Dicembre 2018 n. 12 Anno XLVIII MINIMONDO Periodico mensile per i giovani Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registrazione 25-11-1971 n. 202 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri per un importo pari ad euro 23.084,48 e del MiBACT per un importo pari ad euro 4.522.099. Indice Comunicato: Abbonamento riviste I giorni dell'Ira Un mare di plastica Il bello della sorpresa La delizia (o la croce?) in famiglia Panettone, il dolce gusto del Natale Ammaliante Delhi Ezio Bosso: "Per me casa � dove incontro un sorriso" Comunicato: Abbonamento riviste Informiamo i nostri gentili lettori che per tutti coloro che hanno presentato richiesta di abbonamento per l'anno 2018 ai periodici gratuiti prodotti dalla nostra Biblioteca (Minimondo, Parliamo di..., L'angolo di Breuss, Giorno per giorno, Suoni e Infolibri), non � pi� necessario inoltrare ulteriore richiesta per gli anni successivi e l'invio delle riviste proseguir� a tempo indeterminato. Chi desidera revocare qualche abbonamento, dovr� presentare richiesta scritta, nei consueti formati: lettera Braille, fax o e-mail, precisando la, o le riviste, cui intende rinunciare. I giorni dell'Ira (di Riccardo Michelucci, "Focus Storia n. 143/18) - La storia del gruppo armato clandestino che ha tenuto in scacco Londra nel nome dell'unit� irlandese - Mullaghmore � un piccolo villaggio irlandese affacciato sull'oceano Atlantico. La mattina del 27 agosto 1979 un'esplosione sconvolge l'orizzonte al largo della sua baia. L'imbarcazione su cui sta viaggiando Lord Louis Mountbatten, ultimo vicer� dell'India e cugino della regina d'Inghilterra, salta in aria. Muoiono Mountbatten e altre tre persone. Qualche ora pi� tardi, a poche miglia di distanza, due bombe esplodono nella cittadina di Warrenpoint: diciotto soldati inglesi finiscono dilaniati. A fine giornata, sulle mura di Falls Road, il viale che attraversa i quartieri cattolici di Belfast Ovest, compaiono, a caratteri cubitali, queste scritte: "13 gone and not forgotten, we got 18 and Mountbatten" ("13 morti ma non dimenticati, noi ne abbiamo fatti fuori 18 e Mountbatten"). Occhio per occhio, dente per dente... Gli attentati di quel giorno d'agosto furono l'ennesima vendetta per la strage compiuta sette anni prima dall'esercito britannico nella citt� di Derry, e passata alla storia come la "Domenica di sangue". Ma rappresentarono anche l'apice della potenza di fuoco dell'Ira (Irish Republican Army), il gruppo armato clandestino che per quasi un secolo si � battuto per ottenere l'indipendenza dell'Irlanda dal dominio inglese. Per la propaganda britannica l'Ira � sempre stata la causa del conflitto, per gli irlandesi la sua diretta conseguenza. "Il nome Irish Republican Army nacque negli Stati Uniti, nella seconda met� dell'Ottocento", spiega lo storico di Belfast Richard English, "la sigla fu usata per la prima volta dall'ala militare della Fratellanza Feniana, un movimento indipendentista fondato dalla diaspora irlandese". Ma gli albori della moderna Ira risalgono a mezzo secolo pi� tardi: l'esercito repubblicano nacque dalle ceneri della rivolta di Pasqua del 1916, di fatto l'evento fondativo dello Stato irlandese contemporaneo. Un'insurrezione fallita che, paradossalmente, si sarebbe rivelata un successo: da allora le file degli indipendentisti armati si ingrossarono a dismisura innescando nuove e decisive fasi di scontro con gli inglesi. Tanto che, un anno dopo, il politico e patriota Michael Collins (1890-1922) cerc� di organizzare una struttura militare permanente. Le sue "colonne volanti", composte da pochi volontari disposti a tutto, lanciavano improvvise operazioni di guerriglia contro le truppe inglesi e gli agenti di polizia al servizio della Corona. I rappresentanti del potere britannico in Irlanda prendevano invece di mira la popolazione civile, alimentando cos� una spirale di violenza che faceva guadagnare nuovi proseliti all'esercito clandestino. Quando gli inglesi si resero conto che mantenere il controllo su tutta l'Irlanda era ormai impossibile, decisero la divisione dell'isola: alla fine del 1921 Londra concesse a gran parte del Paese una forma edulcorata di autonomia (divenne pi� precisamente un "dominion", territorio che godeva di una forma di semi-autonomia politica), ma diede vita all'Irlanda del Nord, uno Stato artificiale creato per mantenere il controllo sull'unica parte industrializzata dell'isola, e governato con leggi draconiane dai discendenti dei coloni protestanti inglesi e scozzesi. � la svolta che segn� il tragico destino dell'ultimo secolo di storia irlandese e riusc�, in un primo momento, anche a spaccare il fronte indipendentista, fino a travolgere il Paese in una sanguinosa Guerra civile (1922-1923): da una parte i sostenitori della divisione della nazione, dall'altra coloro che, come i membri dell'Ira, la consideravano invece un compromesso inaccettabile. Furono questi ultimi a risultare infine sconfitti. Da quel momento in poi, il nuovo Stato irlandese (l'attuale Repubblica d'Irlanda) intraprese un cammino pacifico verso l'indipendenza da Londra, mentre l'Ira si ritir� nella parte settentrionale dell'isola. "La priorit� divenne la difesa della popolazione del Nord dalla brutalit� dell'esercito inglese", ha spiegato Joe Cahill, veterano dell'esercito clandestino scomparso nel 2004. A poco a poco le attivit� del gruppo armato si affievolirono fino quasi a sparire, sebbene l'Irlanda del Nord fosse una polveriera sociale destinata a esplodere a causa delle discriminazioni ai danni della minoranza cattolica. La situazione degener� alla fine degli anni Sessanta. Ispirato alle lotte dei neri d'America, nacque il movimento per i diritti civili contro la discriminazione dei nord-irlandesi cattolici. E la risposta britannica non si fece attendere. La polizia inglese e i gruppi di estremisti protestanti attaccarono violentemente i cortei e le manifestazioni che sfilavano per le strade dell'Irlanda del Nord reclamando uguaglianza e democrazia. I quartieri cattolici di Belfast, Derry e Armagh furono messi a ferro e fuoco, la popolazione cacciata dalle proprie case. L'Ira - che nel frattempo aveva adottato un'ideologia marxista e propugnava pi� la lotta di classe contro l'imperialismo inglese che la logica dello scontro con i protestanti - era ormai fiaccata dai lunghi anni di inattivit� e non riusc� a riprendere il suo tradizionale ruolo di difesa della popolazione cattolica. Nel 1969 un gruppo di giovani militanti cresciuti politicamente nel movimento per i diritti civili soppiant� la vecchia dirigenza marxista-riformista con l'intento di riprendere la lotta armata contro lo Stato britannico. Nacque la Provisional Ira, che grazie al sostegno della popolazione dei ghetti cattolici riuscir� a tenere in scacco per decenni uno degli eserciti pi� forti del mondo. Ricorda S�an, volontario dell'Ira di Belfast fin dai primi anni Settanta: "Entrai nel movimento a sedici anni. Mi convinsi che solo con le armi saremmo riusciti a porre fine alle discriminazioni e alle violenze che subivamo ogni giorno. Quando hai un esercito occupante che pattuglia le tue strade con i fucili, con gli elicotteri, con i mezzi blindati, fermando, controllando e arrestando le persone senza una ragione, sei costretto a difenderti". I soldati e la polizia venivano attaccati ogni giorno, sia nelle aree urbane sia nelle zone rurali: gli attentati colpivano caserme, presidi e convogli militari ma anche i cosiddetti "obiettivi economici" come pub, ristoranti e fabbriche. L'Ira evit� sempre di farsi attirare in un confronto aperto assolutamente impari quanto a uomini e mezzi, e continu� invece a portare avanti una strategia di logoramento basata sulla guerriglia. � lecito chiedersi perch� il governo britannico abbia continuato a impegnarsi a lungo in un conflitto senza esclusione di colpi. La motivazione ufficiale - pi� volte ribadita anche da Margaret Thatcher, nei suoi anni a Downing Street - era che quella area dell'Irlanda dovesse continuare a far parte del Regno Unito finch� fosse stata la maggioranza della popolazione a volerlo. In realt�, le conseguenze di un ritiro delle truppe inglesi dall'Irlanda sarebbero state pi� gravi della loro permanenza. Sul piano del prestigio interno e internazionale, la perdita di quella storica colonia avrebbe dato il colpo di grazia al gi� vacillante mito dell'unit� dello Stato britannico, con conseguenze che si temevano molto simili a quanto accaduto ai francesi con l'Algeria. Senza considerare il retaggio plurisecolare di un conflitto che affonda le proprie radici in un lontano passato. Anni fa persino Alan J.P. Taylor, uno dei pi� grandi storici britannici del XX secolo, ammise che "gli inglesi sono da secoli la causa del problema in Irlanda, e la presenza dell'esercito britannico non fa altro che prolungare il conflitto, incoraggiando l'estremismo". Dal 1969 al 2001 le vittime dell'Ira sono state circa 1.800 (il 49% del totale di morti registrato durante il conflitto), ma sarebbero potute essere molte di pi�. Gli irlandesi avevano infatti l'abitudine di avvertire mezz'ora prima delle esplosioni per fare evacuare le aree interessate, limitando cos� il numero di vittime. Ma fu colpito a lungo anche il suolo inglese, con attentati a Londra e in altre citt� del Regno Unito. La svolta "politica" arriv� nei primi anni Ottanta, in seguito agli scioperi della fame in carcere che causarono la morte di Bobby Sands e di altri 9 giovani attivisti. Da quel momento in poi, l'Ira lasci� sempre pi� spazio al suo braccio politico, il partito repubblicano Sinn F�in guidato da Gerry Adams, che abbandon� il tradizionale astensionismo elettorale e inizi� a prendere parte allo scontro politico all'interno delle istituzioni. Fu definita la strategia del "mitra in una mano e la scheda elettorale nell'altra", e gett� il primo seme del difficile e controverso cammino verso il processo di pace. Una strada che sarebbe stata ancora lunga e piena di lutti: soltanto nel 1998 si arriv� alla firma dell'accordo del Venerd� Santo, che pose fine a trent'anni di conflitto anche grazie al decisivo intervento del presidente statunitense Bill Clinton. L'Ira non si � mai sciolta ufficialmente, ma di fatto la sua storia si � conclusa il 28 luglio 2005, quando l'esercito repubblicano irlandese ha annunciato l'addio definitivo alla lotta armata e l'inizio dello smantellamento del suo formidabile arsenale. Un mare di plastica (di Simona Regina, "Focus" n. 299/17) - Col tempo, i rifiuti si trasformano in frammenti che finiscono nello stomaco dei pesci (e quindi anche nel nostro). Ma qualche soluzione c'� gi� - Chiss� se un batterio riuscir� finalmente a risolvere il problema: gli oceani, in effetti, sono sempre pi� pieni di plastica, ovvero di ci� che resta di tutti gli imballaggi che utilizziamo, e che in un modo o nell'altro finiscono in mare. L'Ideonella sakaiensis � proprio un batterio mangia-plastica: � capace di degradare il polietilene tereftalato (il cosiddetto Pet), il materiale con cui sono fatte le bottiglie. E ancora pi� vorace sembra essere un bruco, la larva della tarma della cera (Galleria mellonella) comunemente usata come esca dai pescatori. Questo "vermetto" � addirittura in grado di mangiare e degradare il polietilene (Pe), una delle plastiche pi� resistenti e pi� diffuse. Ma non sono le uniche soluzioni in cantiere per un problema che sta diventando sempre pi� grande. Bottiglie, tappi, cannucce, sacchetti e quel che ne resta sono infatti dispersi in gran numero in tutti i mari del mondo: si stima che ogni anno dalle regioni costiere finiscano in acqua tra i 4,8 e 12,7 milioni di tonnellate di plastica. Ristagnano sui fondali o sulle spiagge e galleggiano in superficie. Anche nelle acque considerate incontaminate: come al largo delle isole Svalbard, in Norvegia. "Si tratta perlopi� di microplastiche, cio� particelle di dimensioni inferiori ai 5 millimetri", spiegano gli autori di uno studio, tra cui l'italiana Valentina Tirelli dell'Istituto nazionale di Oceanografia e di Geofisica sperimentale, che per primo ne ha documentato la presenza nelle acque dell'Artico. "Sono soprattutto fibre e questo suggerisce che in questo caso derivino dalla degradazione di oggetti molto grandi, trasportati presumibilmente alle Svalbard dalle correnti o derivanti da attivit� marittime locali". Questi minuscoli pezzetti (anche mille volte pi� piccoli del millimetro) costituiscono una minaccia senza confini e avvelenano anche il nostro mare. "Il valore medio di microplastiche per metro cubo in Mediterraneo � simile, se non addirittura superiore, a quello riscontrato nelle "isole" di spazzatura nell'oceano Pacifico", avvisa Marco Faimali, responsabile dell'Istituto di Scienze marine del Cnr di Genova. Il "brodo" formato da acqua e pezzetti di plastiche in cui si stanno trasformando i mari non � infatti ugualmente denso in tutto il pianeta: a causa delle correnti � molto pi� concentrato in 5 aree ben determinate. Intendiamoci, non si tratta di isole vere e proprie, ma di giganteschi accumuli di frammenti di rifiuti di ogni dimensione, perlopi� piccolissimi. Del resto, la microplastica � ovunque: perfino in molte aree marine protette. Per esempio, come segnala Greenpeace nel report Un Mediterraneo pieno di plastica, nel Parco Nazionale dell'Arcipelago di Cabrera, nelle Isole Baleari del Mediterraneo Occidentale, e nel Parco Naturale della Baia di Telascica, in Croazia. E questo perch� le correnti trasportano i rifiuti fino a grandi distanze e pi� velocemente di quanto si possa immaginare. E cos�, "il mar Mediterraneo rischia di diventare sempre pi� una "zuppa" di plastica e spazzatura, invaso da rifiuti galleggianti o giacenti sui fondali che alla lunga, a causa di processi degradativi innescati dal sole, dalle onde, dal vento, si frammentano in particelle sempre pi� piccole", afferma Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente. Non c'� da stupirsi: � un bacino chiuso, densamente popolato sulle coste e caratterizzato da un notevole traffico marittimo, tutti fattori che lo rendono pi� vulnerabile all'inquinamento. Per non parlare dei rifiuti spiaggiati che contaminano anche gli angoli pi� remoti del mondo, come le coste della disabitata isola di Henderson, la pi� grande dell'arcipelago delle Pitcairn, nel Pacifico Meridionale: dove sono stati rintracciati circa 37,7 milioni di detriti di plastica per un peso complessivo di 17,6 tonnellate (671 pezzi per metro quadrato). Un fenomeno da cui le nostre spiagge non sono certo immuni: stando ai dati di Legambiente, in Italia in media si trovano 671 oggetti ogni 100 metri lineari di litorale (la media europea � di 561 rifiuti ogni 100 metri). E la plastica � la regina indiscussa di questa spazzatura: un rifiuto su tre, tra l'altro, � un imballaggio. Preoccupa anche lo stato di salute delle spiagge degli altri Paesi del Mediterraneo (Algeria, Croazia, Francia, Grecia, Spagna, Tunisia, Turchia), invase in particolare da mozziconi di sigarette e buste. "Il punto � che ogni anno vengono prodotte quasi 300 milioni di tonnellate di plastica e il 10% finisce in mare", avverte Faimali. Uno studio del Consiglio nazionale delle ricerche di Lerici (La Spezia) ha recentemente individuato di che cosa sono fatte le plastiche galleggianti in mare aperto nel Mediterraneo Occidentale: si tratta soprattutto di polietilene (il polimero di cui sono fatti i sacchetti) e polipropilene (con cui si fanno per esempio i tappi, i bicchieri e i piatti in plastica), ma anche molecole pi� grandi come le poliammidi (usate per materiale elettrico, attrezzi sportivi, pellicole alimentari) e componenti di vernici. La distribuzione di tutti questi inquinanti non � omogenea, perch� i rifiuti tendono ad accumularsi in prossimit� delle coste, in particolare nelle aree urbanizzate, e dei fiumi, e lungo le rotte di navigazione commerciale. Uno studio pubblicato su Nature ha dimostrato per esempio che, a livello globale, ogni anno tra l'1,15 e i 2,41 milioni di tonnellate di plastica vengono depositati in mare dai fiumi. Con quali conseguenze? I rifiuti galleggianti mettono a repentaglio la vita degli animali: uccelli, rettili e mammiferi marini. Possono intrappolarli, ferirli e, se ingeriti, causare problemi gastrointestinali, avvelenamento, soffocamento, e a volte possono essere fatali. A quanto pare, i volatili scambiano i detriti per cibo perch� ingannati dall'odore. In pratica, a lungo andare sulla plastica dispersa in mare si deposita una sostanza chimica (il dimetil solfuro) rilasciata da alcune alghe microscopiche presenti nell'acqua marina, e cos� scatta l'inganno olfattivo. Le microplastiche invece non causano soffocamento, ma non sono innocue. Anche perch� molti dei polimeri di cui � costituita la plastica hanno la capacit� di legarsi ad altri inquinanti presenti nell'acqua. "La balenottera comune, per esempio, � risultata contaminata in modo preoccupante dagli ftalati, i derivati pi� nocivi della plastica, che influenzano le capacit� riproduttive interferendo con il sistema endocrino", racconta Faimali. "Le microplastiche, insomma, possono compromettere la sua capacit� di riprodursi". Potrebbe accadere anche all'uomo? "Al momento", spiega il ricercatore, "non si pu� affermare che la microplastica (quella di dimensioni di alcuni millimetri) nei pesci e molluschi di cui ci cibiamo rappresenti un rischio per la salute umana, perch� non riesce ad attraversare le membrane biologiche ma rimane confinata nei dotti intestinali dei pesci che la ingeriscono. E normalmente le interiora dei pesci vengono eliminate prima di cucinarli. Ma i frammenti pi� piccoli, la cosiddetta nanoplastica, riescono a passare da una cellula all'altra e quindi ad accumularsi anche nelle parti edibili, quelle cio� che noi mangiamo, con conseguenze che al momento non conosciamo". Soluzioni? Oltre agli organismi mangiaplastica, gli scienziati stanno lavorando anche ad altri sistemi. "La pulizia degli oceani � dietro l'angolo", annuncia Boyan Slat, il giovanissimo ideatore di The Ocean Cleanup, fondazione olandese che promette di installare entro il prossimo anno una barriera modulare di galleggianti lunga 1-2 chilometri, per catturare e rimuovere la plastica dal Great Pacific Garbage Patch, tra Hawaii e California: una delle pi� grandi "isole" di rifiuti. "Ne elimineremo il 50%, in cinque anni", dichiara. Il progetto italiano Plastic Sea Sweeper, invece, consiste in un sistema di reti fisse di nylon per raccogliere la plastica alla foce dei fiumi prima che finisca nel mare. E partir� a breve il progetto europeo che prevede di sperimentare le cosiddette "sea cleaning technology", sistemi da installare sulle navi o nei porti, per pulire il mare dalla macro e dalla microplastica. "Intanto tutti dovremmo fare un uso consapevole di questo materiale e mettere al bando nel nostro quotidiano gli oggetti usa e getta", conclude Faimali. Il mare ringrazierebbe. Sacchetti al bando ecco dove Stop alle buste di plastica non compostabili, in tutti gli Stati del Mediterraneo e non, entro il 2020. Lo propone Legambiente per salvare oceani, mari e spiagge soffocati da plastica galleggiante e rifiuti. L'Italia � stato il primo Paese in Europa a mettere al bando i sacchetti di plastica, nel 2011, riducendo del 55% il consumo di plastica per produrre sacchetti (da 200-mila a 90-mila tonnellate/anno). Al momento, i sacchetti di plastica sono banditi anche in Marocco dove lo scorso anno, a luglio, � entrata in vigore la legge che ne vieta produzione, importazione, esportazione, vendita e utilizzo. E in Francia, che ha inoltre deciso di vietare piatti, bicchieri e posate di plastica usa-e-getta dal 2020. Italia, Francia e Marocco, per difendere il mare dall'invasione della plastica, fanno parte della coalizione "Stop Plastic Waste", che riunisce anche Cile, Principato di Monaco, Mauritius, Svezia, Bangladesh, Australia, Senegal, Croazia, Paesi Bassi e Ruanda. Alla portata di tutti Ecco che cosa si pu� fare per difendere il mare dall'invasione di plastica. Oltre a preferire sacchetti, posate, piatti e bicchieri riutilizzabili, � meglio evitare di usare cannucce e prodotti cosmetici, come dentrifici o scrub, con microgranuli (o perlomeno controllare che non contengano polietilene e polipropilene). Non comprare prodotti con troppi imballaggi e difficili da riciclare e ridurre al minimo il consumo di acqua in bottiglie di plastica. Il bello della sorpresa (di Elena Meli, "Focus" n. 313/18) - � l'emozione ppi� breve, ma potenzia tutte le altre. E ha una funzione fondamentale: ci permette di imparare cose nuove - Il robot si aggira nella stanza, ma all'improvviso si ferma: ha visto qualcosa di insolito. Sullo scaffale ci sono un bel po' di oggetti in disordine, proprio l� dove di solito tutto � allineato. Guarda e qualcosa "non gli torna": se fosse umano, diremmo che si sorprende di quel caos. Siamo a Roma, nel laboratorio dell'Istituto di Scienze e tecnologie della cognizione (Istc-Cnr). Qui, si studia come rendere un robot capace di stupirsi. Perch� questa emozione serve, eccome: tant'� vero che i circuiti del piccolo robot iniziano ad arrovellarsi su come agire per tornare alla norma. Dopodich� comincia a spostare i libri e a rialzare i soprammobili caduti. L'ordine � ripristinato. Di pi�: ripetendo situazioni come questa, il suo cervello (dotato di intelligenza artificiale) capisce da solo come gestire la situazione. E il motore di tutto � stato quell'"ooh" iniziale di sorpresa che gli sarebbe certo sfuggito dalle labbra, se fosse stato in carne e ossa. Pu� sembrare sorprendente (� proprio il caso di dirlo), ma oggi gli scienziati sanno che si impara proprio grazie alla sorpresa. Il che, naturalmente, vale soprattutto per noi: "Fin dalla nascita osserviamo quel che ci circonda per creare un modello del mondo che ci consenta di fare previsioni, per sapere sempre come reagire. Il cervello confronta continuamente la realt� con il modello, e quando c'� una discrepanza scatta la sorpresa: se un bimbo sfiora un interruttore passando vicino alla parete e vede accendersi la luce si stupisce, si chiede perch� sia successo, le pareti di norma non si illuminano da s�. E siccome quella luce � stata una bella sorpresa si sforza di capire come fare a riaccenderla: impara qualcosa di nuovo, usare l'interruttore", spiega Gianluca Baldassarre, coordinatore di GOAL Robots (Goal-based Open-ended Autonomous Learning), il progetto europeo a cui partecipa anche il robot che ha imparato a riordinare gli scaffali. Lo scopo del progetto � arrivare a costruire umanoidi capaci di imparare da s�: per riuscirci, proprio come avviene con gli umani, � indispensabile stimolarli con le novit� e le sorprese. In effetti, la sorpresa � l'emozione pi� breve di tutte, ma � una delle pi� importanti: in un attimo cambia il cervello, rendendolo pronto a incamerare nuove informazioni. Come maestra, la sorpresa funziona con un meccanismo diverso dalla novit� (che serve ugualmente ad apprendere). Ci si sorprende quando ci� che accade non � quello che ci aspettavamo. Una novit�, invece, � una situazione mai vissuta prima, che incuriosisce ma non necessariamente sorprende. Dice Baldassarre: "Davanti a un animale mai visto il cervello interroga la sua memoria di immagini: non lo trova, scatta la curiosit�. Qui non c'� una discrepanza con ci� che ci aspettiamo accada a seguito di un'azione, ma una novit� da incamerare". Qualcosa da imparare, appunto. Sia la sorpresa vera e propria, sia l'effetto novit�, marcano quindi un evento, una situazione, un oggetto come interessanti mettendo in allerta il cervello, come per dirgli: "L'idea della realt� che hai non � abbastanza precisa, devi capirci qualcosa di pi�, aggiornare quel che sai". Ma la sorpresa, rispetto all'effetto novit�, sembra avere una marcia in pi�: secondo i due psicologi statunitensi Robert Rescorla e Allan Wagner, pi� mi stupisco di qualcosa che viola le aspettative, pi� quell'informazione resta "marcata a fuoco" nella mente. Ecco perch� da piccoli si impara pi� velocemente: tutto � sorpresa, dalle bolle di sapone che volano, al telefono da cui esce la voce della mamma. Uno studio della Johns Hopkins University (Usa) su un centinaio di bimbi di un anno lo conferma: anche i piccolissimi hanno un'idea del mondo e fanno previsioni su quel che pu� accadere. E se qualcosa non va come si aspettano (nell'esperimento dei ricercatori americani una palla sembra attraversare un muro o restare sospesa in aria) spalancano gli occhi e fissano l'oggetto che li ha sbalorditi, come per carpirne ogni segreto. Se ci possono giocare, lo fanno senza farsi distrarre da qualsiasi altro giocattolo venga loro offerto, perch� la sorpresa li ha incuriositi e la sfruttano per imparare: vogliono saperne di pi�, come fossero piccoli scienziati alle prese con nuove teorie da soppesare. Ma come fa la sorpresa, che dura un attimo, a essere una cos� "buona maestra" e avere tanto potere sul cervello? Thorsten Kahnt, della Northwestern University (Usa), di recente ha scoperto che lo stupore accende il mesencefalo, un'area cerebrale profonda, attivando neuroni che producono dopamina, un neurotrasmettitore che facilita l'apprendimento e la flessibilit� delle connessioni cerebrali ma che � anche coinvolto nella gratificazione. La meraviglia quindi non solo "apre" la mente predisponendola a imparare, ma di solito � anche molto piacevole: probabilmente un meccanismo selezionato dall'evoluzione per facilitare l'apprendimento, visto che conoscere il mondo � indispensabile per sapere come muoversi e sopravvivere. Gregory Berns, ricercatore alla Emory University di Atlanta (Usa), lo ha confermato: uno stimolo gradevole (nel caso dei suoi esperimenti un bicchiere di succo di frutta) attiva i centri cerebrali del piacere molto di pi� quando � inatteso rispetto a quando � prevedibile. Secondo Berns ci� significa che il nostro cervello � fatto apposta per amare le sorprese (per i neuroni sono come una droga), ma anche che l'effetto meraviglia � una sorta di "amplificatore psicologico", perch� nel bene e nel male potenzia al massimo l'emozione che viviamo immediatamente dopo quel secondo a bocca aperta. Ecco come mai i regali inattesi sono pi� graditi dei doni gi� concordati, un imprevisto improvviso ci fa arrabbiare pi� di un ostacolo che sapevamo ci saremmo trovati davanti. In entrambi i casi il meccanismo � utile: il cervello ama sorprendersi in positivo, attivando di pi� i centri del piacere e la produzione di dopamina, perch� cos� impara; ma � anche iper-reattivo di fronte alle sorprese negative perch� deve essere pronto a reagire al pericolo. Marina Belova, della Columbia University di New York, ha infatti verificato che l'inatteso attiva anche l'amigdala, una "centralina delle emozioni" fondamentale per gestire la paura e le reazioni di evitamento. "L'uomo deve esplorare il mondo ed � attratto dal nuovo, che per� pu� essere una minaccia", osserva Baldassarre. "La sorpresa pu� essere buona o cattiva, ma in entrambi i casi insegna". Insegna soprattutto a vivere, perfino in coppia: lo psicologo Arthur Aron, della New York State University, ha dato ad alcune coppie di lunga data un po' annoiate il compito di impegnarsi in attivit� piacevoli ma comuni (come guardare un film o andare al ristorante) o in esperienze per loro insolite (come un weekend di sci o un concerto). Dopo dieci settimane ha chiesto ai coniugi quanto fossero soddisfatti del matrimonio: chi aveva provato attivit� inconsuete iniettando un pizzico di stupore nella relazione era pi� contento della vita a due e aveva ritrovato un po' di slancio amoroso. E la sorpresa pu� far bene pure alla carriera, stando alla "Teoria della casualit� pianificata" di John Krumboltz della Stanford University: secondo lo psicologo Usa dovremmo essere capaci di riconoscere e sfruttare gli eventi insoliti in ufficio per imparare e quindi aumentare le competenze. Farlo ci renderebbe pi� capaci di afferrare le opportunit�, quando si presentano: l'imprevisto � cos� importante per la crescita lavorativa che secondo Krumboltz andrebbe addirittura pianificato, cercando per esempio di essere pi� curiosi, assumere pi� rischi, essere pronti a cambiare le abitudini. Stupirsi, insomma, aiuta cos� tanto a vivere meglio che la psicologa statunitense Tania Luna, autrice del libro Surprise. Embrace the Unpredictable and Engineer the Unexpected (Sorpresa. Afferra l'imprevisto e costruisci l'inaspettato), ha fondato la Surprise Industries, la prima (e finora unica) azienda al mondo che vende sorprese. Non quelle dell'uovo di Pasqua, ma vere esperienze inaspettate: basta rispondere a un questionario particolareggiato sulla propria vita e pagare un minimo di tre dollari, poi non resta che attendere. Domani, fra un mese o tre anni arriver� una lettera, l'invito ad andare in un posto speciale o altro: qualcosa capace di lasciare davvero a bocca aperta, "garantito". La delizia (o la croce?) in famiglia (di Claudia Giammatteo, "Focus Storia" n. 145/18) - Il mito della suocera bisbetica in lotta con la nuora (o il genero) ha radici antichissime - Il commediografo latino Terenzio non lasciava speranze: "Tutte le suocere in pieno accordo odiano le nuore", sentenzi� nella commedia La suocera nel II secolo a.C.. Ancora pi� caustico, quattro secoli dopo, l'appello lanciato dallo scrittore Giovenale: "Rinuncia alla pace familiare finch� tua suocera � viva" (Satire, VI 231-235). E Giovanni Verga nel romanzo I Malavoglia (1881) rafforzava il concetto lamentandosi che "Fra suocera e nuora si sta in malora". Sono solo tre esempi dei fiumi di inchiostro dedicati a uno degli stereotipi culturali occidentali pi� radicati, quello della suocera arpia e ficcanaso, in eterna lotta con le vittime preferite delle sue angherie: genero e nuora. Un'immagine replicata in romanzi, commedie, fumetti, persino barzellette ("Mia suocera � un angelo". "Beato te: la mia � ancora viva!") e proverbi ("Una suocera � buona e lodata quando � morta e sotterrata"). Ma come � nato questo clich�? E, soprattutto, come ha fatto ad arrivare intatto fino ai nostri giorni? Per rispondere a queste domande bisogna tornare al passato. L'attribuzione del ruolo di "boss" della gerarchia familiare risale, infatti, alle origini della civilt�. Lo dimostra l'etimologia del termine "suocero", dalla radice indoeuropea (protolingua preistorica) swe "colui che appartiene al medesimo gruppo sociale" e krov "colui che detiene l'autorit�". Gli antropologi ottocenteschi hanno svelato per primi l'esistenza di due riti di sottomissione millenari: nelle societ� primitive matriarcali, dove vigeva il "matrimonio servile", cos� detto per la condizione di inferiorit� a cui era condannato lo sposo convivente, quest'ultimo era obbligato a prestare speciali servizi (come tagliare legna per il fuoco) e a inginocchiarsi di fronte alla suocera senza mostrarle i piedi. Un'usanza ancora pi� singolare diffusa nelle societ� tradizionali di Nord America (Dakota, Omaha), Oceania, Africa (tra Boscimani e Zulu) imponeva a suocera e genero di evitarsi: i due non potevano guardarsi, n� rivolgersi la parola, n� pronunciare i rispettivi nomi, ma avevano rapporti solo per interposta persona. Un rituale battezzato "evitamento" (in inglese avoidance) a cui gli studiosi hanno, per�, attribuito significati molto diversi. "Secondo l'etnologo John Lubbock, l'evitamento risaliva ai tempi in cui il matrimonio avveniva "per ratto", cio� tramite il rapimento della sposa, ed evocava la collera dei parenti verso il genero "rapitore"", spiega Fabio Dei, docente di Antropologia culturale all'Universit� di Pisa. "Nel saggio Totem e Tab� del 1913, Sigmund Freud era di opinione diversa: riteneva che quel divieto del contatto fisico fosse una precauzione dalla tentazione dell'incesto tra suocera e genero, che violando un tab� sacro avrebbe obbligato l'intero gruppo a cerimonie espiatorie". La moderna antropologia sociale insiste, invece, sulla natura strettamente rituale dell'evitamento, "un modo di segnalare simbolicamente il rapporto tra elementi diversi della struttura familiare e tenere sotto controllo gli esiti potenzialmente conflittuali della relazione di parentela". Il mito della suocera arpia e petulante risale, invece, al modello familiare esteso e patriarcale, che obbligava gli sposi a vivere con i parenti di lui: zii, nonni, genitori, nipoti, sotto lo stesso tetto. Spesso, infelicemente. "Tutti gli studi sui mutamenti della famiglia italiana dal XV al XX secolo concordano sulla richiesta di sottomissione alla suocera della nuora convivente", spiega il sociologo Marzio Barbagli. "Un fenomeno pi� accentuato nei ceti in cui vigeva la ferrea gerarchia familiare e la separazione dei ruoli. Nelle famiglie aristocratiche, per esempio, i rapporti erano regolati in base all'et�, al sesso e all'ordine di successione. I figli venivano educati alla completa deferenza, privati di baci e coccole, e, soprattutto, i matrimoni erano combinati tra estranei. Per molti secoli fu il capostipite, consigliato dalla moglie, a stabilire quale dei suoi figli si potesse sposare, con chi e a che et�", prosegue l'esperto. Obbedire al diktat paterno condannava al gelo coniugale ma disobbedire era garanzia di una convivenza infernale. Nel '700 fece scalpore il braccio di ferro tra il giovane marchese Cesare Beccaria (1738-1794) e il padre Saverio, cos� convinto che il suo matrimonio con la sedicenne Teresa De Blasco fosse economicamente svantaggioso, da ottenere dall'Amministrazione di Milano che il figlio fosse messo agli arresti domiciliari per tre mesi "acciocch� sia in piena libert� di maturare seriamente il suo caso". E, non pago, gli tolse anche i diritti di primogenitura. Ma i due si sposarono lo stesso. Anni dopo, fu Giulia Beccaria (figlia di Cesare e Teresa), madre di Alessandro Manzoni, a odiare la nuora trentasettenne Teresa Borri, vedova Stampa. Manzoni l'aveva sposata contro la volont� della madre, che si lamentava a sua volta pubblicamente della pigrizia della nuora: "Mentre Alessandro si sveglia presto al mattino per lavorare lei non lascia il suo letto prima di mezzogiorno". Ancora pi� tumultuose erano le baruffe che scoppiavano nelle famiglie numerose dell'Italia contadina mezzadrile. "L'autorit� suprema era il capofamiglia, detto il capoccia, reggitore o vergaro, che teneva i rapporti con il proprietario del podere aiutato da sua moglie, detta massaia, vergara o reggitrice, che gestiva il denaro, i lavori domestici, l'orto e il pollaio. Seguivano i figli maschi, tra cui il bifolco, addetto al bestiame, e infine le figlie femmine e le mogli dei figli", spiega Barbagli. Le nuore passavano direttamente dall'autorit� dei genitori a quella dei suoceri, a cui davano rispettosamente del "voi" (e in Veneto li chiamavano rispettivamente ms�, "mio signore" e madonna, "mia signora") e da cui erano dipendenti sia sul lavoro sia per i bisogni pi� importanti. La sottomissione delle nuore iniziava il giorno delle nozze. "In alcune zone del Centro Italia il corteo nuziale trovava la porta di casa sbarrata e la sposa doveva bussare per tre volte, finch� appariva sull'uscio la suocera con un mestolo alla cintura. E lo passava alla nuora solo dopo le formule di rito ("Che cosa volete?", chiedeva la suocera. "Entrare in casa vostra e obbedirvi in quanto vi piaccia di comandarmi", rispondeva la nuora). In altri casi la suocera portava una scopa, una scodella piena di acqua e la nuora doveva lavare la soglia", prosegue Barbagli. Angelo De Gubernatis nel 1878 scriveva: "La suocera deve essere dalla nuora considerata come la sua padrona e il suocero come il suo padrone", afferm�. Ma questo non significa che in casa regnasse la pace. Anzi. Le tensioni latenti potevano diventare cos� forti da esplodere in quelle che lo storico Domenico Spadoni chiamava "terribili guerre femminili", davanti alle quali i fin troppo docili mariti non intervenivano mai. Il motivo pi� frequente delle urla tuttavia era la rivalit� tra nuore. La gerarchia familiare contadina favoriva la nuora che era entrata per prima in famiglia. L'ordine, per�, poteva essere alterato o capovolto dalle predilezioni dei suoceri, scatenando rivalit� furibonde. Ma se, nonostante i bocconi amari, la gerarchia patriarcale dur� cos� a lungo fu perch� rispondeva a precisi calcoli di convenienza. "Figli e nuore sapevano di non avere alternative lavorative, a meno di non volere precipitare allo status di braccianti, e soprattutto che non erano le nozze il momento di emanciparsi. Questo avveniva alla morte dei genitori o quando la malattia li costringeva ad abbandonare la direzione del podere. Da parte loro, le infelici nuore erano educate ad accettare la loro condizione e dagli esempi femminili intorno a loro, avevano imparato che dichiarare guerra alla suocera significava inevitabilmente andare incontro a una sconfitta", conclude l'esperto. Nei primi decenni del '900 molti riti di sottomissione erano scomparsi. Le trasformazioni sociali prodotte dalla rivoluzione industriale avevano messo in crisi l'autorit� patriarcale e lentamente imposto un nuovo modello di famiglia "coniugale intima". In tutti i ceti sociali il matrimonio si fondava sulla libera scelta degli sposi, sull'attrazione fisica e sull'amore. Eppure anche se i coniugi vivevano per conto proprio, lontani dalle intromissioni dei suoceri, il luogo comune della suocera-arpia era ancora intatto. Freud fu il primo ad attribuire le guerre domestiche (soprattutto l'acredine tra suocera e genero) a impulsi inconsci. "Una parte di questi impulsi � facilmente individuabile. Per la suocera � la contrariet� a rinunciare alla propria figlia e la diffidenza nei confronti dello straniero al quale � stata affidata [...]. Per l'uomo � il rifiuto di sottomettersi ad una volont� che non sia la propria", scrisse il padre della psicanalisi in Totem e Tab�, dove rimpiangeva il "tab� del contatto", "Presso le razze bianche d'Europa e d'America non esiste alcun divieto in proposito, e tuttavia parecchi litigi e tante noie sarebbero evitate se questi divieti esistessero proprio come usi correnti". Che le ostilit� siano indipendenti dallo status sociale familiare � infine dimostrato dall'elenco di teste coronate, personaggi illustri e leader mondiali a cui la suocera troppo possessiva ha dato filo da torcere. "Dietro un uomo di successo, c'� una moglie fiera e una suocera sorpresa", esclam� negli Anni '50 il presidente americano Harry Truman, sminuito dalla suocera Madge Gates Wallace. Il premier britannico Winston Churchill fu ancora pi� caustico: "Non c'� bisogno di inasprire le pene per bigamia. Un bigamo ha due suocere: come punizione mi pare che basti". Panettone, il dolce gusto del Natale ("RivistAmica" n. 10/17) - Una fetta alla fine del cenone della vigilia o del pranzo del 25 dicembre � di rigore, ma questa specialit� tradizionale di origine milanese pu� essere apprezzata anche a colazione o a merenda, senza esagerare con le dosi - Il re dei dolci di Natale vanta origini milanesi. Parliamo ovviamente del panettone, fragrante specialit� da forno dalla caratteristica forma a tappo di Champagne, arricchita all'interno da deliziose scorze di frutta candita e uvetta. La maggior parte delle famiglie italiane non si alza dal cenone della vigilia o dal pranzo del 25 dicembre se non ha mangiato almeno una fetta di panettone. A insidiare il suo primato durante le feste natalizie c'� solo il pandoro, dolce originario di Verona adatto a chi non ama i canditi e preferisce lo zucchero a velo. Secondo una delle tradizioni pi� accreditate, l'inventore del panettone fu uno sguattero della cucina di Ludovico il Moro di nome Toni - da cui l'espressione "Pan de Toni" - lavorando a pi� riprese un panetto di lievito madre con farina, uova, zucchero e l'immancabile frutta candita e uvetta. La paternit� del panettone � attribuita per� anche ad altri creativi della pasticceria come Ughetto degli Atellani e Suor Ughetta, i cui nomi, fra l'altro, sono entrambi etimologicamente legati a uno degli ingredienti chiave del panettone, l'uvetta, che in milanese si dice "ughett". Tra i capisaldi della produzione del panettone ci sono l'accurata lavorazione dell'impasto e la lunga lievitazione. Quest'ultima � fondamentale per permettere al dolce di sviluppare la giusta morbidezza e gli aromi dolci e agrumati. Nel 2005 un decreto del Ministero delle Attivit� produttive ha stabilito che possono apporre in etichetta la scritta "Panettone" solo i prodotti preparati con farina di frumento, zucchero, uova di gallina e/o tuorlo d'uovo, materia grassa butirrica (ossia il grasso del latte, come il burro), uvetta, scorza di agrumi, canditi, lievito naturale composto da pasta acida e sale in determinate quantit�. Ci sono poi una serie di altri ingredienti facoltativi, come il latte, il miele, il malto, il burro di cacao. Un capitolo a parte, in effetti, va riservato alle varianti, che sono davvero tantissime e spesso sfidano la tradizione, a cominciare dal panettone senza canditi. Molto gettonati sono anche i panettoni glassati, con farcitura al cioccolato, alla crema, con mandorle e pistacchi. Per venire incontro alle esigenze di chi soffre di celiachia, negli ultimi anni sono sempre di pi� le aziende che propongono panettoni "senza glutine" e dal 2015 la dicitura pu� essere inserita in etichetta. Anche gli artigiani milanesi hanno un loro disciplinare di produzione, molto pi� restrittivo di quello delle case di produzione industriali, con un marchio di qualit� riconosciuto dalla Camera di commercio di Milano. La dolcezza del panettone appare evidente, oltre che al gusto, quando si considera il suo apporto nutrizionale. 100 grammi corrispondono a 350-400 calorie, il cui margine di differenza � dato dal tipo di farcitura. Il momento migliore per gustarlo � quindi la mattina a colazione, magari inzuppato in una tazza di latte caldo. Chi vuole concedersi una fetta anche dopo pranzo o a merenda pu� farlo in tranquillit� a patto di praticare un po' di sport nel corso della giornata, oppure fare una lunga passeggiata o un giro in bicicletta. Ammaliante Delhi (di Ilaria Simeone, "Ulisse" n. 407/18) - Splendori e miserie della capitale indiana, tra vestigia imperiali, architetture coloniali e ambizioni future - Mahendra Pawar dipinge l'intonaco con antiche fortezze abbandonate, Rakesh Kumar Memrot lo colora con figure dell'arte tribale, mentre Kajal Singh lo fa fiorire di segni astratti e anonime mani lo rendono vivo con il volto del Mahatma Gandhi. I muri di Lodhi Road, baraccopoli nel cuore di New Delhi che un progetto di recupero urbano ha trasformato di recente in galleria per gli street artists, sono una tavolozza paradigmatica delle mille sfumature della capitale indiana. Opulenta e misera, ammaliante e irritante, flemmatica e frenetica, intasata di gente, traffico e inquinamento, Delhi � tutto e il suo contrario: angusta e antica tra i vicoli medievali di Old Delhi, regale lungo i larghi viali fastosi della New Delhi disegnata dai colonialisti inglesi, feroce nei quartieri rasi al suolo per far posto a grattacieli e monumentali centri commerciali. Una megalopoli di 17 milioni di abitanti - quanti ne contano Svezia e Finlandia insieme - che, indecisa su quale sar� il suo volto futuro, trabocca di vestigia di imperi perduti e maestose rovine, sciorina templi, moschee, raffinati musei, gallerie d'arte, seduce con la ricchezza dei suoi tradizionali mercati e dei nuovissimi shopping mall stordisce con i suoi forti sentori. Come quelli che impastano l'aria di Chandni Chowk, la via che taglia Old Delhi, la citt� fatta costruire nel XVII secolo dall'imperatore Shan Jahan. Ai suoi tempi la strada, letteralmente "luogo del chiaro di luna", scivolava lungo un canale sulle cui acque, di notte, si specchiava il pallido satellite terrestre. Oggi � un viale affollato, aggredito ai fianchi da un labirinto di vicoli angusti chiusi tra palazzi regali e fatiscenti angoli colmi di bazar d'ogni tipo. Tra motorini, macchine e risci� passano correndo ragazzi carichi di merci, donne in sari stendono il bucato, uomini con il turbante giocano a carte bevendo t�, le bancarelle di tessuti e monili si contendono lo spazio con le botteghe dei barbieri e i venditori di cibo da strada. Chandni Chowk s'arrampica fino a un colosso di arenaria rossa circondato per due chilometri dalle mura: � il seicentesco Lal Qila, il Forte Rosso, gloria dell'epoca Moghul e oggi Patrimonio Unesco. Dentro le mura, passata la Porta di Lahore, si raccolgono i palazzi del potere: la Casa del Tamburo, la Sala delle Udienze Pubbliche e quella delle Udienze Private (in marmo bianco), la Moschea della Perla, i Bagni Reali e il Palazzo del Colore. Di sera uno spettacolo di luci e suoni rievoca l'antica storia del forte e dell'impero Moghul. I sapori dell'epoca mughlai si gustano da Al Jawahar, ristorante che propone le specialit� della sontuosa cucina dei tempi dell'impero come il tenerissimo stufato di montone. Accanto si erge la lama Masjid, la Moschea del Venerd�, la pi� grande dell'India: pu� ospitare fino a 25 mila fedeli. Costruita a met� del Seicento in arenaria rossa e marmo bianco ha tre ingressi, quattro torri angolari, minareti alti pi� di 40 metri e conserva preziosi reperti come un'antica copia del Corano scritta su pelle di cervo. Dall'alto del minareto meridionale il panorama � superbo: lo sguardo abbraccia la citt� vecchia e l'ordinato disegno urbanistico di New Delhi, la citt� disegnata ai primi del '900 dall'architetto Edwin Lutyens per i colonialisti inglesi che avevano deciso di trasferire qui la loro capitale abbandonando Calcutta. Ordinata, solenne, regalmente sobria, New Dehli � un alter ego altezzoso e caduco di Old Delhi; terminata nel 1931 fu la capitale della grandeur coloniale dell'Impero Britannico per appena sedici anni: nel 1947 gli inglesi vennero cacciati dall'India. Conserva numerose vestigia di quei tempi: il Rashtrapati Bhavan, un tempo la casa del vicer� e oggi residenza ufficiale del presidente dell'India, la Casa del Parlamento, gli edifici settentrionale e meridionale del Secretariat, l'arco trionfale in pietra (alto 40 metri) conosciuto come Porta dell'India e omaggio ai soldati indiani morti durante la prima Guerra Mondiale, e il Rajpath, l'ampio viale costruito per le parate. Sempre a New Delhi ci sono gli altri due siti Unesco della capitale indiana: la tomba dell'imperatore Humayun, splendido esempio dell'arte moghul costruito intorno alla met� del XVI secolo e ancora oggi uno degli edifici pi� belli di Delhi, e il Qutab Minar, la torre della vittoria fatta erigere da Qutab-ud-din Aibak dopo la sconfitta dell'ultimo regno hindu come simbolo della legge islamica. E poi il Jantar Mantar, uno strano edificio che sembra un inno all'architettura moderna e invece risale al 1725 ed � uno dei cinque osservatori astronomici moghul dotato di monumentali strumenti di osservazione, il National Museum che racconta 5000 anni di storia indiana e la National Gallery of Modern Art, ospitata nell'antica residenza del maharaja di Jaipur, dove sono custodite le opere di tutti i grandi artisti indiani moderni, da Amrita Sher-Gil a MF Husain. L'anima di New Delhi per� � una piazza, la Connaught Place, il capolavoro dell'architettura coloniale inglese: una serie di cerchi concentrici scanditi da edifici bianchi e vasti porticati tagliati da vie a raggiera che dividono l'area in blocchi. Qui si raccolgono ristoranti alla moda, negozi di lusso, locali trendy. Fate un giro da FabIndia, boutique di abiti e tessuti in puro cotone ed elementi d'arredo realizzati a mano da artigiani locali, poi prendete un aperitivo al Vault Caf�: archi, volte, porte circolari e un bizzarro menu che guarda agli Stati Uniti conditi con tocco di vecchia India. Ezio Bosso: "Per me casa � dove incontro un sorriso" (di Filippo Nassetti, "Ulisse" n. 407/18) - Torinese di nascita, la musica lo ha portato in giro per il mondo - Per usare le parole di uno dei suoi libri preferiti, Ezio Bosso � un "cristallo sognante". Un musicista, direttore d'orchestra, compositore con una vocazione pura e lucente. Non lo ha fermato neppure l'inciampo con una malattia neurodegenerativa che lo ha costretto, alcuni anni fa, a reimparare a parlare, a sorridere e, anche, o soprattutto, a suonare. "Un periodo buio dove ho colto il significato delle parole di Nietzsche: "Il mondo senza la musica sarebbe un errore"" spiega il Maestro. Ezio Bosso si definisce comunque una persona fortunata, capace di vivere della sua passione, iniziata all'et� di quattro anni. Una passione che ha reso subito chiarissimo il suo destino: "La musica ti cambia la vita, non conosco musicista che non abbia incontrato l'amore". Il Maestro Bosso non ha certo le physique du r�le di un accademico, di un barone della musica. Lo incontriamo in un albergo romano e si presenta come un mod d'Oltremanica: jeans strappati, maglietta attillata, giacca e guanti senza dita di pelle. Ci parla del suo nuovo lavoro, The roots, dove, come gi� in passato per i "respiri", le "stanze", la "meteorologia", ha compiuto un lungo lavoro di ricerca. "Mi sono interrogato sulle mie radici di uomo e di musicista. Quattro anni di lavorazione. Sono rimasto affascinato dall'idea del wood wide web, una teoria secondo cui le radici non sono altro che un secondo albero sottoterra che si sacrifica per quello al sole". Per l'artista le radici non rappresentano dei vincoli, al contrario sono il viatico alla libert�: "Da giovani le rifiutiamo per poi scoprire che vogliamo metterle, perch� le riconosciamo, e in quel momento ci liberano". Musicalmente le radici di Bosso attingono e si specchiano "in Johann Sebastian Bach e la sua ricerca di religiosit� con i corali, in Arvo P�rt e nei suoi sette anni di silenzio e indagine su se stesso, in Olivier Messiaen e nella composizione di uno dei brani pi� sconvolgenti della storia, Quartetto per la fine del Tempo, scritto in un campo di concentramento". Le radici non conoscono confini nazionali, come ha egregiamente spiegato Bosso in una lecture al Parlamento Europeo, quando agli eurodeputati si � presentato con: "Vi parla un bambino abituato fin da subito ad essere europeo. Chi si dedica alla musica frequenta fin da piccolo germano-austriaci come Beethoven, francesi come Debussy, tedeschi come Mendelssohn. L'orchestra che sto dirigendo � italiana, ma ha un primo violino romeno e una prima viola ungherese". Per il Maestro Bosso la musica rappresenta "un intero condiviso, la somma di uno spazio comune e di un tempo comune. Un intero, appunto". Difficile trovare radici geografiche, nato a Torino da pap� tranviere e mamma operaia Fiat, Ezio in giovent� ha studiato a Vienna, ma � vissuto anche a Roma, Parigi, New York, Lugano e Sydney, per poi trasferirsi a Londra e assumere incarichi di direttore dei teatri d'opera di Bologna prima e, ora, di Trieste. "Da adolescente ho perso il concetto di casa inteso come luogo fisico, per me casa � il luogo dove incontro un sorriso, dove posso alzare la mia bacchetta da direttore o pigiare i tasti del pianoforte". Il suo Steinway a coda lo accompagna ovunque. � stato personalizzato con tasti pi� leggeri per non rompere quelle dita, fragili e virtuose, che non si risparmiano nelle tante esibizioni in Italia e all'estero. Da alcuni anni ha ripreso a dirigere, la bacchetta � il suo strumento. "� come quella di Harry Potter. Non suona, ma ogni gesto � musica. E la penso come la Rowling, � la bacchetta che sceglie il suo possessore, non il contrario". Dopo averlo ammirato dal vivo, un critico musicale del Maestro Bosso ha detto: "La tecnica la possono acquisire tutti, ma la magia non si impara: nelle sue mani la bacchetta diventa magica".