Gennaio 2017 n. 01 Anno II Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Copia in omaggio Indice L'Europa alla deriva? Parte prima Nella Francia di P�tain L'Europa alla deriva? Parte prima (di Valerio Castronovo, "Prometeo" n. 136/16) - Le diverse cause endogene ed esogene che hanno incrinato nel corso del tempo le fondamenta dell'Unione europea. - Se il crollo del Muro di Berlino e l'estinzione nel 1991 dell'Urss avevano consacrato il ruolo degli Stati Uniti a unica superpotenza a livello planetario, avevano invece posto la Comunit� europea di fronte a due questioni di fondo: da un lato, evitare che si accentuasse il suo divario nei riguardi di Washington; dall'altro, neutralizzare il sopravvento, prima o poi, al proprio interno di una nuova grande Germania dopo la sua riunificazione nazionale. Era stata questa prospettiva a preoccupare fin da subito la Francia, dove non s'erano mai dissolti del tutto i ricordi angosciosi di due guerre mondiali, che aveva dovuto affrontare per non essere sopraffatta, prima dalla Germania guglielmina e, poi, da quella hitleriana. Anche la Gran Bretagna s'era interrogata sulle conseguenze che una ricomposizione della Germania avrebbe avuto immancabilmente sugli equilibri europei: tanto che Margaret Thatcher aveva pensato, nel dicembre 1989, di concertare con Fran�ois Mitterrand un'"azione di forza" diplomatica al fine di bloccare la ricostituzione dello Stato tedesco. Senonch� fu decisivo al riguardo il via libera del leader del Cremlino Mikhail Gorbaciov (dietro un consistente soccorso economico alle esangui finanze sovietiche), a cui fece seguito l'assenso di Washington al ricongiungimento delle due Germanie. A ogni modo, nonostante le rassicurazioni di Helmut Kohl, che il governo di Bonn non mirava assolutamente a fare della Cee una "Europa tedesca", ma anzi puntava allo sviluppo di una "Germania europea" (all'insegna dei postulati di Thomas Mann), Mitterrand era convinto che ci si dovesse comunque premunire dal rischio di un ritorno in auge nel Vecchio continente di un megastato tedesco. D'altra parte, l'inquilino dell'Eliseo intendeva ribadire la leadership politica detenuta fino ad allora dalla Francia nell'ambito della Comunit� europea. A tal fine aveva pensato che la creazione di una moneta unica avrebbe potuto legare stabilmente la Germania al carro delle istituzioni comunitarie e perci� alle direttrici di marcia di una compagine su cui Parigi aveva esercitato da sempre un'influenza determinante. Egli escludeva comunque, in conformit� alla linea di condotta perseguita costante mente dalla Francia, che l'istituzione di una moneta unica dovesse porre le premesse di un assetto politico dell'Europa comunitaria in chiave federale. In pratica, si trattava, come in passato, di coniugare nell'ambito di un sistema intergovernativo un'"Europa delle patrie" con un'"Europa dei mercati". Che era quanto risultava congeniale anche alla Gran Bretagna. Entrata nel 1973 a far parte della Cee, alla luce di motivazioni principalmente economiche, e gelosa della sua tradizionale "insularit�", essa aveva considerato la Comunit� europea essenzialmente come un ampio spazio di proficui scambi commerciali e di liberi movimenti di capitale. E tale era rimasto l'orientamento di Londra: tanto pi� con Margaret Thatcher, del tutto avversa a qualsiasi genere di unione politica. Quanto al futuro, uno statista di lungo corso come Mitterrand, di matrice socialista ma propenso a declinare lo stesso indirizzo di De Gaulle sul versante internazionale, era dell'idea che un graduale allargamento della Ue ai paesi ex comunisti dell'Est avrebbe concorso non solo a fare da contrappunto alla Germania riunificata; avrebbe anche dato modo alla Francia di ampliare i propri spazi d'iniziativa politica e diplomatica, come ai tempi della "guerra fredda", quando il generale aveva cercato di far valere un ruolo autonomo di Parigi rispetto alle direttive di Washington. Quella che egli aveva in mente, nella sua visione in prospettiva della costituenda Unione europea, era dunque una sorta di Europa a cerchi concentrici attorno alla Francia. Sia perch� era la Francia il partner preminente nel "direttorio franco-tedesco" (instaurato nel 1965 da De Gaulle con Adenauer); sia perch� essa costituiva il polo di riferimento dell'area mediterranea, formata dai paesi sud-europei della Cee e da alcuni ex possedimenti nord-africani di Parigi. Si spiega quindi come Mitterrand non si fosse preoccupato pi� di tanto della mossa del tutto imprevista di Bonn di riconoscere per prima, nel dicembre 1991, l'indipendenza dalla Federazione jugoslava (sprofondata in una lunga guerra civile) della Slovenia e della Croazia, nell'intento di assicurare alla Germania una propria sfera d'influenza in due paesi, a ridosso delle sue frontiere meridionali, che avevano fatto parte per lungo tempo dell'area di influenza politicoculturale del mondo tedesco. Per Parigi quel che contava era infatti, da un lato, la sua capacit� d'attrazione nei riguardi della Cecoslovacchia e della Polonia e, dall'altro, la convergenza con Londra in merito a una governance della Comunit� europea che non comportasse un processo di integrazione politica. Perci� Mitterrand aveva rassicurato il successore di Margaret Thatcher, John Major, che l'istituzione di un'Eurozona non avrebbe costretto la Gran Bretagna a rinunciare, insieme alla sua sterlina, anche ai privilegi acquisiti dalla "lady di ferro" in ordine all'entit� dei contributi finanziari inglesi al bilancio dell'Unione europea. Quanto all'Italia, che continuava a professare gli ideali europeisti originari, era parso al governo di Roma, guidato da Giulio Andreotti, che la creazione dell'euro avrebbe potuto costituire il prologo di una futura unione politica. Non restava quindi all'Italia che stare al gioco per far parte di Eurolandia (sia pur a costo di notevoli sacrifici per allinearsi alle prescrizioni del trattato di Maastricht del febbraio 1992) e cercare poi di far valere lungo la strada le proprie istanze. Il calcolo di Mitterrand, fatto proprio da Jacques Chirac, leader dello schieramento politico moderato, che gli era subentrato all'Eliseo, non aveva perci� incontrato ostacoli nei successivi tornanti. � vero che Chirac aveva dovuto vedersela con il suo connazionale Jacques Delors, presidente sino al 1995 della Commissione europea, che perorava un "approfondimento" della Ue per rafforzarne le fondamenta, in modo che i suoi partner procedessero verso un maggior grado di integrazione tanto economica che politica. Ma aveva finito col prevalere la tesi di un "allargamento" della Ue ai paesi ex comunisti dell'Est, i cui governi scalpitavano da tempo per farvi ingresso a pieno titolo, dopo essere stati sottoposti a prolungati "esami d'ammissione", quali semplici "associati", anche se beneficiari frattanto degli aiuti di Bruxelles, essenziali per le loro fragili economie. Dal 2004 otto di loro entrarono cos� a far parte dell'Unione europea e lo stesso avvenne per alcuni paesi scandinavi. A ogni modo, era rimasta pur sempre la Francia al centro dello scenario politico europeo: da un lato, facendo blocco con la Gran Bretagna nei confronti di una crescita di statura e di peso della Germania; dall'altro, lasciando alla Bundesbank la gestazione dell'euro in base a criteri tali che attutissero i forti rimpianti dei tedeschi per la rinuncia al loro tanto amato marco e rendessero perci� la governante dell'Unione economica e monetaria strettamente allineata alle normative del trattato di Maastricht, alla cui elaborazione la Germania aveva concorso in modo determinante. D'altronde, che per Parigi contasse soprattutto la politica venne confermato dal fatto che si assicur�, con Val�ry Giscard d'Estaing, la presidenza della Convenzione incaricata nel 2003 di elaborare il progetto di una Carta costituzionale dell'Unione europea. Una Carta che avesse per suoi cardini determinati principi politici e valori civili rispondenti alle matrici culturali del Vecchio continente e alle esigenze del proprio tempo. Senonch�, quando ci si aspettava che la Ue compisse in tal modo un passo ulteriore all'insegna di un comune sentire e di una feconda cooperazione fra le sue diverse componenti, si assistette invece non solo a una battuta d'arresto, ma a una vera e propria retromarcia. La maggioranza dei cittadini francesi e olandesi bocciarono infatti nel 2005, in seguito a due referendum popolari, il progetto costituzionale varato dalla Convenzione. E ci� non tanto perch� il testo uscito da quell'assise fosse "un prodotto freddo", privo di una forte tensione ideale, bens� per il timore, da parte della maggioranza dell'elettorato francese e olandese, che quel tanto di apertura del progetto verso un'architettura politico-istituzionale non pi� imperniata unicamente su un sistema intergovernativo, finisse per restringere la sfera della sovranit� nazionale. In pratica, questo responso aveva portato anche alla cancellazione dell'ipotesi di un'Europa "a due velocit�", in cui un "nocciolo duro" di paesi agisse, attraverso un sistema di "cooperazioni rafforzate", da pilota e apripista sulla via di una maggiore integrazione sul piano politico, in attesa che altri partner fossero pronti a intraprendere lo stesso itinerario. Si era cos� esaurita la stagione pi� pregnante della Ue, in cui all'aggregazione sotto la sua egida di altri Stati e di nuovi attori facesse da pendant la progettazione di un ordinamento istituzionale basato su una struttura comunitaria e coerente per la governance di un insieme di popoli e nazioni. Il fatto che fosse cos� rimasto in vita il diritto di veto di ciascun partner, in merito alle principali questioni in agenda, aveva escluso l'adozione di una strategia univoca in materia sia di giustizia e difesa sia di politica fiscale e sociale. E ci� proprio quando la formazione su scala mondiale di un universo politico multipolare e di un mercato globale avrebbe richiesto l'avvento di una compagine europea pi� salda e coesa sotto ogni profilo. Inoltre si era dovuta constatare la mancanza, malgrado la diffusione di un'ondata di forti apprensioni dopo l'attentato terroristico dell'11 settembre 2001 alle Torri Gemelle ordito da Al Qaeda, di qualsiasi genere di coordinamento dei servizi di sicurezza e intelligence in sede europea. Intanto, per cercare di controbilanciare l'attrattiva esercitata da Berlino nei riguardi dei paesi dell'Europa centro-orientale, Parigi aveva patrocinato l'inclusione nella Ue non solo di Malta ma pure di Cipro, nonostante l'isola fosse rimasta divisa in due spezzoni (uno a maggioranza greca e l'altro di matrice turca). Ma questa sorta di revanche della Francia, attraverso una "compensazione mediterranea", all'ampliamento a Est dell'area d'influenza di Berlino, non era valsa a pareggiare i conti nella sua competizione a distanza con la Germania. Il governo rosso-verde del socialdemocratico Gerhard Schr�der aveva infatti provveduto, mediante adeguate riforme sul fronte dei conti pubblici e su quello del mercato del lavoro, a riscattare la Germania dal suo lungo status di "malata d'Europa", dovuto al notevole dispendio di risorse profuso per integrare i territori della ex Ddr nell'ambito della Repubblica federale. E dal 2005, con l'avvento di Angela Merkel (leader del partito cristiano-democratico) alla guida di un esecutivo di coalizione, l'economia tedesca si era avvalsa dei risultati conseguiti in precedenza e dei provvedimenti del nuovo governo per accelerare il passo rispetto a quella francese e degli altri paesi della Ue. Perci� la Germania si trovava in migliori condizioni di salute quando esplose nell'autunno del 2007 la crisi dei "subprime" sul mercato americano, sfociata l'anno dopo nel crollo a Wall Street delle principali banche d'affari, coinvolte in una ridda di operazioni speculative, e in una spirale recessiva propagatasi in Europa. Oltretutto la Bundesbank aveva provveduto a suo tempo a forgiare l'euro in rapporto al marco, e quindi a stabilire il tasso di cambio delle altre monete, al momento della sua entrata in circolazione nel gennaio 2002. Ed era stato soprattutto il governo tedesco a perseguire successivamente un indirizzo economico di rigida austerit� nei confronti dei paesi gravati da un consistente debito pubblico, che erano principalmente quelli del Sud Europa. I contraccolpi della Grande crisi s'erano perci� abbattuti sui paesi della Ue con un impatto differente, a seconda delle loro specifiche condizioni finanziarie e strutturali. Di conseguenza, erano aumentate certe disparit� di fondo sia economiche che sociali preesistenti alla creazione dell'unione monetaria. D'altronde, la Francia e la Germania avevano badato ad avvalersi del fondo "Salva Stati" per colmare parte delle perdite subite da alcune loro banche a causa di una serie di azzardate speculazioni finanziarie sia in Grecia che in Spagna e Portogallo. S'erano andati comunque modificando i rapporti di forza all'interno dell'asse franco-tedesco, per effetto della maggiore capacit� della Germania di reggere l'urto della recessione rispetto alla Francia. Del resto, mentre la Germania dapprima aveva assecondato la logica dell'integrazione comunitaria, tendendo perci� a ricomporre per quanto possibile le divergenze fra i diversi interessi nazionali, la Cancelliera smise dall'ottobre 2008 di attenersi a questa impostazione e opt� per una decisa rinazionalizzazione delle politiche economiche nel quadro dell'Eurozona. Di qui, unitamente al rifiuto di contribuire alla creazione di un fondo anticrisi, la richiesta di Berlino, divenuta da allora sempre pi� perentoria, ai governi dei paesi pi� indebitati di "fare i compiti in casa" in base alle procedure del Patto di stabilit� largamente ispirate a suo tempo dai ministri finanziari tedeschi. Dietro questa visione delle cose, che port� la Germania ad assumere un ruolo primario nel governo dell'Unione economica e monetaria, stavano diversi fattori tanto di ordine politico che congiunturale. Innanzitutto, l'opinione pubblica tedesca non era pi� afflitta da quel senso di colpa per il passato nazista che aveva indotto le precedenti generazioni ad accettare, "pro bono pacis", la leadership della Francia. In secondo luogo, il governo di Berlino temeva che certe soluzioni pi� morbide sul piano fiscale e monetario, nei riguardi dei paesi con i conti pubblici in difetto, finissero per riversarsi a scapito dei contribuenti tedeschi. La Merkel intendeva perci� relegare da un canto qualsiasi genere di condivisione dei rischi e stringere i freni: tanto pi� in vista delle elezioni politiche federali in agenda nel 2009. D'altra parte, dopo che Romano Prodi (quale presidente dal 1999 al 2004 della Commissione europea) aveva cercato di imprimere un maggior impulso e pi� incisivit� all'azione dell'esecutivo di Bruxelles, il suo successore, il portoghese Manuel Barroso, aveva badato a gestire le cose in funzione, per lo pi�, dell'ordinaria amministrazione e all'insegna della dottrina neoliberista, lasciando in pratica a Berlino il compito di dettare le direttrici di marcia della Ue, alle prese con una crisi economica rivelatasi man mano estremamente grave se non peggiore di quella degli anni Trenta. Fu cos� che la Germania, pur essendo priva di un effettivo potere tanto politico che militare rispetto alla Francia e alla Gran Bretagna, giunse ad acquisire, in virt� delle sue prerogative economiche e finanziarie, un ruolo di grande potenza europea. Senza tuttavia che questo suo balzo al vertice della Ue dovesse portarla all'esercizio anche di una leadership politica, con l'assunzione delle relative responsabilit�, all'insegna d'una visione d'insieme delle esigenze e delle prospettive di tutti i paesi appartenenti alla Comunit� europea. Senonch�, stando al convincimento della Merkel, l'interesse nazionale della Germania, in quanto ispirato alla stabilit� dell'euro e quindi a un obiettivo ineccepibile, coincideva tout court con l'interesse europeo. Perci� era assolutamente giustificato, a detta del governo tedesco, l'interesse marcatamente rigorista e unilaterale che Berlino avrebbe continuato a perseguire, indipendentemente dall'adozione di appropriate misure per la crescita dell'economia (come quelle consistenti nella possibilit� di sottrarre dal calcolo dei disavanzi pubblic gli investimenti in ricerca e infrastrutture). Di fatto, il punto debole della politica ortodossa di austerit� sostenuta energicamente da Berlino stava nella carenza di adeguati incentivi per rimettere in corsa la produzione e il settore terziario, al fine di riassorbire la disoccupazione e ridare fiato alla domanda. Ben diversamente erano andate le cose dall'altra parte dell'Atlantico. Durante la presidenza del leader democratico Barack Obama il governo federale aveva infatti provveduto a fornire alle principali banche e ad alcune imprese, sull'orlo del fallimento, i mezzi finanziari per rimettersi in sesto e rimborsare cos�, una volta riportatesi in carreggiata, quanto avevano ricevuto in prestito tramite gli interventi pubblici. Non essendosi manifestato in Europa (tranne in Gran Bretagna) lo stesso genere di soccorsi da parte dello Stato, i paesi dell'Eurozona erano rimasti ingabbiati nelle maglie del Fiscal Compact. E ci� non aveva consentito uno sblocco degli investimenti a sostegno della ripresa economica e dell'occupazione. Pertanto, salvo che in Germania e in qualche altro paese nordico, finanziariamente "virtuosi", si sarebbe seguitato a vivere in un'atmosfera di permanente instabilit�. Nel frattempo la Francia aveva visto ridursi, in seguito alla recessione e alle remore della sua classe dirigente ad apportare alcune serie riforme al proprio modello economico e sociale, il suo ruolo politico a cospetto del passo di carica della Germania e della formazione nell'Europa dell'Est di una sorta di "Commonwealth tedesco". Era infatti andato crescendo il numero di succursali create da imprese industriali e commerciali tedesche nei paesi centro-orientali. Di conseguenza, era divenuta sempre pi� evidente l'impronta germanocentrica rispetto all'originaria "balance of power" sotto l'egida francese, che era valsa a rassicurare anche la Gran Bretagna nel quadro geopolitico europeo, di fronte alla reviviscenza, da parte di Berlino, di un tradizionale "Lebensraum", di una spinta espansiva a Est perseguita adesso in forma pacifica e democratica. L'acquisizione da parte di Berlino di un ruolo preminente non aveva tuttavia indotto la Cancelliera e i suoi connazionali a rendersi conto che non avrebbero potuto gestire l'Eurozona in base unicamente a determinate prescrizioni pi� congeniali sia ai loro specifici modi di vedere sia alle loro convenienze politiche. Poich� l'Unione economica e monetaria aveva creato una rete di connessioni e interdipendenze fra i paesi che ne facevano parte, e ci� comportava una gestione sagace ed equilibrata, attenta pertanto a ricercare e stabilire punti di raccordo in spirito di reciproca comprensione e solidariet�. Tutto il contrario, quindi, di un interesse imposto in nome di assunti categorici e di una missione pedagogica autoreferenziale. La Merkel e la Bundesbank avevano infatti seguitato, con altrettanta caparbiet� che sicumera, a impartire lezioni e bacchettate a destra e a manca, badando peraltro a mantenere una parte consistente del sistema bancario tedesco (quello regionale e municipale) fuori dalle normative della Uem. Ma non � che il presidente francese Nicolas Sarkozy avesse proposto una concreta linea di condotta alternativa a quella tedesca. S'era invece allineato in sostanza agli orientamenti della Cancelliera, pur di dare l'impressione che nulla fosse cambiato nell'ambito del vecchio direttorio "carolingio". In tal modo Bruxelles aveva finito per gestire con altrettanta ruvidezza che insipienza la "questione greca", emersa in pieno nel 2010, allorch� il governo del socialista George Papandreou aveva dovuto infine ammettere, con un paese ormai sull'orlo della bancarotta, che da anni i bilanci pubblici erano invariabilmente truccati. Sarebbero bastati infatti pochi miliardi di euro per una sanatoria di Atene invece di imporre alla Grecia, attraverso uno stillicidio di norme e procedure burocratiche e umilianti, una somma di pesanti sacrifici al di l� delle sue effettive possibilit� e perci� tali da risultare inefficaci quanto impopolari. Fu comunque la situazione d'emergenza manifestatasi nell'autunno del 2011 in Italia a rendere quanto mai evidente l'inadeguatezza di una politica economica unilaterale, improntata ai canoni di un'ortodossia contabile, senza tangibili impulsi alla crescita. A tal fine avrebbe potuto servire l'emissione di eurobond proposta da Prodi, per raccogliere sui mercati liquidit� da destinare alla ripresa degli investimenti. Ma Berlino aveva continuato ad arroccarsi su un conservatorismo rigorista. Di fatto, se l'Italia si trov� alla lunga a scontare le conseguenze di un debito pubblico elevato e tendente a salire ulteriormente, nonch� del ritardo accumulatosi nell'attuazione di appropriate riforme strutturali (nella pubblica amministrazione, nel sistema previdenziale e nella sanit�), dall'altro non s'era potuta avvalere di certi margini di flessibilit� rispetto ai parametri del Fiscal Compact per realizzare maggiori investimenti a sostegno della ricerca, dell'innovazione e di infrastrutture materiali e immateriali. Tanto la Germania che la Francia, che pur avevano usufruito fra il 2003 e il 2005 di concrete agevolazioni in tal senso, avevano infatti opposto un atteggiamento di netta chiusura: non senza una punta di ostentata rivalsa nei confronti della "irriverenza guascona" mostrata fino ad allora da Silvio Berlusconi verso le direttive germanocentriche. A met� novembre (anche per via dello sfaldamento della sua iniziale maggioranza parlamentare) era cos� capitolato il governo presieduto dal leader del "Popolo delle libert�", al quale era subentrato un "governo tecnico", con a capo Mario Monti, a cui era toccato l'arduo compito, dati i disastrati conti dello Stato e la scure imposta da Bruxelles, di procedere a un giro di vite in tema di pensioni e di Welfare. A ogni modo, che la "camicia di forza" dell'austerity fosse sempre pi� insostenibile e controproducente ai fini della stessa sorte di Eurolandia, era quanto Mario Draghi (subentrato all'inizio del 2012 a Jean Claude Trichet alla guida della Banca centrale europea) aveva tenuto fin da subito a rilevare annunciando che la Bce sarebbe intervenuta, in caso di necessit�, a stendere una rete di protezione a sostegno dei paesi pi� indebitati e in sofferenza, attraverso una manovra di espansione monetaria. Contro questa prospettiva s'era pronunciato il governatore della Bundesbank Jens Weidemann, ma il direttivo della Bce aveva finito per avallarla. In pratica, si tratt� di una sortita indispensabile per frenare l'impennata dei tassi passivi che stava affliggendo soprattutto i paesi dell'area mediterranea, sempre pi� in affanno per la copertura delle loro emissioni necessarie al rifinanziamento del debito pubblico. Intanto la crisi economica in corso ormai da cinque anni e il concomitante drenaggio di risorse dalla sfera dell'"economia reale", per il salvataggio di banche, assicurazioni e fondi di investimento, usciti con le ossa rotte da operazioni speculative, avevano determinato una riduzione dei redditi, dei risparmi e dei livelli occupazionali. Di conseguenza, aveva sub�to un duro colpo la convinzione, accreditata sino a poco tempo addietro da Bruxelles, secondo cui l'Europa comunitaria, e in particolare quella dell'euro, avrebbe assicurato pi� sviluppo, pi� posti di lavoro e pi� benessere, grazie ai benefici di una sola moneta e di un mercato unico nel quadro d'insieme della globalizzazione. E se inizialmente era stata soprattutto la classe operaia a risentire sia dei mutamenti determinati nel mercato del lavoro dalla quarta rivoluzione tecnologica, quella dell'informatica e del digitale, sia dell'agguerrita concorrenza dei paesi emergenti, in prosieguo di tempo anche il ceto medio aveva cominciato ad avvertire i contraccolpi di una persistente fase recessiva. Si era cos� andato diffondendo un clima di insicurezza sul futuro, per via dell'arresto di quel processo di mobilit� sociale in atto negli anni precedenti. E quest'ondata di incertezze e disagi stava investendo uno strato della popolazione, come la piccola e media borghesia, che costituiva l'architrave del sistema politico e della causa europeista. Di fronte a questo mutamento di scenario e di prospettiva le �lites politiche avevano continuato a procedere in base a riferimenti e paradigmi del passato, senza elaborare nuove idee e visuali, finendo perci� col delegare alla tecnocrazia di Bruxelles il compito di gestire il funzionamento delle istituzioni comunitarie e trasferendo quindi nelle loro mani poteri sempre pi� ampi di decisione e regolazione in vari campi, quando invece stava soprattutto alla classe dirigente mettere a punto, attraverso le opzioni e gli strumenti della politica, misure concrete per la soluzione di determinati problemi di comune interesse, in sintonia con i principi della democrazia e le esigenze dei cittadini, e alla luce di nuove sfide economiche e sociali sempre pi� complesse. In questo contesto si � manifestata un'ondata d'insofferenza nei confronti delle istituzioni comunitarie, sfociata nell'avanzata o nella comparsa ex novo di movimenti e partiti nazional-populisti. Si � trattato di una svolta radicale rispetto al passato. Se l'interesse nazionale non era stato infatti mai avulso dagli orizzonti dei singoli paesi membri dell'Unione europea, tuttavia era stato declinato nell'ambito di un sistema e di una prassi collegiale di bilanciamento e arbitraggio: almeno finch� la Germania non aveva cominciato ad agire, in seguito alla sua performance economica, come se i suoi specifici interessi coincidessero con quelli generali della Comunit�. A dare comunque una spinta determinante a un moto politico che coniugava il recupero e l'enfatizzazione di proprie identit� e tradizioni con il rifiuto del "diverso", erano state le reazioni suscitate dall'arrivo in Europa di sempre pi� folti nuclei di immigrati extracomunitari. Il timore che il crescente afflusso di migranti, soprattutto di quelli islamici, costituisse una minaccia per il proprio stile di vita e la sicurezza delle persone, nonch� per l'ordine pubblico, stava provocando una marea di ripulse e di contestazioni. Peraltro le paure e i rigurgiti di xenofobia non sarebbero bastati da soli a dare le ali ai partiti populisti se non avessero concorso alla crescita del loro seguito e della loro udienza anche certe veementi denunce nei riguardi delle istituzioni europee, accusate di essere espressione dei "poteri forti" identificati nei santuari della finanza globale e nell'establishment tecnocratico di Bruxelles. Cavalcando idiosincrasie xenofobe e contestazioni "antisistema", i movimenti populisti avevano cos� fatto irruzione sulla scena da posizioni di estrema destra, non senza peraltro contagiare anche parte dell'elettorato dei principali partiti e alcune frange della classe operaia. Sia perch� le forze di governo tradizionali (cristiano-democratiche, liberali e socialdemocratiche) non erano giunte ad attuare una politica adeguata e omogenea in fatto di accoglienza e gestione nei riguardi tanto dei profughi per ragioni politiche, e aventi perci� diritto d'asilo (provenendo dalle "aree calde" del Medio Oriente, nonch� di altri teatri di guerra e di conflitti intestini), che di una massa di migranti sospinti da moventi economici, per sfuggire a condizioni di estrema indigenza. Inoltre i vertici della Ue seguitavano a mostrarsi incapaci di venire a capo dei problemi di fondo che affliggevano il sistema economico e sociale, a causa dei vincoli paralizzanti imposti da una persistente politica di austerit�. Si spiega pertanto come entrambe queste circostanze assecondassero le fortune del Front National francese di Marine Le Pen, da tempo alla ricerca di una "rispettabilit� patriottica" che la allontanasse dalle sue radici neofasciste e la rendesse interprete di un risorgente "�sprit r�publicain". Nel contempo altri partiti, volti a esaltare la ragion di Stato e a strumentalizzare le pulsioni xenofobe, avevano guadagnato crescenti consensi: a cominciare dal Partito della libert� in Olanda che, sotto la guida di Geert Wilders (che coniugava accese polemiche antislamiche a posizioni libertarie in fatto di diritti civili), e dal Fp� di J�rg Heider in Austria (che, insieme alla richiesta di totale chiusura delle frontiere agli immigrati, riproponeva la "questione tirolese"). Ma movimenti e partiti di analoghe radici politiche di ultradestra stavano affermandosi dalla Danimarca all'Irlanda, e soprattutto in Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca, situate lungo la rotta balcanica, la pi� battuta dai migranti in fuga dalla Siria, dall'Iraq e dal Corno d'Africa, nonch� dall'Afghanistan e da altri paesi del Sud-est asiatico. Nel 2012 lo studioso americano Robert D. Kaplan, in un'opera destinata a divenire un classico nel suo genere, The Revenge of Geography ("La vendetta della geografia"), aveva sottolineato come stessero riaffiorando determinati fenomeni storici "sospesi in un passato remoto", aventi a che vedere con certi specifici tratti identitari delle diverse aree geopolitiche dell'Europa e con i loro retaggi mai dissoltisi del tutto. D'altronde non erano mancati nel frattempo vari saggi storici e sociologici che avevano messo in rilievo come l'avanzata di una destra populista fosse sospinta dall'esaltazione di una certa idea e immagine di una determinata fase "gratificante" della propria storia nazionale, oltre che dalla strumentalizzazione del malcontento della gente per gli effetti deleteri di una prolungata recessione economica. Questo genere di rivisitazione e riscrittura di un lontano passato, insieme alla riappropriazione di determinate tradizioni etniche e culturali, aveva trovato particolare udienza e riscontro soprattutto nei paesi dell'Est europeo, affrancatisi da lunghi decenni di asservimento all'Unione Sovietica. E aveva riportato in auge una stretta simbiosi ideologica fra sentimento nazionale e fede religiosa. Nel contempo l'escalation del terrorismo islamista, accrescendo apprensioni e insicurezze tra la gente, era divenuta un ulteriore fattore di restringimento di visuali e prospettive nel chiuso delle proprie mura domestiche: tanto pi� in considerazione del fatto che, dopo gli attentati avvenuti fra il 2004 e il 2005 a Londra e a Madrid, si era considerata fino ad allora l'Europa un'area estranea alle trame degli jihadisti. La strategia dei terroristi aveva invece assunto nel frattempo dimensioni globali e il Vecchio continente era divenuto uno dei suoi principali bersagli dopo che, accanto ad Al Qaeda (decapitata del suo leader Bin Laden, ucciso nel maggio 2011 in uno dei suoi covi pakistani da un commando americano), era emerso in alcune zone centrali della Siria e dell'Iraq, un nuovo nucleo di jihadisti, con una crescente influenza e forza d'urto, come l'Isis, capitanato da Abu Bakr Al Baghdadi, che si proponeva di restaurare il Califfato nelle terre dell'ex impero ottomano e di estendere la "guerra santa" nei confronti di quelli che definiva "nuovi crociati", sin nel cuore dell'Europa. Con l'Isis (o il Daesh, cos� denominato nei paesi arabi) il terrorismo islamico di marca fondamentalista era divenuto un fenomeno religioso e politico di carattere totalizzante, sia per il suo credo integralista che per il suo antagonismo apodittico, in quanto il suo obiettivo conclamato era la distruzione/soggezione dell'Occidente cristiano nonch� l'assoggettamento di tutti i paesi musulmani caratterizzati da un'interpretazione dell'Islam diversa da quella sunnita e salafita. E ci� al di l� di ogni altra motivazione, sia politica che economica e sociale. In particolare, per le societ� occidentali sempre pi� secolarizzate, in cui il rapporto con la religione e la trascendenza costituiva un fatto personale, era stato perci� tanto pi� difficile capire, fin da subito, quali fossero le matrici e le finalit� precipue del fondamentalismo estremista islamico. E valutare quindi sino in fondo quale pericolo micidiale rappresentasse una centrale ideologica e operativa come l'Isis, che si proponeva di conquistare la maggioranza dei musulmani ai propri dettami e di avvalersi di ogni mezzo (dall'azione armata alla comunicazione mediatica, alla predicazione di alcuni imam nelle moschee) per sfiancare l'Occidente e raggiungere i suoi obiettivi. (Continua) Nella Francia di P�tain (di Roberto Festorazzi, "Focus Storia" n. 122/16) - Dal 1940 al 1944 nella Francia centro-meridionale nascque lo Stato di Vichy: un regime collaborazionista controllato dai nazisti. - Il 22 giugno 1940, a poco pi� di un mese dall'invasione tedesca, la Francia firm� un armistizio che prevedeva la divisione della nazione in due entit� distinte. La prima, corrispondente alla zona centro-settentrionale del Paese, compresa Parigi, era sottoposta all'occupazione diretta dei tedeschi; l'altra invece, pi� a sud, fu definita "libera". Fu proprio nel settore meridionale che prese vita lo Stato collaborazionista di Vichy, un'esperienza storica che divide ancora oggi i francesi perch� rievoca, come un oscuro senso di colpa collettivo, la pagina grigia della coabitazione con i nazisti. Nel luglio del 1940 la Terza Repubblica francese si suicid�. Le istituzioni, tra cui il libero parlamento, si autoaffondarono sotto il peso della sconfitta, oltre che militare, morale. E da quella disfatta nacque lo Stato di Vichy, che non fu mai di forma repubblicana, perch�, appunto, la vera repubblica era morta sotto i carri armati e le truppe di Hitler. Vichy era una rinomata cittadina termale nel cuore della Francia. Qui i ricchi andavano a curarsi il fegato. Fu scelta anche perch� disponeva di una quantit� di alberghi di lusso, i quali, una volta requisiti, ospitarono gli apparati dello Stato. Le anticamere, i corridoi e i sontuosi bagni terapeutici, frequentati fino ad allora da facoltosi clienti, vennero cos� invasi da armadi e schedari in grigio stile "ministeriale". All'Hotel du Parc venne fissata la sede di rappresentanza del capo del governo collaborazionista: il vecchio maresciallo Philippe P�tain, eroe della Prima guerra mondiale, una gloria militare che godeva di enorme prestigio nazionale. Questi diverr� poi capo dello Stato. P�tain divenne l'immagine vivente di Vichy, ma il "motore" del regime collaborazionista fu invece un navigato esponente della defunta classe politica francese: Pierre Laval, uomo allenato a tutti gli intrighi di palazzo. Sebbene Laval, per un certo periodo, fosse caduto in disgrazia, sia presso i tedeschi, sia presso P�tain (che lo rimosse per poi ripescarlo un anno e mezzo dopo), � fuori discussione che fu lui a rappresentare la continuit� amministrativa dell'esperienza di Vichy: con le sue poche luci e le molte ombre. Il governo collaborazionista nacque sotto la spinta di una necessit�: preservare uno scampolo di sovranit� e di orgoglio patrio, in una nazione che era stata vinta sul campo e umiliata da Hitler. Laval, in questo senso, incarn� l'anima pi� duttile e politica del regime, quella disposta a scendere a compromessi con i tedeschi, pur di strappare loro qualche concessione, a vantaggio della popolazione. Una giustificazione che il capo del governo di Vichy us� successivamente, durante il processo che lo vide alla sbarra, quando tent� di difendere il proprio operato, cercando di persuadere chi lo giudicava di aver fatto il possibile per adottare provvedimenti assai pi� blandi di quelli che avrebbero potuto imporre i tedeschi, qualora avessero comandato direttamente. Nonostante la buona volont� di Laval, non si evitarono certo le deportazioni in massa degli ebrei, anche nella zona "libera", e l'invio di contingenti di lavoratori coatti in Germania, per sostenere l'economia del Reich. A Parigi, e nella zona sottoposta alla diretta occupazione nazista, le cose andarono ancora peggio, e resta tristemente noto il caso del concentramento di 13.152 ebrei attuato dalla polizia, il 16 luglio 1942, al V�lodrome d'Hiver della Capitale. Alla fine, furono deportati dalla Francia almeno 75.721 ebrei, in gran parte cittadini stranieri che vi avevano cercato rifugio. Malgrado gli sforzi compiuti dallo Stato di Vichy per salvaguardare, almeno, i cittadini francesi di religione giudaica, 24-mila di essi condivisero la sorte della deportazione. E di questi soltanto 2.564 riuscirono a tornare. Se si valutano i differenti gradi di responsabilit�, all'interno della classe dirigente del regime di P�tain non vi furono soltanto i "collaborazionisti per necessit�". Ci furono anche quelli che, invece, spinsero l'acceleratore dell'allineamento ai nazisti fino al punto da sposarne in pieno l'ideologia. Era, questo, il caso di uomini politici come Marcel D�at, o Jacques Doriot, che auspicavano la trasformazione della Francia in un Paese satellite della Germania, alleato di ferro del Reich. Ben presto tuttavia il regime di Vichy venne scosso dagli eventi che si verificarono nell'Africa del Nord, sintomi del capovolgimento delle sorti del secondo conflitto mondiale. Nella notte tra il 7 e l'8 novembre 1942, gli Alleati sbarcarono in Marocco e in Algeria, due possedimenti francesi. Per reazione, i tedeschi occuparono anche la zona libera della Francia, sottoposta alla giurisdizione di Vichy. Il 17 novembre, l'ammiraglio Fran�ois Darlan mise le risorse francesi in Nord Africa a disposizione degli angloamericani dopo che le forze p�tainiste del generale Barr� avevano combattuto contro i rinforzi germanici appena giunti in Tunisia. Hitler ordin� di sciogliere l'esercito dell'armistizio. Tra Vichy e il Reich si giunse cos� a un passo dalla rottura. Il 27 novembre i tedeschi cercarono di impadronirsi di ci� che restava della flotta francese, ma la risposta fu l'autoaffondamento delle unit� da guerra nel porto di Tolone. Fu, questo, l'atto pi� temerario con il quale il regime di P�tain tent� di preservare la propria autonomia politica. Vichy costitu�, per molti versi, anche il tentativo di introdurre in Francia stili di governo a imitazione del fascismo. In questo senso, la pur breve esperienza di Vichy lasci� tracce evidenti nel cosiddetto programma di "rivoluzione nazionale", che prevedeva il ritorno alla tradizione e l'instaurazione di modelli corporativi. La Francia collaborazionista rappresent� dunque la rivincita delle tendenze pi� conservatrici della societ� francese, che vedevano nel calo demografico e nella rilassatezza dei costumi i sintomi di una crisi considerata come una malattia morale. Questi ultraconservatori, che biasimavano i divertimenti e la vita notturna, il jazz, l'alcol e le gonne corte, ispirarono politiche di rilancio della vita rurale e una seria campagna per combattere la piaga dell'alcolismo. I privilegi e le esenzioni fiscali concessi ai distillatori vennero soppressi. Il 24 agosto 1940, gli aperitivi a base di superalcolici furono proibiti. Il regime, inoltre, pur non rinunciando completamente alla laicit� dello Stato, ripristin� l'insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole pubbliche. Il potere sociale della Chiesa, in generale, aument�, anche perch� il governo faceva rientrare il cristianesimo nella lista dei valori tradizionali da restaurare, che si riassumevano nella triade Dio-Patria-Famiglia. Le gerarchie cattoliche furono in prima linea nel sostenere P�tain, e ci�, nel Dopoguerra, fu all'origine del braccio di ferro che oppose il pur devoto generale De Gaulle al Vaticano, per via della richiesta del governo francese di rimuovere dal loro incarico i vescovi filo-collaborazionisti. � difficile esprimere un giudizio storico netto su Vichy. All'interno di quell'esperienza vi furono uomini, come Laval, che in buona fede intesero la collaborazione come il male minore; ma ve ne furono invece altri che diedero libero sfogo alle pulsioni pi� aberranti del potere. Il settimanale antisemita Je suis partout, per esempio, pubblicava in ogni numero una rubrica nella quale si indicavano l'identit� e i nascondigli di coloro che cercavano di mettersi in salvo. Vi si denunciavano medici ebrei che osavano ancora esercitare, giornalisti che scrivevano sotto falso nome, famiglie che si erano trasferite in piccoli centri nella speranza di passare inosservate, evitando l'arresto. � in quella Francia oscura - per quattro anni diventata la culla della delazione - che ancora oggi si agita il senso di colpa per i crimini commessi sotto il regime di Vichy.