha capito dove si trova, il cervello coglie la logica con cui � disposto lo scaffale, ancorando appunto lo sguardo ad alcuni prodotti chiave. Cos� capisce per esempio che, tra i caff�, i decaffeinati stanno in una certa zona, i solubili a destra dei macinati, mentre in basso c'� la marca primo prezzo. � una fase molto breve ma dalla quale poi dipende la selezione e la scelta: pi� la disposizione � razionale e ordinata pi� � facile che un consumatore acquisti i prodotti esposti. Di pi�: una buona disposizione rende un po' pi� "visibili" i nuovi prodotti. Attrarre lo sguardo su una novit�, infatti, � molto difficile. Ma ci si prova: per esempio posizionando la merce che si vuole vendere di pi� ad altezza occhi (dove � pi� immediato notarla), oppure vicino a un'altra marca molto venduta, o ancora all'inizio del corridoio, dal lato dove arriva gran parte del flusso dei carrelli, in modo che lo sguardo ci cada sopra ancora prima di aver visto il prodotto abituale. Non a caso il posizionamento di un prodotto in una data zona dello scaffale o del supermarket ha un prezzo: le catene di grande distribuzione fanno pagare ai produttori i loro "posti migliori", quelli dove � pi� facile che cada l'occhio dei consumatori. La visibilit� di un prodotto, infatti, � fondamentale in una buona fetta delle decisioni su che cosa acquistare. Gli studi con l'eye tracking hanno dimostrato che il fattore pi� importante � proprio la velocit�: se per esempio la permanenza media davanti alle conserve di pomodoro � di 20 secondi, chi acquista una novit� l'ha notata nei primi 3 secondi, e in 7 casi su 10 l'ha vista prima del prodotto che compra di solito. Per capire che cosa scateni l'impulso all'acquisto sono in corso anche ricerche ancora pi� approfondite, che studiano addirittura le emozioni suscitate dai singoli prodotti. In questo caso, gli studi avvengono principalmente nei veri punti vendita, facendo indossare ai clienti che accettano di "fare da cavia" un dispositivo che misura la conduttanza della pelle (un sensore che si applica sul dito): un lieve aumento nella sudorazione, infatti, indica un coinvolgimento emotivo. Anche se, per sapere se si � trattato di una emozione positiva o negativa, bisogna comunque chiederlo direttamente a chi l'ha provata. Almeno questo, nonostante le diavolerie capaci di "leggerci dentro", gli esperti di marketing non riescono ancora a prevederlo. La lunga storia del bagno (di Massimo Manzo, "Focus" n. 333/20) - I primi gabinetti risalgono a 5.000 anni fa, i Romani facevano i bisogni in compagnia, mentre nel Medioevo ci si lavava poco e in gruppo. Finch� non arrivarono le invenzioni degli inglesi - C'� chi lo frequenta frettolosamente e solo per "bisogno", chi vi trascorre ore per farsi bello e chi vi si rifugia in cerca di intimit�, eleggendolo magari a "sala di lettura" o a "sala di navigazione sui social network". Di certo, la stanza del bagno � una delle pi� frequentate delle nostre abitazioni, ma se oggi diamo per scontata la sua presenza, per secoli disporre di uno spazio privato con servizi igienici, vasche, docce e lavandini � stato un privilegio riservato a pochi. "Le prime comunit� umane vivevano vicino ai corsi d'acqua, espletando i propri bisogni dove capitava, senza nessun imbarazzo", afferma la storica Penny Colman nel libro Toilets, Bathtubs, Sinks, and Sewers: A History of the Bathroom (Athenaeum). Fu solo nel III millennio a.C., in Mesopotamia, che comparvero gli antenati dei gabinetti, consistenti in fosse delimitate da lastre di pietra tondeggianti sulle quali "piegarsi" alla bisogna. Lo sviluppo delle prime citt�, dalla Cina all'Egitto spaziando per le civilt� della valle dell'Indo fino a Creta, port� inoltre alla creazione di rudimentali sistemi di canalizzazione dei rifiuti organici. Qui, il palazzo reale di Cnosso era dotato di avanzati impianti idraulici con condutture in terracotta, di una delle pi� antiche vasche da bagno della Storia, datata 1700 a.C., nonch� di un gabinetto con tanto di sedile in legno e "tazza" in ceramica. Sull'esempio cretese, intorno al VI secolo a.C., i Greci crearono grandi bagni pubblici "copiati" poi dai Romani, che ne fecero un loro marchio di fabbrica, edificando terme e latrine pubbliche in tutto l'impero. I balnea romani erano delle vere Spa, con piscine, bagni di vapore e palestre, in cui il riscaldamento delle acque e dell'aria era attuato tramite forni a legna sotterranei. A prezzi irrisori, chiunque poteva accedervi (uomini e donne entravano per� in orari diversi), usufruendo tra l'altro di massaggi con oli e unguenti profumati. "Finito il lavoro, l'appuntamento ai balnea era ritenuto un momento quasi "obbligatorio"", scrive la storica Federica Guidi nel libro Vacanze romane, tempo libero e vita quotidiana nell'antica Roma (Mondadori). "I bagni diventarono una sorta di "zona franca" dove tutti godevano di un'apparente omologazione sociale, dividendo gli stessi spazi". Presso gli impianti termali si trovavano le classiche "latrine", panche di pietra bucate al centro e disposte in circolo, che scaricavano i bisogni in efficientissime fognature. Mentre ci si "liberava", si potevano fare quattro chiacchiere con i propri vicini, in barba alla privacy, pulendosi infine con il tersorium, una spugna marina infilata su un bastone e condivisa da tutti, previa risciacquatura in canalette di acqua corrente. L'epoca medievale segn� un parziale cambio di rotta, poich� i padri della Chiesa, cio� quegli scrittori cristiani il cui insegnamento e la cui dottrina erano ritenuti fondamenti, considerarono "peccaminosi" i piaceri del bagno, tanto che San Benedetto, nel VI secolo, ammoniva: "a coloro che stanno bene, e specialmente ai giovani, raramente sia permesso l'uso dei bagni". Malgrado ci�, molte citt� furono dotate delle cosiddette "stufe", simili alle nostre saune, importate dai crociati dopo le spedizioni nel Medio Oriente islamico, patria di splendidi impianti termali. Proprio gli arabi, lavorando estratti vegetali con la soda caustica, furono i creatori del moderno sapone, che diffusero in seguito in Europa, dove la moda del bagno rimase comune soprattutto tra le classi sociali alte. "Di tanto in tanto i benestanti facevano il bagno condividendo la tinozza, e vari dipinti medievali li mostrano immersi nella vasca con vassoi di cibo in mezzo, con tanto di musici che li intrattengono", spiega Colman. Offrire un bagno caldo e profumato agli ospiti era una pratica comune nei castelli nobiliari, e in molti di essi erano presenti latrine incassate all'interno dei muri che scaricavano direttamente nel terreno al di sotto del sedile, in legno o di pietra. Erano chiamate allora in vari modi: "luogo necessario", "ritirata" o, pi� spesso, "garderobes", o "armadi". Tra XV e XVI secolo i bagni pubblici e le terme iniziarono a sparire, poich� si cominci� a credere che le abluzioni calde, dilatando i pori della pelle, facilitassero il proliferare di infezioni. A parte rare eccezioni, fino all'Et� moderna re e regine preferirono ricoprirsi di profumi e cipria, lavandosi con semplici spugnature di alcol etilico, come faceva Luigi XIV, di cui le cronache registrano due soli bagni "completi". Sul fronte del gabinetto, divennero di moda le "seggette", sedili forati con all'interno un vaso da notte, spesso imbottiti e finemente decorati. I comuni mortali, invece, si accontentavano di semplici pitali. Non mancarono tuttavia innovazioni avveniristiche, come il prototipo del WC (diminutivo di "water closet", ripostiglio d'acqua), ideato a fine '500 da Sir John Harington per la regina Elisabetta I. Si trattava di una "padella" sanitaria con un'apertura sul fondo, sigillata da una valvola collegata a una cisterna a torre. Azionando la valvola con delle manopole, si otteneva un effetto "sciacquone", ma il marchingegno emanava un lezzo insopportabile che lo fece finire nel dimenticatoio. Ad ogni modo, soprattutto nel '600 e in parte del '700 non ci si lavava affatto: nel 1750, solo il 6% dei palazzi di Parigi aveva un bagno. Con l'arrivo dell'et� dei Lumi, nel XVIII secolo, l'acqua non fu pi� considerata "nemica" della salute, ma i medici consigliarono bagni terapeutici, praticati in impianti dedicati all'idroterapia. Fu l'era delle grandi invenzioni, prima fra tutte quella del WC, brevettato dallo scozzese Alexander Cummings nel 1775 e ispirato dalla vecchia idea di Harington, a cui fu aggiunto il sifone, una tubatura a forma di U che, mantenendo un residuo d'acqua sul fondo della tazza, eliminava il passaggio dei cattivi odori. Poco prima, nel 1767, l'inglese William Feetham aveva introdotto la doccia meccanica, consistente in una pompa che spingeva l'acqua in un catino, da cui, tirando una catena, si poteva rovesciare "a pioggia" (tale prototipo fu modificato nel 1872 dal medico francese Merry Delabost, che introdusse un sistema di docce collettive per i detenuti). Nel frattempo erano comparsi anche il bidet (presente sia in lussuose case aristocratiche sia nei lupanari, per l'igiene personale delle prostitute) e, all'inizio dell'Ottocento, il rubinetto "a vitone", dotato di una valvola in grado di regolare il flusso dell'acqua. Progressi tecnologici a parte, le condizioni igieniche generali rimanevano precarie. Ancora nel 1830, un rapporto sulla citt� di Leeds, in Inghilterra, riportava come "intere strade galleggiano sulle acque reflue", fotografando una situazione comune a tante citt� europee. "In Gran Bretagna le cose cominciarono a cambiare poco dopo, in seguito a varie epidemie di colera, quando fu imposto di avere servizi igienici privati nelle case", afferma Colman. "Fu cos� che le citt� costruirono nuovi sistemi fognari e le aziende iniziarono a produrre sanitari, lavandini e vasche da bagno". Grazie all'allacciamento alla rete idrica e all'introduzione dell'acqua corrente e dei primi scaldabagni (prima a legna, poi elettrici e a gas), nel XX secolo la "stanza da bagno" divent� sempre pi� confortevole e popolare. Da ambiente "di servizio", nel secondo dopoguerra il bagno si trasform� in accogliente "rifugio" per la cura della persona, arricchito da numerosi prodotti "da toeletta": saponi, profumi, creme, rasoi. E oggi vi si possono trovare persino accessori hitech come il soffione per doccia con speaker musicale integrato o il WC "smart", dotato di funzioni personalizzate di lavaggio e asciugatura. Ma questa � un'altra storia. Dolomiti: emozioni verticali (di Stefano Ardito, "Ulisse, n. 419/19) - Un viaggio tra le montagne pi� accoglienti del mondo - Benvenuti nel mondo verticale. Torri di roccia dal profilo beffardo, pareti perpendicolari alte mille metri e pi�. Muraglie convesse, la Cima Ovest di Lavaredo su tutte, che si spingono all'esterno come il tetto di una cattedrale, sfidando le leggi della fisica. Benvenuti in un mondo di contrasti, dove valli e vette solitarie si alzano in vista dei passi, dalle piste da sci e dai belvedere pi� visitati delle Alpi. Dove la mondanit� di Cortina d'Ampezzo, di Madonna di Campiglio e dell'Alta Badia contrasta con la vita fuori dal tempo di decine di piccole frazioni montane. Dove pascoli e boschi perfettamente curati si distendono accanto a foreste selvagge abitate dalla lince, dal gufo reale e dall'orso. Sono molte le montagne del mondo, e molte sono tutelate dall'UNESCO. Tra gli 890 siti della World Heritage List che accoglie dallo scorso luglio anche le Dolomiti, ci sono i ghiacci dell'Everest, il cratere del Kilimanjaro, il granito del Cerro Torre e del Fitzroy nella Patagonia argentina. Quelle al confine tra il Veneto, l'Alto Adige, il Friuli e il Trentino, per�, sono montagne uniche al mondo. "Il Monte Bianco � straordinario, ma i suoi ghiacciai e il suo granito ricordano i massicci dell'Himalaya e delle Ande. Le forme e la roccia delle Dolomiti, invece, non hanno paragoni sulla Terra", spiega Reinhold Messner, l'alpinista altoatesino che � diventato famoso grazie alle sue imprese sull'Everest e sugli altri "ottomila", ma che � cresciuto in Valle di Funes, ai piedi delle torri di dolomia delle Odie. E che sulle montagne di casa, intorno ai vent'anni, ha aperto vie di arrampicata ben pi� difficili del tradizionale sesto grado. Se si parla del mondo verticale, ovviamente, l'attenzione va agli alpinisti. Le Dolomiti ne attirano decine di migliaia ogni estate, provenienti soprattutto dai Paesi di lingua tedesca e dall'Italia. La conquista di vette e pareti � iniziata nel 1857, con la prima ascensione del Pelmo da parte dell'irlandese John Ball, presidente dell'Alpine Club britannico, ed � proseguita con la conquista di molte delle cime pi� alte (la massima � la Marmolada di Pen�a, 3.343 metri) da parte del viennese Paul Grohmann, accompagnato da guide della Val Pusteria e di Cortina. Nel secolo e mezzo che separa quei signori in giacca di tweed e cappello floscio dai nostri giorni, l'attenzione si � spostata dalle cime alle pareti, poi � diventata ricerca di linee sempre pi� eleganti e pi� dure. Tra centinaia di personaggi che hanno lasciato la loro firma su queste rocce, � impossibile non citare gli austriaci Hermann Buhl e Paul Preuss, gli italiani Riccardo Cassin, Emilio Comici e Cesare Maestri, l'altoatesino Hans Vinatzer e i tedeschi Hans D�lfer e Dietrich Hasse. Oggi aspirano al titolo di massimo virtuoso della roccia il bavarese Alexander Huber, che oltre ad arrampicare suona il piano, e l'italiano Maurizio Zanolla detto "Manolo", nato a Feltre in Veneto ma che vive tra i boschi del Primiero, in Trentino, ai piedi delle Pale di San Martino. Ultimo a entrare sotto i riflettori � stato il tirolese Hansj�rg Auer, che nel 2007 ha salito da solo e senza corda Attraverso il Pesce, una via di nono grado sulla levigatissima parete Sud della Marmolada. Le Dolomiti, per�, sono montagne democratiche, e permettono a tutti di sfiorare le loro rocce verticali. Facili sentieri, in un'ora da una funivia o da un posteggio, portano alla base delle Tre Cime di Lavaredo, delle Torri del Vajolet, della Tofana di R�zes e di decine di altri giganti di roccia. Profili impressionanti e beffardi si ammirano dalle strade di Passo Pordoi e di Passo Sella, dai paesi, dalle piste da sci. In Val Gardena, o nelle valli del Bellunese, sentieri tracciati da allevatori e pastori si spingono sull'orlo di dirupi che sembrano senza fondo. Sono nate sulle Dolomiti le vie ferrate, gli itinerari attrezzati con scalette di ferro e cavi d'acciaio che consentono a chi non � alpinista di provare il brivido del mondo verticale. Le guide alpine, presenti in tutte le valli, sono l� per accompagnare in sicurezza i neofiti. Sulle Dolomiti l'inglese e il francese sono le lingue del turismo. In casa e al lavoro la gente delle valli pi� a nord parla da secoli tedesco, in quelle pi� a sud italiano. "Pochi sanno che alle due lingue pi� note si aggiunge quella ladina, che deriva dal "neolatino" medievale, e che � parlata nelle valli di Fassa, Badia e Gardena, a Livinallongo e a Cortina", spiega Fabio Chiocchetti, direttore dell'istituto Culturale Ladino di Vigo di Fassa. Capaci di convivere senza difficolt� per millenni, gli uomini delle Dolomiti di madrelingua tedesca e italiana si sono scontrati per due anni e mezzo, tra il maggio del 1915 e il novembre del 1917, quando la Prima Guerra Mondiale vide gli eserciti dell'impero di Austria-Ungheria e del Regno d'Italia combattere tra vette, ghiaioni e pareti. Raccontano di quel sangue cimiteri e sacrari militari, musei come quello creato da Reinhold Messner nel forte di Monte Rite, i crateri lasciati dalle mine sul Col di Lana e altre cime. E poi le trincee restaurate, i tunnel e i camminamenti trasformati in vie ferrate o sentieri, come quelli del Lagazuoi, delle Tofane, della Marmolada e della Croda Rossa d'Ampezzo. Racconta l'impatto del conflitto sulla vita dei montanari il museo realizzato nella vecchia scuola di Sesto in Pusteria, dedicato a Karl Ausserhofer e Kaspar Villgrater, due ragazzi altoatesini spediti in prima linea nel 1915. Nei loro diari, che sono il filo conduttore del museo, la strategia dei generali non compare, ma si legge di una vita fatta di angoscia e di attesa, di cannonate e valanghe, dei "pidocchi che tormentano i soldati in trincea pi� degli italiani". Cambiano nomi, abitudini, uniformi, ma i due giovani travolti dalla guerra avrebbero potuto chiamarsi Antonio e Peppino, o con due nomi inglesi, francesi o di un altro Paese coinvolto. La guerra, per quanto terribile, � stata solo una parentesi. Divisi dalla lingua, ma uniti dall'ambiente, dal lavoro e dalla fede, gli uomini delle Dolomiti hanno creato nei secoli un paesaggio uniforme fatto di boschi sfruttati con sapienza, di mulattiere e di malghe, di formaggi e di zuppe, di prati falciati con attenzione e punteggiati da fienili in legno. Poi ci sono le chiesette e i crocifissi di legno, le staccionate e i ponticelli, i tanti altri elementi che stupiscono ogni anno migliaia di visitatori. Migliaia di loro, ogni anno, riportano a casa fotografie e ricordi. Altri, pi� famosi, si sono ispirati alle Dolomiti per creare la loro arte. I profili di queste cime rocciose affiorano nelle incisioni del tedesco Albrecht D�rer, che percorse nel 1495 le valli trentine, e di Tiziano Vecellio, grande nome della pittura italiana, nato nel 1480 a Pieve di Cadore. L'atmosfera delle Dolomiti ha ispirato Gustav Mahler, il compositore di lingua tedesca e di origine boema che scelse Dobbiaco per le sue vacanze nelle estati dal 1908 al 1910, vi fu consumato dalla gelosia per i tradimenti della moglie Alma, e vi compose la sua Nona Sinfonia e il Lied von der Erde, il Canto della Terra in italiano. In queste valli lo scrittore, giornalista (e alpinista) Dino Buzzati, nato ai piedi delle Dolomiti Bellunesi, ha visto i "roccioni altissimi, costoni franati, lunghi spacchi tenebrosi" di B�rnabo delle montagne, e le "dirupate catene, apparentemente inaccessibili" che incombono sulla Fortezza Bastiani de Il deserto dei Tartari, un altro dei suoi capolavori. Le Dolomiti sono anche un luogo grande della cultura europea. J-Ax: faccio rap anche per i settantenni (di Alessandro Alicandri, "Tv sorrisi e canzoni" n. 27/20) Cosa si nasconde dietro una canzone dell'estate? Di solito, il desiderio di far divertire la gente. Dietro "Una voglia assurda", il nuovo singolo di J-Ax, c'� invece un mondo. Nella nostra chiacchierata abbiamo parlato quasi solo del brano: vi sorprender� quante cose si possono nascondere tra le pieghe di una canzone. - J-Ax, l'ho vista tempo fa sui social con una barba lunghissima, un po' come Tom Hanks naufrago sull'isola di "Cast Away". Cos'� successo? "Dall'inizio della quarantena ho deciso di smettere di essere J-Ax. Il mio pizzetto, che ne � un po' il simbolo, � sparito con la barba che cresceva. Non mi ricordo quando � stata l'ultima volta che mi sono trascurato cos� tanto. Lo scoraggiamento ha preso il sopravvento, non sono stato bene". - Il motivo? "Ero pieno di paure per questa epidemia. Quando smetti di essere ci� che sei sempre stato, per il pubblico e per te stesso, cosa rimane? Ecco, ho fatto un po' i conti con Alessandro, quello di oggi e del mio passato". - Che cosa ha capito? "Che sono cambiato cos� tanto e cos� in fretta da sentirmi in qualche modo "slegato" dai brani realizzati per il mio ultimo album "ReAle". Avrei potuto lanciare un nuovo singolo preso da l�, ma avevo bisogno di tracciare una riga e ricominciare da capo". - Che cosa le ha fatto abbandonare la stasi in cui si trovava? "L'insistenza dei fan che mi hanno visto sparire dai social e hanno capito come stavo anche se non l'ho detto ad alta voce. Poi, una base musicale che mi � arrivata da Takagi & Ketra". - Il brano comincia con una frase provocatoria: "L'industria della musica � fallita". "Dopo tutto quello che � successo nel mondo della musica e dei concerti ho mostrato quello che gli inglesi chiamano "l'elefante nella stanza": un problema che tutti vedono, ma di cui nessuno vuole parlare". - Lei non ha mai nascosto i momenti "no" della sua carriera. "Preferisco stare al numero dieci delle classifiche per 25 anni che al numero uno per sei mesi. Le classifiche interessano gli addetti ai lavori e chi sta su Twitter. Alle persone interessa la musica e a me interessa un successo che cresce come una volta, attraverso il passaparola. Le mie canzoni sono spesso partite bene ma non benissimo. Per� dopo decenni le ricordano tutti". - Come "Tranqi funky", che viene citata in "Una voglia assurda". "S�, un brano estivo del 1996 che � decollato solo dopo mesi, addirittura a settembre". - Perch� lo cita? "� una canzone che mi ha cambiato la vita. Ricordo ancora quell'anno: ero a Napoli in Piazza del Plebiscito per il "Festivalbar", il furgone in cui stavo pass� in mezzo alla folla e c'era cos� tanta gente accalcata attorno che a un certo punto si � ribaltato". - Le piace ricordare il passato? "Nel nuovo singolo dico: "Al futuro penso poco, perch� mi manca il presente e il passato vorrei fosse remoto". Onestamente, non sono uno che si guarda molto indietro. Il passato � importante solo se nel presente non vieni dimenticato". - A proposito di passato, � dal 2015 che ogni estate ci fa compagnia con una canzone. � solo un piacere o � anche un dovere? "Dopo "Maria Salvador" sono arrivate "Vorrei ma non posto", "Senza pagare" e "Italiana" con Fedez... poi "Ostia Lido". Ormai per me � un rito. In pi� quest'anno � stato il mio modo per tornare in qualche modo alla normalit�". - Nel testo cita il programma "Non � la d'Urso". Barbara le ha scritto? "Finora no! Non volevo essere polemico in realt�, io non guardo mai la televisione ma il video dell'inseguimento aereo visto a "Pomeriggio Cinque" mi ha fatto pensare a come avrei reagito io se fossi stato inseguito dalle telecamere per aver violato la quarantena. La cito per ridere". - In "Una voglia assurda" nomina anche il cantautore Brunori Sas, e nel brano realizzato con Alberto Urso, una versione moderna di "Quando quando quando", si citano Roberto Benigni e Sophia Loren. Se sono amici o colleghi, li avvisa? "Mai fatto. Devo dire che in tutti questi anni nessuno si � offeso. Al massimo mi fanno una battuta quando mi incontrano. La verit� � che spesso sono felici di essere nominati. E poi il motivo per cui scelgo certi nomi e non altri � solo uno". - Quale? "Suonano bene nel discorso e fanno rima con parole comuni. Questa � la grammatica del rap". - A fine marzo un'indagine pubblicata da "Il Sole 24 Ore" ha definito quali sarebbero stati i desideri, anzi, "le voglie assurde" degli italiani non appena finita la quarantena. Tra i desideri pi� citati c'era la voglia di fare festa. "Una cosa che ancora non si pu� fare. O almeno, non come dico io". - L'impossibilit� di fare concerti per lei � frustrante? "Ho visto che tanti si sono arrabbiati perch� i concerti con alta affluenza sono impossibili o quasi, ma le manifestazioni dove sembra tutto fuori controllo s�. La mia opinione � che io non posso divertirmi se so che chiamando a raccolta i miei fan magari li metto in pericolo". - Di tv ne ha fatta in modo sempre misurato, diviso tra grandi format internazionali e sperimentazioni assolute. C'� qualcosa che le piacerebbe fare (o rifare) in tv? "C'� uno sfizio che mi vorrei togliere ed � quello di presentare un quiz o un "game show". Non scherzo: mi divertirei troppo nel riportare in onda uno di quei format storici come "La ruota della fortuna" o "Il pranzo � servito"". - Ora andr� in vacanza? "Quando la situazione sar� pi� tranquilla, magari in agosto, mi sposter� con la famiglia su qualche bel lago della Lombardia o del Piemonte, ma niente di pi�. Come sostenevo l'anno scorso in "Ostia Lido", qui in Italia non ci manca proprio nulla". - Parlando di "Ostia Lido" mi ha fatto venire in mente che in tantissime occasioni, e anche nel videoclip di "Una voglia assurda", ci sono sempre persone anziane. � una sua costante, non pu� essere un caso. "Da quando ero ragazzino non sopporto tutto ci� che � "alla moda" e sto dalla parte di chi � messo in disparte. A volte ricevo delle lettere di miei fan che hanno pi� di 70 anni e mi riempiono di gioia: sono la dimostrazione che si pu� essere moderni e vitali quando � la testa a comandare e non l'et� scritta sulla carta d'identit�. In un mio libro su di loro ho scritto che "la loro forza, resilienza, gentilezza e eleganza ci guidano sempre. Anche quando non ci sono pi�". C'� un brano del 2002, "Gente che spera", dove parlo del legame indissolubile con i miei nonni. Le cose importanti non cambiano mai".