Ottobre 2019 n. 10 Anno XLIX MINIMONDO Periodico mensile per i giovani Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registrazione 25-11-1971 n. 202 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del MiBACT. Indice A un passo dal baratro Un antibiotico al giorno non toglie il batterio di torno Rivoluzione quacchera Sandali: quanta strada han fatto Rag�: i segreti del sugo perfetto Delhi: una citt� chiama l'altra Mod�: ecco perch� noi non ci lasceremo mai A un passo dal baratro (di Massimo Manzo, "Focus" n. 315/19) - Pi� volte nella storia, l'umanit� ha evitato per un soffio guerre sanguinose o vere e proprie stragi di massa. Ecco quando � accaduto e cosa ci ha salvato - Washington, 22 ottobre 1962: il presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy rivela in televisione che l'Unione Sovietica ha appena dispiegato sull'isola di Cuba, a pochi chilometri dalla Florida, missili nucleari pronti a partire e ad attaccare l'America. Per alcuni giorni tutto il mondo vive il rischio di un olocausto nucleare che, per un soffio, viene evitato. Un caso unico? Nient'affatto: fin dall'alba dei tempi, ci sono stati momenti particolari - soprattutto guerre e battaglie - che potevano portare il mondo (o un Paese) a un passo dall'Apocalisse. Eventualit� che sono state evitate all'ultimo momento, quando tutto sembrava volgere al peggio. Spesso a scongiurare il massacro sono stati abili diplomatici, ma a volte � bastato un colpo di fortuna o l'intervento di persone "qualunque" al posto giusto nel momento giusto. Gli episodi pi� clamorosi sono avvenuti durante la Guerra fredda, quando le conseguenze di un conflitto nucleare sarebbero state enormi (e del resto potenzialmente lo sono ancora) per tutti gli abitanti del pianeta. Il momento peggiore probabilmente fu proprio la "crisi dei missili" di Cuba. Sull'isola governata dal regime comunista di Fidel Castro, l'Unione Sovietica stava costruendo delle basi per lanciare missili nucleari in grado di colpire gli Stati Uniti. Quando la Cia se ne accorse, il presidente Kennedy ordin� il blocco navale di Cuba e la minaccia di affondare ogni nave russa in avvicinamento. Per tredici giorni (15-28 ottobre) si susseguirono i tentativi di mediazione, incluso quello di papa Giovanni XXIII, finch� i sovietici ordinarono alle navi di invertire la rotta. Il leader dell'Urss, Nikita Chruscev, s'impegn� a rimuovere le rampe missilistiche dall'isola, e Kennedy fece altrettanto con i missili installati in Turchia e in Italia, impegnandosi inoltre a non appoggiare tentativi di golpe anti Fidel Castro. In quei tredici giorni di tensione si verificarono due incidenti potenzialmente devastanti, prevenuti da due ufficiali di medio calibro, il russo Vasili Arkhipov e lo statunitense William Bassett. Il 27 ottobre, infatti, Arkhipov si trovava nelle acque cubane in un sottomarino bersagliato da alcuni missili americani, lanciati al fine di farlo riemergere. Arkhipov dissuase i suoi superiori dal rispondere con un micidiale siluro nucleare, il cui lancio avrebbe scatenato una reazione a catena (e ovviamente la guerra). Il giorno seguente, nella base Usa di Okinawa, il capitano dell'aeronautica Bassett ricevette un messaggio in codice che gli ordinava di lanciare quattro missili verso l'Unione Sovietica. Dedusse che doveva trattarsi di un errore ed evit� quindi di procedere. Oltre vent'anni dopo (1983), ancora in clima di guerra fredda, il peggio fu evitato grazie ai nervi d'acciaio dell'ufficiale russo Stanislav Petrov. La notte del 26 settembre si trovava in un bunker segreto con il compito di verificare le informazioni trasmesse dai satelliti e avvertire i superiori in caso di attacco americano. Intorno a mezzanotte i computer segnalarono il lancio di cinque testate nucleari. La procedura non lasciava dubbi: bisognava riportare l'accaduto per organizzare un'immediata controffensiva. Nella mente di Petrov balenarono per� alcuni dubbi: perch� gli americani avrebbero dovuto scatenare una guerra atomica lanciando "solo" cinque missili? E perch� i radar terrestri non confermavano gli avvistamenti? Non trovando risposte, Petrov interpret� il segnale come un falso allarme, ed ebbe ragione: a ingannare il computer erano stati i riflessi del sole combinati a una banalissima perturbazione. Ironia della sorte, l'ufficiale fu redarguito per non aver rispettato la procedura. Appena due mesi dopo, la terza guerra mondiale rischi� di scoppiare a causa di un'esercitazione militare. L'operazione, chiamata Able Archer e coordinata dalla Nato, fu cos� realistica da essere scambiata dai sovietici per una manovra ostile, inducendoli a schierare bombardieri e sottomarini in varie zone strategiche, pronti a reagire a un attacco atomico. Che fortunatamente, non arriv� mai. In realt�, durante il Dopoguerra, anche l'Italia ha rischiato un sanguinoso conflitto, e probabilmente la rivoluzione. A scongiurarla in questo caso non fu il buon senso di un militare, ma le gesta di uno sportivo. A Roma, il 14 luglio 1948, uno studente di destra spar� a Palmiro Togliatti, leader del Partito Comunista, e in poche ore nacquero spontaneamente cortei e scioperi di protesta duramente repressi dalla polizia. La tensione sal� vertiginosamente e in molti temettero lo scoppio di una guerra civile. A riportare la calma e a fare in modo che tutti, prima di ogni cosa, si sentissero compatrioti fu il ciclista Gino Bartali, che accumul� una serie di successi al Tour de France "distraendo" gli italiani da propositi bellicosi. Per alcuni storici, la vittoria di Bartali sul colle dell'Izoard il 15 luglio fu in questo senso pi� incisiva degli inviti dello stesso Togliatti a restare tranquilli. Nel corso della storia, del resto, altre volte eventi inattesi hanno scongiurato una strage. Il primo in assoluto di questi episodi lo racconta lo storico greco Erodoto nelle sue Storie (V secolo a.C.). Il 28 maggio 584 a.C., presso il fiume Halys, nell'odierna Turchia, dopo cinque anni di scontri le armate dei Lidi e quelle dei Medi, tra le pi� temibili dell'epoca, erano pronte a fronteggiarsi nella battaglia decisiva: di sicuro sarebbe stato un massacro. A un tratto, per�, "il giorno si fece notte", racconta Erodoto. Tale evento (una banale eclissi) fu letto come un monito divino, e cos� "Lidi e Medi troncarono la battaglia e si affrettarono a concludere la pace". Sul finire dei tempi antichi, anche a Roma capit� di salvarsi in extremis da una brutta sorte. Ma questa volta fu tutto merito di un'azione diplomatica. Correva l'anno 452 e, dopo aver devastato Aquileia e Padova, il re unno Attila era in procinto di attaccare l'Urbe con le sue orde. Lo fece desistere, presso le rive del Mincio (Mantova), papa Leone I. Nessuno sa che cosa si dissero, ma leggenda vuole che il barbaro fu convinto ad andarsene da una "visione" dei santi Pietro e Paolo. Gli storici ritengono che il flagello di Dio fece in realt� marcia indietro dopo aver ricevuto un generoso tributo in denaro da parte del pontefice. A evitare di un soffio un'ennesima strage, durante le Crociate, fu invece l'intelligenza di Federico II di Svevia. Gi� scomunicato per aver annullato una precedente spedizione in Terrasanta, nel 1228 l'imperatore salp� verso i luoghi santi in occasione della sesta crociata, ma anzich� dar battaglia, intavol� un'amichevole trattativa con il sultano al-Malik al-Kamil, ottenendo per i cristiani l'amministrazione di Gerusalemme e garantendo in cambio ai musulmani l'accesso ai luoghi di culto. Il tutto senza versare una goccia di sangue. Secoli pi� avanti, tra le guerre evitate per un pelo grazie alla diplomazia si aggiunse un episodio che coinvolse due "giganti": l'impero britannico e quello russo, in lotta per il dominio sull'Asia Centrale. Il 30 marzo 1885 i russi occuparono lo sperduto forte di Panjdeh, al confine con l'Emirato dell'Afghanistan, gi� dichiarato protettorato inglese. Londra si allarm�: se avessero proseguito la loro marcia, i russi avrebbero presto minacciato i possedimenti britannici in India. Fu cos� inviato un contingente militare, mentre il New York Times titolava "Inghilterra e Russia pronte a combattere". Sembrava che la situazione stesse precipitando. A quel punto, per�, l'emiro afghano Abdurrahman convinse i britannici a fare un passo indietro, affidando la contesa a un arbitrato internazionale. Cos�, anche quella volta, la guerra rest� solo un'ipotesi. Un antibiotico al giorno non toglie il batterio di torno (di Margherita Fronte, "Focus" n. 324/19) - Li prendiamo con troppa facilit� e anche quando non servono. Cos� molti batteri sono diventati immuni e stanno tornando a uccidere - In Italia ogni anno quasi 11.000 persone muoiono a causa di infezioni che, fino a pochi anni fa, si curavano con gli antibiotici. La cifra, comparsa nei mesi scorsi su Lancet Infectious Diseases, supera di gran lunga quella registrata negli altri Paesi europei: i batteri invulnerabili alle terapie, infatti, circolano in tutto il continente (e ovunque nel mondo), ma da noi ce ne sono di pi� e sono anche pi� cattivi. All'origine del fenomeno c'� il pessimo uso che in Italia, pi� che altrove, si fa degli antibiotici. "In questo modo si creano le condizioni affinch� i germi alzino le difese e diventino immuni", sintetizza Antonio Clavenna, responsabile dell'Unit� di farmacoepidemiologia dell'Istituto Mario Negri di Milano. � un meccanismo evolutivo analogo a quello che ha permesso a Homo sapiens di evolversi e adattarsi all'ambiente... Ma per i batteri � molto pi� rapido. Nel 1945 Alexander Fleming, lo scopritore della penicillina, aveva gi� individuato questo rischio e aveva perci� invitato a utilizzare con prudenza quella straordinaria medicina, per evitare di creare ceppi invulnerabili alla sua azione. Non fu ascoltato. Un recente rapporto dell'Organizzazione Mondiale della Sanit� dipinge il quadro della crisi globale. "Le malattie infettive che non rispondono alle terapie uccidono ogni anno, nel mondo, 700.000 persone. Fra queste, 230.000 sono vittime della tubercolosi multiresistente" (che ha fatto registrare anche in Italia 56 casi, nel 2017). La previsione per i prossimi decenni � ancora pi� fosca: se non si far� nulla, nel 2050 i morti potrebbero essere 10 milioni all'anno, con danni economici paragonabili a quelli determinati dalla crisi del 2008-2009. La tendenza al peggioramento � gi� molto netta. Facendo i conti per l'Europa, Lancet Infectious Diseases ha trovato che dal 2007 al 2015 i decessi sono quasi triplicati, passando da 11.444 a 33.110. A pagare le conseguenze sono soprattutto i bambini nel primo anno di vita e gli over 65, mentre nella classifica dei Paesi con le performance peggiori l'Italia stacca di gran lunga tutti gli altri. Per il numero dei decessi - circa un terzo del totale - ma anche per altri indicatori. Un rapporto dell'Agenzia italiana del farmaco pubblicato a febbraio mostra, per esempio, che il consumo di antibiotici nel Belpaese � nettamente superiore rispetto alla media europea, pur avendo fatto registrare un calo dell'1,6% fra il 2016 e il 2017. E battiamo tutti, tranne la Spagna, anche nell'impiego di questi farmaci negli allevamenti, come testimonia l'ultima relazione sul tema dell'Agenzia europea del farmaco. Certo, i numeri non dicono che gli altri siano virtuosi. E tuttavia l'Italia si distingue non soltanto per le quantit� abnormi di medicinali in circolazione, ma anche per il tipo. "Usiamo per il mal di gola o le infezioni urinarie antibiotici come i fluorochinoloni e le cefalosporine di terza generazione, che all'estero sono riservati quasi solo agli ospedali. Buona parte dei danni arriva da qui: infatti, i batteri resistenti a questi farmaci sono quelli che pi� spesso determinano malattie difficili da trattare", spiega Clavenna. "Non dimentichiamo per� che i tre quarti degli antibiotici sono prescritti dai pediatri e dai medici di base (il resto nelle strutture sanitarie). Si dovrebbe quindi intervenire su queste figure professionali con programmi di formazione mirati. Dove � stato fatto, per esempio con il progetto Proba, in Emilia-Romagna, la qualit� della prescrizione � migliorata". "Mancano corsi di aggiornamento per i medici che gi� operano, ma anche insegnamenti nelle universit�", aggiunge Evelina Tacconelli, direttrice della Clinica delle malattie infettive dell'Universit� di Verona. "La prescrizione di antibiotici interessa tutte le specializzazioni della medicina. Eppure non abbiamo un corso che insegni ai futuri medici come comportarsi". � invece pi� difficile valutare in che misura il consumo eccessivo sia attribuibile all'acquisto di queste medicine in farmacia e senza ricetta. Il malcostume sembra per� abbastanza diffuso: in un sondaggio della Commissione Europea divulgato lo scorso novembre, il 9% degli italiani che avevano assunto antibiotici nell'ultimo anno non aveva la prescrizione. Con un fardello cos� pesante, non sorprende che, fra i Paesi occidentali, il nostro sia tra quelli che destano le preoccupazioni maggiori delle autorit� internazionali. I batteri resistenti, infatti, non conoscono confini e si diffondono rapidamente. "Anche negli Stati Uniti si usano molti antibiotici, sull'uomo e soprattutto negli allevamenti", riprende Tacconelli; "l� per� stanno investendo moltissimi soldi per arginare il fenomeno, sia con interventi di salute pubblica, sia nella ricerca di nuove soluzioni terapeutiche. Da noi c'� un Piano nazionale di contrasto all'antibiotico-resistenza, che � un buon punto di partenza, ma � povero di risorse". Gi�, il Piano di contrasto. Varato alla fine del 2017, risponde all'invito a dotarsi di strategie nazionali, che l'Oms aveva rivolto a tutti gli Stati membri nel 2015. L'Italia � fra i primi Paesi ad aver ottemperato alla richiesta, con un documento che, entro il 2020, si propone di ottenere un calo del 10% dell'uso di antibiotici sul territorio, e una riduzione del 5% negli ospedali. In ambito veterinario, ci si prefigge addirittura un meno 30%. Per centrare gli obiettivi, il Piano prevede azioni di monitoraggio, di contenimento dell'uso improprio dei farmaci, di prevenzione delle malattie infettive, nonch� interventi di formazione e comunicazione. Ma la mancanza di risorse non � l'unico punto debole della strategia. "L'altro � che non sono previste sanzioni per le regioni che non otterranno risultati", sottolinea Tacconelli. "In questo modo, le realt� gi� sensibilizzate faranno di tutto per raggiungere gli obiettivi, ma le altre potrebbero restare indietro". La stessa debolezza si riscontra nel Piano d'azione che l'Unione Europea ha pubblicato nel 2017. La strategia si basa su tre pilastri: fare della Ue una regione in cui si applicano le pratiche migliori, riducendo i divari fra gli Stati; stimolare la ricerca e le politiche supportate da dati scientifici; disegnare l'agenda globale, promuovendo azioni che possano essere applicate anche in altri contesti. "Manca per� ancora la definizione di parametri precisi e misurabili, che i singoli Stati dovrebbero raggiungere entro un tempo determinato. Penso, per esempio, alla presenza di determinate strategie di controllo delle infezioni negli ospedali. E dovrebbero esserci sanzioni per i Paesi inadempienti", conclude Tacconelli. "Il modello da seguire � quello messo in pratica con la lotta all'inquinamento. In quel caso, si sono stabilite delle soglie per i diversi inquinanti, il cui superamento comporta delle multe. Lasciare l'applicazione delle indicazioni alla buona volont� dei singoli Stati non basta". 5 regole per usarli bene - Non assumerli se non � il medico a prescriverli. - Non interrompere la terapia se ci si sente meglio, ma prendere tutte le pillole indicate. - Tenere presente che gli antibiotici uccidono i batteri, ma non servono a nulla contro le malattie provocate dai virus, come il raffreddore o l'influenza. - Non avere fretta: il nostro sistema immunitario � fatto per combattere le malattie. Possiamo aspettare due o tre giorni per vedere se il malanno passa da s�. - Gettare via gli antibiotici non utilizzati, anche se non sono scaduti, per evitarne un uso improprio e/o con un dosaggio sbagliato. Rivoluzione quacchera (di Giulio Talini, "Focus Storia" n. 156/19) - Una storia che si intreccia con quella dell'Inghilterra e dell'America - "Ho ritenuto che la dottrina e la storia di una comunit� tanto singolare fossero degne della curiosit� di un uomo ragionevole". Questo l'esordio delle Lettere filosofiche di Voltaire, pubblicate per la prima volta nel 1733. La "comunit�" in questione � quella dei quaccheri, movimento cristiano sorto intorno alla met� del XVII secolo in Inghilterra. Ma cosa avranno mai professato di tanto "singolare" da attirare il philosophe mangiapreti e antifanatico per eccellenza? Tolleranza e pacifismo in primis, non a caso due capisaldi dell'Illuminismo. E altro ancora. Quando apparvero i quaccheri? La data di fondazione, a volerne trovare una, � il 1647, l'anno in cui l'inglese George Fox (1624-1691), giovane inquieto di famiglia puritana, ebbe l'esperienza mistica che cercava da tempo: "Ho sentito una voce", raccont� nel suo diario, "che diceva: "C'� uno soltanto, Ges� Cristo, che pu� rivolgersi alla tua condizione", e quando l'ho sentita il mio cuore ha sussultato di gioia". Dio lo stava chiamando, non aveva dubbi. E se Dio chiama, bisogna rispondere. Negli anni successivi, Fox viaggi� senza sosta nell'Inghilterra del Nord e poi nel resto d'Europa per fare proseliti. Gi� nel 1652 lo affianc� un gruppo di seguaci predicatori, sia uomini sia donne, disposti a tutto pur di diffondere il messaggio (Elizabeth Fletcher, per dirne una, cammin� nuda per le strade di Oxford nel 1654). Prima chiamati Figli della Luce, poi Societ� degli Amici, presto tutti li conobbero come quaccheri, dall'inglese quakers ("tremolanti"), nome forse dovuto alle loro esperienze mistiche. L'Inghilterra della met� del Seicento pullulava di movimenti e di idee. Non che debba stupirci: il caotico ventennio tra il 1640 e il 1660, segnato da fermenti rivoluzionari e repubblicani e dall'ascesa di Cromwell, vide l'allentarsi della censura sulla stampa e il moltiplicarsi di opuscoli e di operette audaci. Qualcuno, sostiene Christopher Hill, autore del classico Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell'Inghilterra del Seicento, arriv� perfino a immaginare una "rivoluzione che non scoppi� mai", quella della "propriet� comune", di una "democrazia assai pi� ampia" e capace di "scalzare la Chiesa di Stato". Ma a differenza di gruppi a sfondo esclusivamente politico o sociale, come i Levellers, i quaccheri si collocavano nel solco dei movimenti radicali di stampo religioso. Con parecchi segni distintivi per�. A cominciare dal vestiario sobrio e impersonale, descritto scrupolosamente da Voltaire: "Come tutti quelli della sua religione", ricorda l'illuminista a proposito di uno degli Amici, "era vestito con un abito senza pieghe sulle costure e senza bottoni sulle tasche e sulle maniche, e come i nostri ecclesiastici portava un grande cappello con le pieghe rialzate". Sotto quell'outfit volutamente anonimo, i quaccheri celavano un pensiero profondo, sistematizzato per la prima volta dal teologo Robert Barclay nel 1676. Al cuore del quaccherismo stava la ricerca mistica della luce interiore insita, secondo loro, in ogni fedele. Perci�, eucarestia, battesimo e compagnia bella servivano a ben poco. L'importante era il succo del messaggio di Cristo, da prendere alla lettera: amore e fratellanza evangeliche imponevano agli Amici di tollerare anche chi sposava un'altra fede e, soprattutto, di opporsi risolutamente alla guerra, folle fratricidio di massa. Chiarissimo al riguardo il Peace Testimony (1660), manifesto del pacifismo quacchero: "Noi rifiutiamo completamente qualunque forma di guerra, di conflitto e di lotta con armi materiali, per qualsiasi fine e per qualsivoglia pretesto". Un credo radicale quindi, ma anche potenzialmente sovversivo. Almeno agli occhi delle autorit�: "Il rifiuto del sacerdozio", spiega Peter Van Den Dungen, storico all'Universit� di Bradford, "e di molte altre componenti della religione istituzionalizzata, insieme con l'adozione di un costume sociale che rifletteva la loro visione dell'essenziale uguaglianza di tutti gli esseri umani e che rigettava le distinzioni di classe, certamente facevano apparire i quaccheri una setta pericolosa e rivoluzionaria". Nel dubbio, potere politico e clero anglicano perseguitarono duramente gli Amici, con violenze, arresti e torture. Significativo il caso di James Nyler, imprigionato e seviziato nel 1656 dopo aver messo in scena l'ingresso di Ges� a Gerusalemme entrando a cavallo a Bristol con alcuni seguaci. A detta degli storici, nella seconda met� del XVII secolo i quaccheri arrestati raggiunsero quota 11-mila. Anche la legge serv� alla repressione: � del 1662 il cosiddetto Quaker Act, con cui Carlo II e il Parlamento britannico vollero impedire "i misfatti e i pericoli che potrebbero derivare da certe persone chiamate quaccheri". Il provvedimento, in buona sostanza, impediva i meeting delle comunit� degli Amici e rendeva illegale rifiutare la dichiarazione di fedelt� alla Chiesa d'Inghilterra. La fede, tuttavia, rimase salda e tanti seppero resistere all'ostilit� dei piani alti. Qualcosa cambi�, almeno in apparenza, grazie a un quacchero con buoni agganci negli ambienti di corte, William Penn (1644-1718). Figlio di un famoso ammiraglio della Marina britannica, Penn ader� definitivamente alla Societ� degli Amici nel 1668 e, come molti compagni, fin� pi� volte in gattabuia, finch� non si convinse che il futuro degli Amici fosse l'America, nuova Terra Promessa. Ora, visto che suo padre vantava crediti nei confronti della monarchia e che gli era amico il duca di York, fratello di Carlo II e futuro re, Penn non ebbe troppa difficolt� nell'ottenere dal sovrano la concessione di terreni a ovest del Delaware nel 1681. Nacque cos� la colonia della Pennsylvania, con capitale Philadelphia. Per Penn i territori al di l� dell'Atlantico dovevano servire da laboratorio in cui applicare integralmente i valori quaccheri. Nel Nuovo Mondo non c'era spazio per odio e intolleranza, neppure nei confronti degli indiani: lo stesso Penn sigl� nel 1682 un trattato di amicizia con i capi-villaggio della trib� Delaware. E nello stesso anno redasse una costituzione per la colonia e ne defin� l'assetto istituzionale, "perch� la libert� senza obbedienza � confusione, e l'obbedienza senza libert� � schiavit�". Intanto nella madrepatria le persecuzioni andavano avanti, imperterrite. Le sofferenze dei quaccheri finirono solamente con la Gloriosa Rivoluzione del 1688, grazie alla quale Guglielmo d'Orange ascese al trono col sostegno del Parlamento, costringendo l'ultimo regnante Stuart, Giacomo II, a fuggire in Francia. Gi� nel 1689, infatti, venne approvato il famoso Atto di Tolleranza, che abrog� finalmente le pene previste per il dissenso religioso. Da allora fino a oggi, i quaccheri si sono profusi in mille altre battaglie, dalla lotta alla schiavit� alla pace tra le nazioni, vincendo addirittura il Nobel per la Pace nel 1947. Mai premio fu pi� meritato. Sandali: quanta strada han fatto (di Federica Campanelli, "Focus Storia" n. 155/19) - Pu� un particolare tipo di calzatura raccontare modi di vivere e mentalit� del passato? S�, se parliamo delle prime scarpe indossate dall'uomo - Hanno calzato i piedi dell'uomo per millenni, dal Neolitico all'era contemporanea, conoscendo fasi alterne di fortuna e oblio. Stiamo parlando dei sandali, le scarpe pi� antiche che l'uomo abbia mai indossato. A dispetto della loro semplicit� hanno un passato molto complesso: nel tempo hanno infatti assunto i significati pi� disparati, passando da mero sostegno per i piedi a status symbol, fino a diventare addirittura emblema di ribellione e movimenti politici. Le testimonianze archeologiche fanno supporre che i sandali siano le prime tipologie di scarpe che l'uomo abbia mai concepito. I pi� antichi mai rinvenuti hanno oltre 9.000 anni e sono stati trovati nel 1938 nei pressi di Fort Rock Cave, nello Stato americano dell'Oregon. Ma se i primitivi modelli di sandali avevano una foggia molto elementare (simile a ciabatte casalinghe), con l'avvento delle grandi civilt� il "design" and� incontro a una decisa svolta. Nella Terra del Nilo, gi� 5.000 anni fa, gli Egizi producevano sandali nelle pi� svariate versioni, tra cui le intramontabili infradito: nella tomba di Tutankhamon (XIV secolo a.C.) ne sono stati scoperti molti esemplari, alcuni dei quali arricchiti con pietre e metalli preziosi. Erano i precursori degli odierni (e iperfemminili) "sandali gioello". Ma se si esclude l'et� contemporanea, il periodo d'oro delle calzature aperte � stato quello dell'antichit� greco-romana. La stessa parola "sandalo" ha origine in Grecia, dove il sandalon indicava una scarpa costituita da una suola e varie liste di cuoio intrecciate nei modi pi� disparati. Non si trattava peraltro di una semplice protezione per il piede. Spesso i sandali erano caricati di significato profondo: per esempio, il rito matrimoniale della donna greca prevedeva i nymphides, dei "sandali da sposa" che rappresentavano il passaggio dal nubilato alla vita coniugale. Questi venivano allacciati quando la futura sposa si trovava ancora nella casa del padre, per poi essere slacciati prima di unirsi ufficialmente al consorte. La potenza di Roma contribu� poi a diffondere capillarmente le caligae, i sandali semichiusi dei soldati, in tutta Europa. Con la caduta dell'Impero romano la moda dei sandali svan�. Nei secoli che seguirono, a indossare i sandali erano solo i membri di alcuni ordini sacerdotali, quale simbolo di povert� e vita monastica. Per rivederli ai piedi della "gente comune" bisogner� attendere la fine del Settecento, quando il gusto per l'antico promosso dal Neoclassicismo influenz� anche il modo di abbigliarsi. Ma, a differenza del passato, erano soprattutto le donne di alto rango a indossarli, mentre erano pressoch� assenti nei guardaroba maschili. Inoltre, avevano poco a che fare con le calzature a cui s'ispiravano. I modelli in voga tra XVIII e XIX secolo erano in realt� scarpe chiuse e con tacco basso. A evocare gli antichi sandali dei Greci e dei Latini erano solamente le decorazioni sulla tomaia, che somigliavano a stringhe intrecciate. Alle donne, infatti, non era concesso mostrare il piede seminudo. A fare eccezione furono le Merveilleuses ("meravigliose"), appartenenti a una corrente culturale francese nata in seno al Direttorio (1795-1799), forma di governo nata dopo la Rivoluzione che nel 1789 aveva scosso la Francia. Le Merveilleuses, come reazione agli anni bui del Terrore, portavano avanti una personalissima protesta anti-giacobina attraverso un look "alla greca": abiti semitrasparenti e, per l'appunto, sandali che lasciavano i piedi scoperti. Nel corso dell'Ottocento la moda continu� a proporre calzature ispirate all'et� classica, come nel caso delle delicate scarpette-sandalo, realizzate con nastri da avvolgere alla caviglia o lungo la gamba. Come racconta Elizabeth Semmelhack nel suo saggio Scarpe, storia, stili, modelli, identit� (Odoya), si trattava di calzature quasi inconsistenti che poco si adattavano all'uso quotidiano. Del resto, uscire e camminare fuori casa erano attivit� che mal si coniugavano con l'ideale femminile ottocentesco: la donna (aristocratica o borghese) era il centro spirituale e affettivo della casa, e l� doveva "regnare", non certo per le strade dissestate e fangose dell'epoca. In compenso le scarpe-sandalo erano perfette per le ballerine. In anni in cui il balletto smise di essere un passatempo riservato agli aristocratici e inizi� ad appassionare anche le classi borghesi, le danzatrici apparivano leggere ed eteree nelle loro scarpette di seta che, opportunamente modificate, permettevano anche di danzare sulle punte. Fu Maria Taglioni nel 1832 la prima ballerina a inaugurare la tecnica, dopo aver rinforzato le sue scarpette da ballo con opportune cuciture laterali. Un altro contesto che richiedeva l'uso di sandali o scarpette leggere erano le neonate vacanze al mare. Poich� il piede nudo era ancora tab�, il guardaroba dei primi vacanzieri si adatt� alle nuove esigenze: in mare si entrava rigorosamente con i piedi calzati! Il diciannovesimo secolo fu anche l'epoca delle scoperte geografiche e dell'apertura verso nuove mete esotiche (Nord Africa e Oriente in primis) che, grazie ai racconti di viaggio di artisti e intellettuali, catturarono l'immaginario europeo. E ancora una volta i sandali tornarono a imporsi: le scarpe provenienti da quei luoghi incarnavano infatti l'armonia con la natura e il distacco dalla cultura borghese dominante, assumendo dunque un carattere "anticonvenzionale". Dopotutto, la stessa Libertas, dea romana che personificava la libert�, li indossava ai suoi piedi! Una curiosit�: fu proprio ispirandosi a questa divinit� che alcune attiviste americane per il suffragio femminile, alla marcia di Washington del 1913, indossarono vestiti classicheggianti e sandali. A politicizzarli contribuirono poi anche gli uomini, da secoli restii a indossarli. Lo scrittore socialista Edward Carpenter (1844-1929), noto agitatore politico, ne fece per esempio l'emblema del radicalismo e della "vita semplice". Altro personaggio che contribu� a stringere il legame con il pensiero radicale fu Raymond Duncan (1874-1966), fratello della scandalosa ballerina Isadora, colei che per prima os� danzare a piedi nudi. Strenuo sostenitore di uno stile di vita genuino e lontano dai precetti borghesi, Raymond scelse di vivere indossando perennemente tunica e sandali, anche in inverno. Dal XX secolo, l'industria della moda promosse i sandali per il guardaroba giornaliero, complice anche un rinnovato interesse per l'estetica del piede femminile e il fatto che le gonne, ormai, continuavano ad accorciarsi. Fu in tale contesto che nacque un vero mito: la zeppa, "pietra miliare" nella storia dei sandali. In realt�, suole imponenti erano in uso anche nel Rinascimento, quando le dame di corte spagnole e italiane indossavano altissime pianelle (o "chopine"). Ispirato da queste bizzarre scarpe, negli anni Trenta lo stilista Salvatore Ferragamo inizi� a usare pezzi di sughero per riempire lo spazio tra tacco e suola. Era l'Italia del fascismo, sul Paese pesavano le sanzioni economiche imposte dopo l'invasione dell'Etiopia e il regime incoraggiava le industrie a impiegare materiali locali. Ferragamo scelse quindi di utilizzare sughero sardo, con cui nel 1937 brevett� il suo primo modello di zeppa. E fu subito un successo mondiale. Subito dopo, nel secondo dopoguerra, il Giappone divenne un grande produttore di gomma. E fu proprio la gomma a sostituire le fibre naturali per la produzione degli zori, le infradito della tradizione nipponica. Nacquero cos� le ciabatte casalinghe o da doccia (in Occidente assunsero il nome di "flip-flop" per via del rumore che facevano camminando) che rapidamente divennero l'emblema indiscusso del relax estivo. Il tutto mentre la controcultura hippy degli anni Sessanta e Settanta si appropriava dei sandali conferendo loro nuovamente un carattere anticonvenzionale. Il celebre modello tedesco Birkenstock, nato come articolo ortopedico, si afferm� tra i seguaci di una vita spartana e libertaria, tanto da diventare oggetto di scherno: alle primarie presidenziali americane del 2004, alcuni conservatori coniarono infatti il termine "Birkenstock liberal" per deridere i sostenitori degli avversari politici. Ma i sandali da uomo, tenuti lontani dal guardaroba maschile per secoli, saranno definitivamente sdoganati solo negli anni Ottanta, grazie anche al lancio del primo modello sportivo della storia: il Teva, creato nel 1984 da una guida fluviale del Grand Canyon, che aggiunse dei cinturini da orologio a comuni ciabatte da spiaggia. Un gesto semplice che chiuse il cerchio: i sandali tornarono a essere la scarpa adatta a tutti, uomini e donne, sportivi e non. Come era gi� stato per i Greci e i Romani dell'antichit�. Rag�: i segreti del sugo perfetto ("RivistAmica" n. 7/19) - Dal soffritto alla scelta della carne, fino alle modalit� di cottura e agli altri ingredienti: tutti i "trucchi" per prepararlo al meglio - Che sia con le tagliatelle fatte in casa, per realizzare le lasagne o per condire cannelloni e rigatoni, il rag� � in grado di donare un sapore ricco e inconfondibile a ogni piatto. E sebbene la ricetta di quello probabilmente pi� noto, alla "bolognese", sia stata addirittura codificata e depositata dal 1982 presso la Camera di Commercio del capoluogo emiliano, ne esistono numerose varianti regionali (in primis quello alla napoletana), oltre agli innumerevoli piccoli "segreti" con cui ogni famiglia prepara la "sua" versione. Non esiste quindi un unico procedimento per realizzare questo condimento, ma sicuramente alcuni consigli da applicare nelle varie fasi permetteranno di valorizzare qualsiasi ricetta. Su ingredienti e dosi si pu� essere quindi flessibili in base alle diverse tradizioni, ma sono invece due le cose imprescindibili. Per preparare un ottimo rag� bisogna avere tempo - la cottura deve essere a fuoco lento e durare almeno 3 ore - e occorre scegliere una carne che non sia troppo magra (quindi pu� andare bene anche un mix di manzo e maiale), per evitare di ottenere un condimento poco sostanzioso e dal gusto non abbastanza intenso. Spesso viene sottovalutato, ma in realt� il soffritto pu� essere determinante. Intanto � consigliabile tritare sedano, carote e cipolle finemente con il coltello e non con il mixer, in modo da non ridurle in poltiglia. Fate poi stufare lentamente le verdure in olio (o nel burro, anche solo come aggiunta) finch� la cipolla non � traslucida e cotta a puntino. Attenzione poi alla fiamma che deve essere bassa, altrimenti il rischio � di bruciare i vegetali e trasmettere un sapore leggermente acre alla preparazione. Sul mix di carni da usare c'� un buon margine di scelta. Oltre alla carne bovina e suina si possono infatti utilizzare, in base alle preferenze personali, anche pancetta o fegatini di pollo ad esempio. In ogni caso per� deve essere ben rosolata e non stufata. Cuocetela quindi a fuoco vivo, giratela spesso per "sgranarla" bene e prima di procedere con qualsiasi altro passaggio fate evaporare tutto il liquido rilasciato. Una soluzione pu� essere anche quella di rosolare la carne in una padella ampia a parte e unirla al soffritto solo quando � dorata. Sul fatto che si sfumi con il vino pare esserci accordo tra le diverse varianti, e optare per il bianco o il rosso � spesso lasciato al gusto del cuoco. Il segreto, per�, � quello di usare un vino di qualit�, perch� sar� l'ingrediente che d� il tocco aromatico al sugo. Prima di procedere con le ulteriori fasi della ricetta bisogna aspettare che l'alcol sia evaporato del tutto e a questo punto si pu� aggiungere il concentrato di pomodoro o della passata densa e, in alcune varianti, del latte. Vista la lunga cottura, meglio essere cauti col sale e "aggiustare" il gusto solo alla fine, quando il sugo e i sapori sono ben concentrati. La versione pi� minimalista prevede in aggiunta solo un po' di pepe, ma un pizzico di noce moscata o qualche foglia di alloro possono dare delle aromatiche sfumature in pi� al rag�. Delhi: una citt� chiama l'altra (di Fabio Sindici, "Ulisse n. 318/11) - Nuova Delhi � pi� che mai la citt� degli affari e del divertimento; la Delhi antica sta ritrovando il fascino e la bellezza del passato - Sono due i modi per prendere contatto con Delhi, se ci si va per la prima volta. L'approccio pi� immediato � sulla spianata del Lahore Gate, davanti al Forte Rosso, il "Lal Qila" degli imperatori Moghul. La folla t'immerge in un abbraccio vorticoso; ed � subito India. In questa piazza, Jawaharlal Nehru tenne i suoi discorsi nei giorni della lotta per l'indipendenza, da qui la figlia Indira Gandhi ipnotizz� il subcontinente. Oggi, le anime e i corpi di Delhi continuano a mischiarsi in adunate spontanee sotto le mura di arenaria rossa: i sikh dalle barbe folte e dai turbanti elaborati e i sadhu in perizoma, le ragazze vestite in jeans e magliette pop con le madri in sari, i guidatori di risci� con gli uomini d'affari, gli indovini dalle rughe venerande e i giovani maghi dell'elettronica che tormentano i loro computer tascabili. � quasi uno shock culturale per chi non � abituato alle masse umane dell'India. La tentazione � quella di prendere respiro all'interno delle porte del Forte, tra i padiglioni di Shah Jahan, il Gran Moghul che edific� questa reggia-fortezza. Invece � meglio prendere confidenza con la folla, lasciarsi stordire, inebriarsi un po'; e poi dirigersi verso la Jama Masjid, la grande moschea della citt� vecchia. Anche qui le dimensioni sono incombenti: i due minareti, che alternano bande di arenaria rossa e di marmo bianco, sono alti 40 metri, il cortile pu� contenere fino a 25-mila fedeli. I tappeti per la preghiera si stendono come uno solo al richiamo del muezzin, con la sincronia perfetta delle moltitudini. Come se fosse uno show passato per decine di prove. E in effetti sono quasi quattro secoli che va in scena nel recinto della "Moschea del Venerd�". Ma siamo al secondo tempo del nostro approccio con Delhi. Per completarlo bisogna arrampicarsi fino alla cima del minareto meridionale e la Delhi vecchia e la Delhi nuova si srotolano come un tappeto magico. Dall'alto si coglie il ricamo prezioso delle vie di Shahjahanabad, e dei cortili delle vetuste haveli, i palazzi dei nobili e dei mercanti, occultati, a livello della strada, da saracinesche di garages e da cortine di negozi. Nelle giornate terse si scorgono le rive dello Yamuna con i ghat; e si vedono le terrazze sui tetti delle haveli prendere vita, animarsi per un t� o per i giochi dei ragazzini, gli aquiloni sfidarsi in giocose battaglie, e i famosi piccioni addestrati della vecchia Delhi volare in formazione. Shahjahanabad, la citt� fondata da Shah Jahan, imperatore con il mal della pietra, che spost� qui la capitale dei Moghul da Agra, risplende sopra il velo di polvere. A sud, sfila allo sguardo la Delhi nuova, con i templi hindu, i grattacieli di vetro sorti negli ultimi anni e gli edifici coloniali dell'epoca del Raj, il dominio britannico; appaiono, in perfetto allineamento con la moschea, il Parlamento e Connaught Place, cos� come li aveva messi in riga sul suo foglio da disegno l'architetto inglese Edward Lutyens, l'autore di New Delhi. A questo punto, la citt� � gi� entrata sotto la pelle. E, dopo l'esercizio di immersione ed emersione, si pu� cominciare ad esplorare i labirinti storici, umani e architettonici di una delle pi� affascinanti metropoli d'Oriente. All'apparenza, Delhi � una citt� dalla topografia facile. A sud, i viali che partono a raggiera, da Connaught Place raggiungono l'India Gate e intersecano il Rajpath, la via reale, fiancheggiata da laghetti romantici. Poi oltre i ministeri, e la residenza del presidente dove gli stili dell'India giocano con l'architettura neoclassica, s'incontrano i Lodhi Gardens, rinfrescati da alberi di nim e di ashoka e di arjuna, i cui nomi evocano il primo grande sovrano dell'India, e il mitico arciere del Mahabharata. Sono le sentinelle verdi delle foreste e dei grandi parchi. A nord, le mura del Forte Rosso e i minareti e le cupole a cipolla della Jama Masjid, fanno da bussola nell'intrico delle vie e dei bazar. Ma la pratica � pi� complicata della teoria. Lo dimostrano i tassisti, dalle agendine cariche di indirizzi, ma in difficolt� nel trovare un indirizzo preciso. Dipende dalla mescolanza dei numeri civici, in alcuni quartieri, e da strade che cambiano nome all'improvviso. Dai resti millenari - tombe, templi e santuari - che affiorano, come isole, nel traffico moderno. Dove i fuoristrada luccicanti s'incrociano con le vecchie Ambassador, i carri trainati da bufali con i camion, e gli autobus sono incerti se cedere il passo ad un elefante con il suo mahut. Le mucche eseguono uno slalom pi� lento, ma altrettanto sinuoso, di quello dei motorini. Nel traffico indiano, sostiene lo scrittore scozzese William Dalrymple (il suo Delhi, edito da Rizzoli, � una guida appassionata alla citt�), vige la regola del pi� forte. Si rispettano le dimensioni. Ma anche l'agilit�. E il traffico che s'ingorga in bolle improvvise, poi si disperde misteriosamente, come se uno dei jinn che, secondo le leggende, vivono invisibili a Delhi, avesse, di colpo, aperto una chiusa, o un cancello. I primi a sentire le voci bisbiglianti dei jinn, i geni della tradizione araba e persiana, sarebbero stati i soldati di un esercito afgano invasore, accampati tra le rovine della citt� saccheggiata. Oggi le loro voci sono capaci di udirle solo i sufi, i mistici islamici che ancora s'incontrano nella citt� vecchia, o intorno alle rovine di Feroz Shah Kotla, o vicino al Santuario di Nizam-Ud-Din, forse il sufi indiano pi� famoso, tanto da sfidare il potere di sultani sanguinari. Le epoche si rimescolano in una vertigine. Cos�, l'Hauz Khas, il bacino reale che riforniva di acqua Delhi nel 1300, con la magnifica madrassa e la tomba pi� tarda di Feroz Shah, si trova a ridosso di uno dei centri commerciali e residenziali pi� eleganti della citt� moderna con gallerie d'arte e ristoranti alla moda. Vicino c'� il moderno e marmoreo tempio Bah�'�, per tutte le fedi, dalla forma di un fiore di loto. Il forte costruito dall'afgano Sher Shah � a pochi passi dagli scavi di Indraprastha. Gli astrologi migliori invece che nei dintorni della vecchia corte dei Moghul, come un tempo, si trovano nelle vicinanze del mercato dell'antiquariato a Sunder Nagar. Anche oggi i loro servizi sono richiestissimi: non si organizza un matrimonio senza consultare un astrologo referenziato. E ci sono indovini che vantano l'abilit� di leggere il futuro nell'impronta di un pollice. I misteri in India sono proverbiali. E Delhi ne ha in abbondanza. Come i ti-khan, le camere sotterranee fatte costruire da nobili moghul per trovare rifugio dal caldo impossibile dell'estate. Che sarebbero collegate tra loro da una vasta - e a tutt'oggi inesplorata - rete di gallerie, che conduceva ad alcove vietate e a passaggi segreti per fuggire dalla citt�. Altro mistero � il pilastro di ferro che non arrugginisce mai nel cortile della Quwwat ul Islam, la prima moschea costruita in India, dopo la caduta dell'ultimo regno hindu di Delhi, nel 1193. La colonna reca un'iscrizione in sanscrito che rivela la sua origine pi� antica di 800 anni: viene da un tempio dedicato a Vishnu e nessuno scienziato si spiega come sia stato possibile forgiare un ferro cos� puro con le conoscenze dell'epoca. Accanto c'� il Qutb Minar, la torre che gli afgani di Ghor innalzarono per celebrare la conquista islamica di Delhi con i resti di settanta templi induisti distrutti. � il minareto in mattoni pi� alto del mondo, con i suoi 73 metri leggermente pendenti, intarsiati dalle iscrizioni in caratteri arabi e nagari. Si sfina verso l'alto, come a confondersi con il cielo, riducendo il suo diametro dai 15 metri della base a due e mezzo della sommit�. Le epoche si rimescolano, ma ci sono riti e ricorrenze che rimangono uguali. Cos� marzo a Delhi � il mese dei matrimoni e delle feste. Durante Holi, una sorta di carnevale indiano - la festa della primavera - ci si innaffia l'un l'altro di acqua e colori. Di giorno si aprono i giardini moghul vicino al Rajpath o ci si reca fino agli Shalimar Gardens, a nord, dove si fece incoronare Aurangzeb, il pi� feroce dei grandi Moghul. Di sera, la quiete si accende all'improvviso di orchestre e fuochi d'artificio. Viene voglia di seguire la musica, che sia un raga rock o un lahara classico dove il sitar e il sarangi accompagnano le percussioni ritmiche delle tabla. Come faceva nell'ebbra Delhi della decadenza, nel passaggio di potere tra i Moghul e gli inglesi, Mirza Ghalib, il poeta innamorato delle strade notturne e delle ballerine di nac, dei duelli di versi e del vino abbondante. Era il Baudelaire indiano, e i suoi gazhal, le strofe d'amore, fanno ancora sognare le giovani di Delhi. "Cosa m'importa delle dolcezze del paradiso quando questa notte posso camminare per le strade di Delhi!" scriveva il poeta un po' sufi e parecchio gaudente. Oggi invece dei mehfil, gli intrattenimenti a base di letteratura e musica nelle dimore dei nobili, concerti classici e danze si tengono negli edifici moderni dell'Habitat World, sulla Lodhi Road, nella parte residenziale della citt�. Altri palazzi di Shahjahanebad sono tornati a vivere in questi anni, salvati dal decadimento, vicino al Turkman Gate, dove si ritrovano gli eunuchi che ancora parlano l'Urdu con l'accento di corte; o sul Chandni Chowk, tra i venditori d'argento e di dolci, che raccontano la storia dell'elefante che si ferm� davanti al suo negozio di dolciumi preferito e si rifiut� di avanzare se non gli veniva dato un assaggio di canditi. Qui si pu� seguire l'esempio di Ghalib e vagabondare, fermandosi dai gioiellieri sulla Dariba Khalan, curiosando nel Chor Bazar, il mercato dei ladri, o, cercando, vicino alla moschea, gli ultimi calligrafi capaci di tracciare gli eleganti caratteri nastaliq (fino a poco tempo fa ne erano rimasti tre, molto anziani, ma ora il Consiglio Nazionale per la promozione dell'Urdu ha aperto delle scuole per chi desidera imparare l'antico mestiere). Ancora, ci si pu� mettere alla ricerca di farmacie ayurveda o degli studi dei medici unani, simili a laboratori di alchimisti, che professano un'arte della medicina che viene dall'antica Grecia e da Bisanzio, passata attraverso le influenze arabe e indiane. Vale la pena d'incontrare, intorno alla Jama Masjid dove c'� un mercato degli uccelli, i kabutar baz, gli addestratori di piccioni, e salire con uno di loro su una terrazza per ammirare le acrobazie dei lal khal e degli avadi golay, le specie pi� veloci. Altre tracce disperse di Delhi si ritrovano nella mirabile collezione di miniature del National Museum, tra cacce alla tigre e splendori di cortigiane. E non si pu� perdere l'esperienza di entrare in un cinema indiano, come il Regal a Connaught Place, degli anni '30, e il Plaza e il Delite, rinnovati di recente. Quando si spengono le luci in sala, insieme al film vanno in scena i sentimenti degli spettatori, che siano pellicole del nuovo cinema d'autore o masala movies di Bollywood. Buona parte della musica popolare di successo in India viene proprio da questi film cosiddetti di serie B. Delhi va corteggiata con calma e ha bisogno di pause. Un drink nel giardino di un hotel coloniale come l'Imperial pu� essere una buona partenza per la citt� di Lutyens, in cui capitelli greci sorreggono cupole moghul di rame, e le plantation chairs fanno scenografia nelle verande dei bungalow. Si va verso il Sansad Bhavan, il Parlamento, e ci si ferma a pensare alle stelle al Jantar Mantar, l'osservatorio costruito all'inizio del '700 dal raja di Jaipur. E si pu� continuare fino alla tomba dell'imperatore Humayun, il secondo dei Moghul - in cui gi� si intuisce la futura perfezione del Taj Mahal di Agra. Ma ora � il momento di tornare nella citt� vecchia e di varcare le porte del Forte Rosso. Dietro le sue mura, passato il bazar coperto che una volta era riservato alla corte, pure nel flusso dei visitatori, i rumori dell'immensa Delhi si smorzano. Il Diwan i am, il luogo delle udienze pubbliche, la "sala delle quaranta colonne", non ha pi� lo splendore dei tempi degli imperatori, � assente il favoloso trono del pavone, con le sue dodici colonne di smeraldo, e le pietre preziose e l'argento sono stati predati dalle pareti e i soffitti. Ma si ritrova il disegno sobrio, che coniugava spettacolo e misura, tipico degli architetti moghul. Il Rang Mahal, il palazzo della prima moglie dell'imperatore, � ancora una sorpresa, con le sue prospettive morbide, gli stucchi e il grande fiore di loto di marmo da cui sorgeva una fontana d'avorio. Il cuore di Delhi pulsa ancora, sommesso, in questo scheletro sontuoso. Oltre le folle, i cinema, i templi e le moschee, i grattacieli e le rovine. Qui sembrano riunirsi gli avatar, le tante incarnazioni di Delhi. Qui viene voglia di sedersi e tendere l'orecchio per ascoltare il bisbiglio dei jinn. Mod�: ecco perch� noi non ci lasceremo mai (di Barbara Mosconi, "Tv sorrisi e canzoni" n. 39/19) Dal 2002, quando sono apparsi sulla scena, i Mod� hanno macinato chilometri, palchi, classifiche record. Sempre insieme. In questi anni hanno pubblicato sei album (pi� uno dal vivo e due raccolte), si sono esibiti a Sanremo e negli stadi pi� importanti d'Italia. Ora tornano con un nuovo disco intitolato "Testa o croce". A capo della band c'�, come sempre, Kekko Silvestre, voce del gruppo e autore anche di questi nuovi 12 brani. Lui si definisce "un operaio della musica", un cantautore "per passione e non per professione", uno che "scrive storie" (e infatti l'anno scorso ha firmato un romanzo per Mondadori, "Cash - Storia di un campione"). In una frase: "Ho fatto tante cose e realizzato tutti i miei sogni". - I Mod� tornano con l'album "Testa o croce" dopo quattro anni. Kekko, ti sono parsi tanti o pochi? "Credo siano tanti, anche se quantificare quanto stai lontano dal mondo dello spettacolo non � mai semplice. Per� posso dire che in sette anni, dal 2009 al 2016, mi � successo di tutto: tra dischi, tour negli stadi e concerti all'estero, sono stato dentro un vortice". - E poi ti sei fermato. "Mi sentivo un po' derubato dal lavoro, mi mancava la mia vita semplice. Ci sono artisti che scrivono un album all'anno, magari chiedendo contributi a questo e quello. Io le canzoni le scrivo tutte da solo e per scrivere devo vivere. Questo � un disco di storie e di stati d'animo. Il brano "Quelli come me" � nato parlando di notte con la gente dei bar. "Puoi leggerlo solo di sera" racconta i miei vent'anni d'amore con Laura. "La fata" � dedicata a mia figlia Gioia". - Album nuovo, testi nuovi, ma sempre in stile Mod�. "Questa � la musica che a noi piace suonare. Anche se ho fatto un percorso intimista, ho cercato di lavorare di pi� sui testi. Io faccio pop, musica leggera, non sono un estroso, uno che usa la musica per fare e disfare. Mettersi al passo con i tempi oggi significherebbe fare trap, ma � una cosa che non mi piace". - L'ispirazione da dove viene? "Cerco sempre di ispirarmi ai cantautori del passato, Battisti e Mogol sono i miei due riferimenti. La gente forse si aspettava un disco pop-rock, ma questo � un album "pop-soft". Ho pensato a scrivere delle storie e delle belle canzoni". - Cosa resta dei Mod� rockettari dell'hinterland milanese? "Il prossimo disco, che ho gi� scritto, sar� pi� arrabbiato. Ho deciso di scindere due stati d'animo, quello soft e quello rock. Ora mi sembrava meglio tornare in scena con un'opera pi� romantica. Il rock non � solo una distorsione delle chitarre, e oggi non � pi� una provocazione. Forse i rapper sono p�� rock dei cantanti rock attuali". - Non hai tenuto da parte un pezzo da proporre ad Amadeus per il Festival di Sanremo? "No! Sanremo non � nei programmi. Il Festival � una vetrina straordinaria che ci ha dato tantissimo, ma entrare in un tritacarne come Sanremo oggi non fa per me, � molto pi� impegnativo di quello che sembra. Magari fra qualche anno ci torner� la voglia". - I Mod� resistono da 17 anni. Di questi tempi, lo abbiamo visto, per una band non � facile... "Ci vuole il rispetto dei ruoli e noi siamo sempre state persone che si sono rispettate. Non c'� mai stata invidia. Quando non ci saranno pi� i Mod� non ci sar� pi� neanche Kekko. Magari far� solo l'autore, magari far� altro. Io ho bisogno di loro. Sono una seconda famiglia". - Del recente addio polemico fra Tommaso Paradiso e i Thegiornalisti cosa hai pensato? "Mi spiace sempre quandpo le band si sciologono. Personalmente non li ho mai incontrati, sono emersi in questi anni mentre noi eravamo fermi. Ma gli equilibri dentro una band sono sempre quelli di una squadra di calcio: i problemi vengono fuori nello spogliatoio".