Gennaio 2019 n. 1 Anno IV Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri per un importo pari ad euro 23.084,48 e del MiBACT per un importo pari ad euro 4.522.099. Indice Si fa presto a dire Welfare Come cambia la famiglia Il perfezionista Si fa presto a dire Welfare (di Gustavo De Santis, "il Mulino" n. 5/18) Quello di Welfare � un concetto nato in Gran Bretagna in piena Seconda guerra mondiale, sull'onda di ben due Rapporti di commissioni parlamentari presiedute da William Beveridge (che sarebbe diventato sir poco dopo, nel 1945). Lo scopo era, per l'immediato, "fidelizzare" la popolazione inglese alla democrazia e consolarla delle durezze della guerra (il Warfare); nel pi� lungo periodo, costruire uno Stato sociale che si prendesse cura del benessere dei cittadini, li rendesse pi� felici ed evitasse quindi, dopo la conclusione del conflitto, lo scoppio di una terza guerra mondiale: chi � sereno che motivo ha di andare in guerra? Tentativo nobile e sostanzialmente riuscito fino a oggi, ma che si basava su un presupposto troppo spesso dimenticato e che vale la pena riprendere direttamente dalle parole del Rapporto del 1942: "Il piano di sicurezza sociale � diretto ad assicurare che ogni individuo, a condizione che lavori fin tanto che pu�, e che versi contributi detraendoli dai suoi guadagni, abbia un reddito sufficiente per assicurare a s� ed alla propria famiglia una sana sussistenza, un reddito che lo sollevi dal bisogno al momento in cui per qualsivoglia ragione egli non possa lavorare e guadagnare. Oltre al reddito di sussistenza, la relazione propone sussidi per l'infanzia in modo da assicurare che nessun bambino debba mai trovarsi in condizione di bisogno, e ogni specie di assistenza sanitaria per tutte le persone in caso di malattia, senza alcun pagamento all'atto della prestazione dell'assistenza stessa cos� da evitare che alcuno debba soffrire perch� non ha i mezzi necessari per pagare il medico o l'ospedale" [corsivo mio]. L'ambizioso progetto si � rapidamente esteso dalla Gran Bretagna agli altri Paesi sviluppati, Italia compresa, ma comincia adesso a mostrare crepe profonde. I motivi principali della crisi sono, a mio avviso, cinque, collegati tra loro. Costi. I costi del Welfare sono elevatissimi. In Italia, ad esempio, la spesa sociale, trascurabile fino alla Seconda guerra mondiale (appunto), aveva gi� raggiunto il 17% del Pil nel 1990, ed � oggi (2016) quasi al 30%, leggermente superiore a quella del resto dell'Europa, pari al 28,6% (Eu27, con dati tratti dal database di Eurostat, salvo diversa indicazione). Chi paga? I cittadini, con le tasse, la cui incidenza sul Pil � da noi arrivata al 43%, e al 40% in Europa: un livello unanimemente considerato troppo alto. Eppure tutti i governi, nell'intento di alleggerire la pressione fiscale (e scaricarla sulle future generazioni, che tanto non votano e non possono protestare), hanno accumulato debiti, e l'Italia, tanto per non smentirsi, con il suo debito al 130% del Pil, ha nettamente superato la non invidiabile media europea (80%), che, a sua volta, � superiore agli obiettivi a suo tempo concordati (non oltre il 60%). Si pu� notare, en passant, che un debito al 130% del Pil, con interessi al 3% circa, si mangia ogni anno, solo di interessi, il 4% circa dello stesso Pil. Insomma, abbiamo un deficit corrente del 2,3% circa, a proposito del quale si litiga con Bruxelles perch� non ci permette di sfondare il muro del 3%, ce la prendiamo con banchieri e speculatori quando cresce lo spread (cio� quando qualcuno mette in dubbio la nostra capacit� di ripagare i debiti), ma proprio a questi banchieri e speculatori, ogni anno, regaliamo tranquillamente il 4% del nostro Pil. E questo in un contesto di crescita economica molto vicina allo zero, anche per effetto della decrescita demoarafica. Se questi fossero i conti di casa nostra, nel senso di famiglia, rabbrividiremmo e non ci dormiremmo la notte. Ma poich� sono i conti di casa nostra, per� nel senso di Paese, che ce ne importa? Qualcuno pagher�, e le elezioni, tanto, le vince chi promette di pi�: flat tax, via la Fornero, reddito di cittadinanza, abbattimento del cuneo fiscale ecc.. Aspettative e assuefazione. La seconda ragione per cui il Welfare � in crisi � che le aspettative aumentano con i servizi offerti, e ormai tutti (a cominciare da me, beninteso) diamo per scontato che ospedali e pensioni siano l� ad aspettarci, che la scuola sia gratuita e sotto casa, che l'alloggio sia un diritto. Conseguire questi obiettivi era un sogno, il coronamento di una fortunata vita di lavoro per la generazione dei nostri nonni, ma � una cosa che oggi quasi non notiamo pi� (e, secondo alcuni pessimisti, la cui mancanza dolorosamente sentiremo domani). Questa assuefazione � uno degli elementi che spiega il paradosso della felicit� di Easterlin. I soldi rendono felici? Non di per s�, perch� i soldi non si possono mangiare. Tuttavia, se puoi comprarci beni e servizi (oppure se questi servizi li ricevi dallo Stato, che � ricco e pu� permetterselo), beh, allora s�, dovrebbero renderti felice. Ma la verifica empirica di questa aspettativa � spesso assai contraddittoria e deludente. I (contestabilissimi) tentativi di misurare in modo comparabile la soddisfazione verso la vita (in generale, o verso aspetti specifici) rivelano una scarsa correlazione con indicatori oggettivi, quali ad esempio il reddito pro capite o la durata della vita, soprattutto su scala internazionale. L'Italia � comunque, anche su questo fronte, sistematicamente al di sotto della media europea: ad esempio, su una scala da 0 a 10, in termini di soddisfazione verso la vita (in generale), nel 2013, ultimo anno disponibile, noi eravamo a 6,7 e l'Europa a 7; in termini di soddisfazione per la situazione economica, noi a 5,7 e l'Europa a 6. Moral hazard. Il terzo motivo per cui il Welfare State � in crisi � genericamente legato al moral hazard. Ricordate le parole di Beveridge evidenziate all'inizio? L'idea di allora era che ogni cittadino avrebbe fatto il massimo per non dipendere dallo Stato, e anzi aiutare gli altri, con la rassicurazione che, in caso di fallimento, lo Stato (sociale) sarebbe intervenuto. Ma chi ci garantisce che ognuno di noi dia il massimo e non cerchi invece di sfruttare la situazione a vantaggio proprio (e a danno altrui)? Ad esempio, che cerchi lavoro e non si accontenti del sussidio di disoccupazione o di una pensione anticipata, che non si finga infortunato (come Neymar ai mondiali) quando ha magari solo un piccolo acciacco, e via dicendo? Il problema, beninteso, � sempre stato presente, soprattutto nel mondo anglosassone, dove le leggi a protezione dei poveri, gi� dalla fine del XVI secolo, imponevano controlli gravosi e umilianti condizioni di vita e di lavoro forzato per i "beneficiari", con l'esplicito fine di scoraggiare il ricorso a questo dispositivo. Oggi si parla pi� pudicamente di "prova dei mezzi" (devi dimostrare di essere bisognoso), di workfare (devi dimostrare che stai attivamente cercando un lavoro se vuoi i sussidi di disoccupazione), di Stato assistenziale (in senso dispregiativo) per umiliare chi vi fa ricorso e quindi dissuadere i potenziali utilizzatori, ma il principio � lo stesso: abbiamo paura degli approfittatori (free riders - in inglese suona meglio). E, purtroppo, abbiamo spesso fondati motivi per diffidare della moralit� (degli altri, sia chiaro). Ostacolo alla mobilit�. Creare una rete formale di protezione sociale richiede l'introduzione di una lunga serie di definizioni: proteggere da cosa, come e chi. Concentriamoci su quest'ultimo termine del problema. In una societ� immobile, la soluzione � semplice: si prende un territorio (per esempio la Lombardia), e chi c'� c'�, con i suoi doveri (pagare tasse e contributi) e i suoi diritti (usufruire di servizi). Anche il controllo sociale � ben pi� facile, e riduce il numero degli approfittatori. Ma se la gente comincia a spostarsi sul territorio il problema si complica, tanto pi� se i movimenti sono forti e avvengono in fasi specifiche della vita. Ammettiamo, per semplicit�, che il Welfare vada a vantaggio solo di giovani e anziani, e che a pagare siano solo gli adulti (non siamo poi troppo lontani dal vero). Ammettiamo poi (e qui deliberatamente esagero) che la Lombardia attiri gli adulti (ci sono opportunit� di lavoro), ma scoraggi la presenza di giovani e anziani (per i ritmi frenetici, i prezzi elevati, la scarsa qualit� della vita ecc.). Ebbene, in questo scenario la Lombardia raccoglie tanto in tasse e contributi, ma paga poco in servizi di Welfare, perch� a pagare saranno le altre regioni d'Italia, quelle dove risiedono giovani e anziani. Finch� la mobilit� � nazionale, e finch� esiste un'autorit� nazionale (lo Stato) che impone trasferimenti dalla Lombardia verso il resto del Paese, il problema � risolvibile, anche se pu� generare qualche tensione politica. Ma la questione si ingarbuglia quando la mobilit� delle persone � internazionale: gi� si creano complicazioni all'interno di aree pi� o meno ugualmente sviluppate che hanno stipulato appositi accordi tra di loro (ad esempio, in Europa), figuriamoci quando la mobilit� � su scala internazionale, tra Paesi lontani, e non solo geograficamente. Aggiungo che, di norma, e anche in Italia, i Paesi che ricevono migranti ne traggono un vantaggio, perch� i migranti arrivano in et� da lavoro e spesso se ne tornano via quando sono anziani; sono inoltre selezionati, e quindi sani: per questa ragione, oltre che per le scarse conoscenze del sistema, sfruttano poco il Welfare per cui invece pagano. In definitiva, siamo noi, Paesi ricchi, a derubare loro, gli immigrati. Nonostante ci�, la propaganda politica ci ha ormai convinto del contrario, e anche sotto l'influsso del punto precedente, il moral hazard, abbiamo tutti paura che lo "straniero" venga per sfruttare il nostro Welfare e vivere alle nostre spalle. Del resto, cosa c'� di pi� facile e di pi� politicamente pagante che ingigantire le paure e prendersela con i deboli, che per giunta neppure votano? Cambiamenti demo-economici. Il quinto motivo di crisi del Welfare � che esso � nato in condizioni molto diverse da quelle attuali. Nel secondo dopoguerra, e durante il boom economico, si potevano contrarre debiti a cuor leggero (anche troppo, come abbiamo poi scoperto), perch� la percezione era che in futuro saremmo stati pi� ricchi e li avremmo potuti ripagare facilmente. Ma la crescita economica � ormai molto bassa e in alcuni Paesi, tra cui il nostro, pericolosamente vicina allo zero. Peggio ancora va sul fronte demografico: dalla robusta crescita della popolazione negli anni Sessanta (sei o sette per mille all'anno), siamo passati non solo alla stazionariet�, ma addirittura all'arretramento. E, soprattutto, siamo molto invecchiati: siamo pi� vecchi dei nostri partner europei e (anche) sotto questo profilo continuiamo a peggiorare. Ad esempio, il peso degli ultra-sessantacinquenni sulla popolazione in et� lavorativa (15-64 anni, secondo una vecchia definizione) � passato dal 15% del 1961 (censimento) al 35% del 2017 (30% in Europa). Un po' in tutto il mondo il Welfare � organizzato in primo luogo a beneficio degli anziani: in alcuni casi in modo esplicito (con le pensioni, ad esempio), in altri in modo implicito (con le pensioni di reversibilit�, che per� vanno in grande maggioranza al/la coniuge sopravvivente, e sempre di anziani si tratta; o tramite la sanit�, formalmente a copertura di tutti, ma in pratica utilizzata in larghissima misura dagli anziani). In Italia, per�, oltre all'alta percentuale di anzianit�, c'� una distorsione del Welfare a favore degli anziani ancor pi� accentuata che negli altri Paesi. Per fare un esempio, le funzioni (di protezione di) "anziani" e "sopravviventi" assorbono pi� del 58% della nostra spesa sociale (il 46% in Europa), e per la sanit� se ne va un altro 23% abbondante (il 29% in Europa). Complessivamente, quindi, una spesa sociale da noi maggiore che altrove (come si � detto all'inizio: quasi il 30% del Pil, contro il 28,6% in Europa) � per di pi� quasi esclusivamente mirata agli anziani, che ne assorbono circa l'82%, tra pensioni, reversibilit� e sanit�. Solo il 18% (il 25% in Europa) va per altre funzioni: disoccupazione, famiglia, alloggio ecc.. Qui non � chiarissimo il rapporto di causa-effetto: spendiamo molto per gli anziani perch� sono tanti (e in crescita, e bisognosi), o invece spendiamo molto per gli anziani perch� sono loro (che sono in tanti a votare) ad essersi accaparrati quasi tutte le risorse? C'� del vero in entrambe le interpretazioni: Andrea Brandolini ci ha recentemente ricordato che in Italia, nel periodo 2005-2016, a seguito della crisi, la povert� assoluta � aumentata, ma non tra gli anziani - gli unici ben protetti dal Welfare. E pensate che il peso relativo delle pensioni, che era oltre il 61% nel 2005, � da allora calato di tre punti, all'interno della spesa sociale, solo grazie alle vituperate riforme previdenziali (Dini e aggiustamenti successivi, Fornero in primis), perch� nel frattempo, demograficamente parlando, siamo invece ancora e robustamente invecchiati (come gi� accennato, l'indice di dipendenza degli anziani, che si attestava al 30% nel 2006, � salito al 35% nel 2017). Anche in questo caso, abbiamo avuto un aiutino: non da casa, come nelle trasmissioni televisive, ma a casa - a casa nostra, grazie alle immigrazioni, senza le quali saremmo ancora di meno e, soprattutto, ancora pi� vecchi. Ma questo, attualmente, � un argomento tab�. Il futuro del Welfare in Italia � molto incerto: un po' perch� i motivi di crisi sopra elencati non sono ancora stati risolti - anzi; un po' perch� il Welfare sottintende, ma al tempo stesso modella un certo tipo di societ�. E in una societ� che sta cambiando, e che si vorrebbe anche far cambiare in una certa direzione, il Welfare dovrebbe evolversi a sua volta. Ma come pu� accadere ci�, in un contesto in cui il senso del bene comune sembra essersi smarrito? Come se non bastasse, appare impossibile proporre modifiche che prescindano dai giudizi e dagli orientamenti di valore personali. Prendete quindi con le molle tutto quel che segue, che riflette solo le mie preferenze, e che comunque � solo accennato. Sulla riforma previdenziale abbiamo gi� fatto molto e nella direzione giusta. Persino su questo fronte, tuttavia, potremmo muovere qualche altro passo, soprattutto in termini di coerenza - a cominciare dall'onore che dovremmo rendere a chi, Dini e Fornero in testa, ha avuto il coraggio di intervenire per fermare l'emorragia e correggere gran parte delle distorsioni ereditate dalle sconsiderate scelte del passato. Tra i vari punti ancora aperti segnalo questo: non sarebbe il caso di abolire (non dall'oggi al domani, beninteso, ma in prospettiva) le pensioni di reversibilit�? Esse sottintendono un'idea di famiglia che non esiste pi� (un matrimonio che dura tutta la vita, con la donna a casa e l'uomo al lavoro), sono fonte di considerevoli complicazioni (pensate al lavoratore che divorzia, si risposa e poi muore: a quale delle due mogli dovrebbe andare la reversibilit�?) e sono fondamentalmente ingiuste, perch�, a parit� di contributi, trattano in modo diverso il lavoratore celibe, quello sposato con donna (pi� o meno) della sua et� e quello sposato con donna giovane. Sulla spesa per l'infanzia, il modello che si � dimostrato migliore � quello dell'Europa del Nord: non (tanto) soldi, quanto servizi di custodia, che consentano alle donne di lavorare (magari proprio in quei servizi) e quindi partecipare di pi� alla vita produttiva del Paese (diciamo meglio: alla parte formalmente riconosciuta come tale), acquisendo diritti propri e status di lavoratrici, titolari di pensioni ecc.. Del resto, anche lo sviluppo dei bambini affidati a nidi e asili sembra migliore rispetto a quello di chi rimane in famiglia: in contatto con propri simili, e non solo con i nonni baby-sitter, i piccoli ricevono pi� stimoli, socializzano in fretta e imparano di pi� e prima (a parlare e a leggere, tanto per cominciare). Le modalit� di assistenza agli anziani in casa, magari con badanti irregolari, non sono molto efficienti: � vero che tutti preferiscono continuare a vivere in casa propria (e se possibile, vicino a figli e parenti), ma oltre una certa soglia di non autosufficienza sarebbe probabilmente preferibile un modello diverso, con residenze semi-collettive (stanze individuali, ma spazi comuni) e personale con maggiore specializzazione, in grado di accudire contemporaneamente pi� persone. Attualmente queste strutture, che pure esistono, sono molto costose e generalmente circondate da discredito, anche per i casi estremi, che la cronaca talvolta ci segnala, di degrado e sfruttamento. Ma in una societ� in cui la famiglia tradizionale va scomparendo, in cui i figli sono pochi, spesso impegnati o lontani, o anziani e acciaccati a loro volta, e in cui le mogli casalinghe, pronte a rispondere nell'immediato a ogni esigenza familiare, sono ormai una rarit�, si vedono poche alternative all'orizzonte. Su molte altre questioni aperte confesso che non ho affatto le idee chiare. Che, ad esempio, vadano arginati la disoccupazione giovanile, la "fuga dei cervelli" all'estero (vale a dire l'emigrazione dei nostri giovani pi� qualificati) e il fenomeno dei neet (giovani inoperosi e neppure alla ricerca di una possibilit� di studio o di lavoro) siamo tutti d'accordo. Capire come ottenere tutto ci�, per�, non � semplice - e non pare tanto un problema di Welfare, quanto di mercato del lavoro (e di costo del lavoro, per ridurre il quale bisognerebbe per� abbassare il prelievo contributivo, e quindi intervenire ulteriormente al ribasso sulle pensioni). La sanit�, infine, � forse la questione in prospettiva pi� grave: da una parte l'allungamento della durata della vita, essendo le et� anziane proprio quelle che pi� costano, e dall'altra l'aumento dei costi unitari di trattamento (determinato dalla continua "ricerca del meglio", da parte della medicina e anche dei singoli) formano un mix potenzialmente esplosivo. Il modello americano delle assicurazioni individuali sembra la strada peggiore: � ancora pi� gravoso a livello economico e comporta una maggiore disparit� di trattamento tra gli individui, con risultati medi inferiori a quelli del modello europeo. Ma anche il modello italiano (beveridgeano, come avrete forse notato dalla citazione iniziale), della copertura universale e gratuita, � entrato in crisi: i costi sono alti, la domanda crescente, il rischio di abusi sempre dietro l'angolo. Pur tuttavia, in Italia alcune regioni riescono ancora a garantire servizi considerati eccellenti, con tempi di attesa ragionevoli, costi accettabili e buoni esiti. Qui, il problema maggiore, al momento, appare quello del forte divario territoriale in termini di qualit� ed efficienza dei servizi. Come far s� che gli esempi delle nostre regioni pi� virtuose diventino standard nazionali? Questo � un interrogativo a cui, per il momento, non saprei proprio trovare una risposta adeguata. Come cambia la famiglia (di Rossella Ghigi, "il Mulino" n. 5/18) Un paradosso sembra caratterizzare l'Italia da quarant'anni a questa parte: il permanere di una cultura fortemente familista e una progressiva contrazione della famiglia. � noto, infatti, che il nostro Paese, con una media di 1,35 figli per donna, � da tempo una delle regioni al mondo con il pi� basso tasso di fecondit� (lowest-low fertily rate: pi� basso del basso). In breve, "tanta famiglia" nella cultura, nei discorsi e nell'immaginario anche istituzionale del cattolicissimo Paese del Family Day, ma "poca famiglia" nelle scelte riproduttive e nei percorsi di vita. Come si spiega questa contraddizione? Si tratta, come vedremo, di un paradosso solo apparente, comprensibile alla luce di processi sociali e demografici di lungo periodo. Per affrontarlo, � necessario prima di tutto fare chiarezza su continuit� e discontinuit� nei modi di fare famiglia in Italia, cercando di sgomberare il campo da falsi miti e allarmismi eccessivi. Iniziamo sfatando uno dei luoghi comuni pi� diffusi sulla famiglia italiana, secondo il quale nel passato essa sarebbe stata normalmente composta di un nucleo allargato, con moglie e marito sposati in giovane et�, numerosi figli e sposi dei figli, nonni e altri parenti che convivevano tutti sotto lo stesso tetto, secondo logiche della condivisione e della convivialit�. Oggi invece la famiglia tipica sarebbe composta per lo pi� da un nucleo ristretto, residente a una certa distanza dai propri parenti e ispirato da una cultura individualistica, se non egoistica. Ebbene, le ricerche sociodemografiche restituiscono un quadro molto pi� variegato, tanto per il passato, quanto per il presente. Si � mostrato, ad esempio, che in alcune regioni dell'Italia centrale l'et� alle prime nozze era alta (27-28 anni) gi� a fine Ottocento e che l'aggregato esteso � la Novecento di Bertolucci era effettivamente il modello prevalente tra i mezzadri o i boari delle regioni centrali, ma non tra gli artigiani delle citt� del Nord, tra i braccianti meridionali o tra gli abitanti delle zone alpine, che vivevano gi� in famiglie nucleari. Pi� in generale, non si pu� parlare di una sola famiglia "tradizionale" italiana (e men che meno "naturale", come giustamente osserva nei suoi scritti Chiara Saraceno), ma di un tessuto di strutture familiari che era complesso e diversificato per zona e ceto sociale gi� prima del Novecento. Secondo luogo comune: oggi a fare ancora figli in Italia sono le famiglie del Sud, in cui le donne sarebbero meno emancipate e pi� tradizionaliste; le famiglie del Nord sarebbero invece spesso senza figli perch� qui le donne sono pi� interessate alla propria carriera e al proprio lavoro e magari si accorgono quando � troppo tardi che vorrebbero un figlio. Ebbene, i dati ci dicono che la situazione � semmai opposta. � vero che in Italia sempre pi� spesso ci sono famiglie in cui non vi sono figli; oppure, quando ci sono, nella quasi met� dei casi si tratta di un unico figlio. Ed � vero che l'entrata delle donne nel mercato del lavoro ha contribuito a questo cambiamento: il tasso di fecondit� ha iniziato a scendere dagli anni Settanta, quando � aumentata la quota di donne impegnate nel lavoro extradomestico. Ma basta allargare lo sguardo oltre confine per vedere che un'alta fecondit� si pu� conciliare con un alto tasso di occupazione femminile. Anzi, nell'Italia delle culle vuote quest'ultimo � molto pi� basso del valore medio europeo. Inoltre, tornando entro i confini, scopriamo che dal 2006 le regioni del Nord hanno sorpassato quelle del Sud quanto a fecondit�. In generale, sono semmai le coppie a doppio reddito, pi� diffuse al Nord, a potersi permettere di fare il primo e soprattutto il secondo figlio. E sono le regioni in cui gli enti locali mettono a disposizione servizi che consentono alle madri di tornare al lavoro dopo la maternit�. Il punto � che da noi il lavoro salariato femminile � ancora subordinato a quello familiare. Entro le mura delle nostre case si registrano gli squilibri di genere tra i pi� alti in Europa quanto a divisione del lavoro di cura e soprattutto domestico: assieme agli spagnoli, gli uomini italiani (specie se hanno pi� di 45 anni) sono quelli che contribuiscono meno. Lo squilibrio persiste persino tra le coppie pi� giovani e istruite, persino tra le coppie non sposate, persino quando lui � un lavoratore dipendente, anche se a queste condizioni il gap si riduce un po'. Il risultato? Oggi un'italiana occupata su quattro ancora lascia (e spesso deve lasciare) il proprio lavoro entro due anni dalla nascita del primo figlio. Una su due all'arrivo del secondo. Terzo luogo comune: le femministe degli anni Settanta hanno diffuso l'idea che fare un figlio fosse di intralcio alla propria realizzazione personale o che la procreazione fosse un retaggio del dominio patriarcale per assoggettare le donne attraverso i loro corpi e mantenerle in uno stato di dipendenza. Se guardiamo alla storia del femminismo vediamo con chiarezza quanto questa ricostruzione sia inesatta. Innanzitutto, � impossibile ridurre il pensiero femminista a un unico punto di vista, sia sulla donna, sia sulla maternit� (basti pensare a quanto potevano essere diverse le posizioni di Lea Melandri e di Luisa Muraro a riguardo). Quel che � comune all'eredit� del femminismo, semmai, � il superamento della colpevolizzazione della donna che non ha figli, per scelta o per mancanza di condizioni adatte. L'idea che una donna in quanto tale debba avere un istinto materno, a pena di essere "meno donna" o "poco femminile", se non addirittura un mostro di egoismo, aveva radici profonde nella cultura italiana e il femminismo ha contribuito a metterla in discussione. Infine, a sfatare il luogo comune per cui si sarebbe diffusa un'ideologia childfree, sono i dati comparati sulla fecondit� desiderata (quelli raccolti tramite questionario con la domanda "Quanti figli vorresti avere nella tua vita?"), che mostrano che comunque a prevalere, in Italia come in Europa, tra le coorti nate prima degli anni Settanta come tra quelle nate dopo, � l'ideale di avere due figli - meglio ancora se di sesso diverso! Una volta smentiti questi luoghi comuni, � necessario registrare per� un'indubbia evoluzione nei modi e nei tempi del fare famiglia negli ultimi decenni. I dati Istat pi� recenti mostrano che la famiglia costituita da una coppia con un paio di figli conviventi rappresenta ormai appena un terzo di tutte le famiglie con figli (con buona pace delle pubblicit� dei biscotti, le famiglie composte da madre, padre e due figli sono il 15% del totale). Nel contempo, i nuclei composti da una sola persona sono aumentati pi� di tre volte e mezzo nell'arco degli ultimi quarant'anni. Nella maggioranza dei casi si tratta, come � intuitivo pensare, di vedovi (e soprattutto vedove), ma a vivere da soli possono essere anche giovani adulti che decidono di posticipare o di non costituire una coppia, oppure adulti dopo una separazione. Chi al contrario decide di metter su casa con qualcun altro, lo fa oggi seguendo tempi e traiettorie altrettanto mutati. Innanzitutto, la costituzione di una nuova famiglia non per forza � suggellata da un matrimonio: le convivenze sono pi� che raddoppiate in dieci anni e rappresentano oggi quasi il 9% di tutte le coppie. Nel nostro Paese esse sono spesso vissute come periodo di prova prematrimoniale pi� che come scelta di vita definitiva; ma, di certo, solo trent'anni fa era rarissimo che un matrimonio fosse preceduto da una convivenza, mentre oggi non soltanto � frequente (uno su tre), ma � anche meno stigmatizzato socialmente. Non � quindi insolito avere una coppia che, bench� si autodefinisca cattolica, vada a convivere e poi si sposi in chiesa, magari anche dopo la nascita del primo figlio (difatti, oggi in Italia un bambino su tre nasce da una coppia non sposata). L'altro grande elemento di cambiamento rispetto al passato � la maggiore instabilit� coniugale. Negli ultimi vent'anni, le separazioni sono aumentate di quasi il 70% e i divorzi sono quasi raddoppiati. E l'instabilit� coniugale contribuisce a sua volta alla variabilit� delle strutture familiari, sfociando nella creazione di nuclei unipersonali, monogenitoriali, oppure in nuove coppie, con o senza figli nati dalle precedenti unioni. I secondi matrimoni sono molto pi� frequenti di un tempo, e cos� pure le convivenze tra persone in precedenza separate. Infine, il radicamento del fenomeno migratorio, il diffondersi dei ricongiungimenti familiari e delle coppie miste contribuiscono a rendere ancora pi� articolato il quadro contemporaneo. Per comprendere questi cambiamenti, il primo elemento da sottolineare � che essi si inseriscono in un processo pi� ampio, che ha interessato i Paesi industrializzati fin dall'Ottocento. Al forte calo della mortalit� del XIX secolo si � sommata una progressiva riduzione della fecondit�, grazie soprattutto alla diffusione del ricorso a pratiche contraccettive. In questa fase, sempre pi� la sessualit� si svincola dalla procreazione, la scelta del partner avviene per affinit� individuali e amore romantico. Convivenze more uxorio e instabilit� coniugale iniziano a diffondersi nel Secondo dopoguerra, prima nei Paesi Nord europei e poi nel resto del continente. Secondo la teoria nota come Seconda transizione demografica, questi cambiamenti sarebbero dovuti sostanzialmente alla diffusione di valori postmoderni che promuovono l'individualismo e l'autorealizzazione. E questi valori sarebbero particolarmente diffusi tra le coppie pi� istruite che, pertanto, sono le pi� restie verso forme familiari pi� vincolanti e con pi� figli. Ma lo scenario che vede sempre "meno famiglia" � stato interpretato anche secondo un'altra linea teorica, che trae ispirazione dagli scritti dell'economista Gary Becker. Questa identifica la specializzazione all'interno della coppia con un partner che lavora e l'altro coinvolto nel lavoro di cura e domestico come un fattore capace di incrementarne l'utilit� e assicurare livelli di fecondit� tali da garantire il ricambio generazionale. L'entrata delle donne nel mercato del lavoro e la trasformazione del ruolo femminile all'interno della coppia avrebbero minato questo equilibrio, riducendo la fecondit�. Entrambe queste linee interpretative, tra le pi� accreditate per decenni, sono state in grado di rendere conto dell'evoluzione delle forme familiari dei Paesi industrializzati a partire dal Secondo dopoguerra. A dar loro man forte � una letteratura sociologica che, gi� alla fine dell'Ottocento, mostrava una certa ansia verso il "declino della famiglia", ovvero il venir meno dei valori e dei vincoli di solidariet� tradizionali alla luce di un indebolimento dei legami di intimit� e dell'affermarsi della cultura del consumo. Molte ricerche empiriche, spostando l'accento dalle strutture alle pratiche della vita familiare, hanno recentemente ridimensionato il quadro, mettendo in luce la variet� dei modi in cui le persone stabiliscono vincoli solidi di reciprocit�, responsabilit� e affetto nelle proprie routine quotidiane. Ma anche gli studi di popolazione tendono a contraddire oggi l'ipotesi che la famiglia sia "in crisi": innanzitutto, la fecondit� desiderata, come si � visto, � ovunque rimasta stabile, diversamente dalle previsioni pi� allarmiste; inoltre, proprio in alcuni di quei Paesi che pi� di altri sembravano avviarsi inesorabilmente verso il "meno famiglia", come quelli scandinavi, addirittura si � assistito negli ultimi vent'anni a una ripresa dei matrimoni, a una maggiore stabilit� delle coppie, a un decremento nei divorzi e a livelli di fecondit� realizzata che tendono ad approssimarsi a quella desiderata. Questi dati sembrano spiegabili in base al progredire dell'emancipazione delle donne e all'instaurarsi di un nuovo e pi� paritario equilibrio di genere, come suggerisce Gosta Esping-Andersen (si veda il suo Families in the 21st Century, Sns F�rlag, 2016). In passato, i comportamenti attesi sulla base dei ruoli di genere e quelli effettivamente realizzati da uomini e donne coincidevano. Il correlato di questo erano matrimoni in giovane et�, stabili, che davano molti bambini. Nel momento in cui la rivoluzione femminile ha portato il corso di vita delle donne ad assomigliare maggiormente a quello maschile, � emerso un disorientamento normativo che ha provocato una contraddizione tra ci� che era desiderato e ci� che di fatto si realizzava, e dunque una esitazione diffusa a sposarsi, a rimanere in coppia, a fare figli. Ma in alcuni Paesi del Nord Europa anche questa fase sarebbe ormai superata, grazie a una maggiore condivisione del lavoro familiare e a un adeguato Welfare di supporto. Si � quindi trovato un nuovo equilibrio, compatibile con un'alta fecondit� e una presenza stabile delle donne nel mercato del lavoro, contrariamente a quanto predetto da Becker. Questo "ritorno alla famiglia" sarebbe guidato dalla frazione pi� istruita della popolazione, ispirata da valori di genere ugualitari, mentre l'opposto risulterebbe per i meno istruiti, che invece mostrano una maggiore instabilit� di coppia. Al contrario, sarebbero proprio i Paesi mediterranei, in cui il carico di cura e lavoro domestico grava quasi interamente su donne che sono comunque attive (o vorrebbero esserlo) nel mercato del lavoro, a mostrare una pi� intensa erosione della famiglia. Anche altre recenti ricerche confermano che a frenare le donne dell'Europa mediterranea nell'avere figli sia il carico di lavoro che si aspettano di dover sostenere, dentro e fuori casa, la percezione di molte negoziazioni da gestire col proprio partner e soprattutto la sensazione che il modello della maternit� oblativa - strettamente legato allo squilibrio di genere nella divisione del lavoro famigliare -, non quello della maternit� tout court, sia incompatibile con la propria realizzazione in altre sfere. Stando a questa linea interpretativa, il rialzo della fecondit�, la ritrovata stabilit� della coppia, la diminuzione dei divorzi non sembrerebbero che questione di tempo, anche per i Paesi mediterranei: il tempo che i valori sull'uguaglianza di genere si diffondano a tutti gli strati della societ�, anche quelli meno istruiti, e il tempo di uscire dalla contraddizione tra norme e comportamenti per assestarsi su un equilibrio di genere pi� paritario. Se simili interpretazioni possono giustificare il basso tasso di fecondit� del nostro Paese, con i suoi squilibri di genere, esse non spiegano per� come tutto questo si connetta al forte familismo nei valori e nell'immaginario sociale. Maria Castiglioni e Gianpiero Dalla Zuanna hanno recentemente suggerito una chiave interpretativa (La famiglia � in crisi". Falso!, Laterza, 2017): la nostra societ� � articolata attorno ai "legami forti" familiari, nonostante i rilevanti cambiamenti che abbiamo visto. Nello specifico, osservano i due demografi, comparativamente agli altri Paesi europei, in Italia si esce pi� tardi da casa dei genitori (secondo l'Eurostat, oltre i 31 anni per gli uomini, mentre gli svedesi se ne vanno a 19,7 anni e i francesi a 24,8); quando lo si fa, si va comunque ad abitare vicino alla famiglia di origine (il 70% delle persone con pi� di 30 anni risiede a meno di 10 km dalla madre quando questa � ancora in vita, una percentuale che scende al 45% in Francia e Germania); parallelamente, si provvede ai bambini sotto i tre anni e ai grandi anziani per lo pi� in casa e in famiglia; infine, le norme fiscali e il sistema di protezione sociale tendono a sostenere la continuit� familiare tra generazioni pi� che altrove. Tutto questo � alimentato dall'idea (e la alimenta a sua volta) che la famiglia sia e debba essere la principale forma di sostegno nella transizione all'et� adulta e nelle successive fasi della vita. D'altra parte, affermano Castiglioni e Dalla Zuanna, nei Paesi a legami forti � maggiore l'ansia dei genitori per la riuscita sociale dei propri figli. I dati mostrano che per ogni figlio in pi� i genitori italiani tendono a investire pi� tempo, energia e quota del proprio reddito: perci� sarebbero pi� cauti di altri a fare il secondo o il terzo. L'aiuto intergenerazionale su cui si basa il modello del "pi� famiglia" � senz'altro un fattore di protezione in fasi di criticit� economiche o di necessit� di cura. Ma questo ovviamente � vero quando una famiglia alle spalle c'�, quando ha le risorse sufficienti e quando � possibile abitarvi vicino. Non sempre � cos�: famiglie numerose, immigrati, giovani che non hanno alle spalle il sostegno di genitori o nonni benestanti non ricadono entro questo modello. Questo sistema ha come conseguenza il fatto di confermare le disuguaglianze e limitare la mobilit� sociale, oltre che quella territoriale. Se dunque un intervento politico vuol andare nella direzione di un appianamento delle disuguaglianze, di un maggiore benessere dei cittadini e di una sostenibilit� del sistema pensionistico (in un futuro in cui, di questo passo, la popolazione italiana sar� composta soprattutto da anziani: gi� oggi una persona ogni cinque ha pi� di 60 anni), � necessario definire da subito alcune priorit�. Innanzitutto, il ricambio generazionale: un punto sul quale vale la pena di riflettere, ad esempio, � il gap tra figli che si vorrebbero avere e figli che alla fine si riescono a fare che abbiamo visto all'inizio. Questo gap � rivelatore di un insieme di fattori, come le condizioni culturali, strutturali ed economiche, il costo diretto di ciascun figlio, il suo costo-opportunit�, le aspettative rispetto al proprio corso di vita, la fiducia in un lavoro stabile. Che Esping-Andersen abbia ragione o no, i dati ci dicono che siamo un Paese in cui le donne rischiano maggiormente rispetto agli altri in Europa di uscire dal mercato del lavoro e contano su strumenti di conciliazione ancora frammentari e disomogenei sul territorio. Inoltre, quando la conquista dell'autonomia abitativa avviene tardi e non ci sono strumenti che aiutano i giovani a relazionarsi con un mercato immobiliare (e con una notevole propensione all'acquisto della casa) tarato su garanzie che solo un lavoro a tempo indeterminato pu� dare, il passaggio a un'et� adulta diventa un'esperienza sempre pi� lenta e difficoltosa - ed � pi� difficile raggiungere negli anni successivi il numero di figli desiderato: siamo il Paese con pi� alta proporzione di donne che diventano madri oltre i 40 anni. Una disoccupazione giovanile doppia rispetto alla media europea, il difficile accesso al lavoro anche con un alto titolo di studio, la necessit� di una maggiore mobilit� territoriale, l'incremento della povert� minorile, la scarsa istituzionalizzazione dei grandi anziani concorrono ad aumentare il carico sulle famiglie italiane: � chiaro che un Welfare di natura assistenziale, orientato all'aiuto monetario nelle responsabilit� familiari, rappresenta un intervento debole che finisce per confermare squilibri e asimmetrie. Ed � chiaro che la direzione da prendere sia quella del contrasto alle disuguaglianze e dell'adozione di misure che garantiscano una maggiore redistribuzione della ricchezza. Infine, sarebbe ben limitato un intervento politico che si volesse fermare di fronte al dato culturale, prendendolo come immutabile. Anche sugli equilibri di genere entro le mura domestiche le politiche possono intervenire, non soltanto offrendo servizi o incentivando il ricorso ai congedi da parte dei padri, ma anche sostenendo politiche di educazione all'uguaglianza e alle pari opportunit� fin dall'infanzia: nella scuola, nei percorsi formativi, nelle attivit� di lavoro e tempo libero dedicate agli adulti. Quanto pi� la politica de-familiarizzer� alcune funzioni, tanto pi� essa redistribuir� tra pubblico e privato i costi degli squilibri demografici e ridurr� le disuguaglianze. E questo non potr� che giovare alla famiglia stessa, vecchia o nuova che sia. Il perfezionista (di Christine Altst�tter-Gleich, "Psicologia contemporanea" n. 224/11) - Che il "meglio sia nemico del bene" lo sapeva gi� Voltaire. In s� non c'� nulla di male a impegnarsi per sfruttare in maniera ottimale le proprie possibilit�. Bisognerebbe, per�, trovare la giusta misura: quello che in piccole dosi pu� essere uno sprone a migliorarsi, a lungo andare pu� divenire un veleno per la psiche. - Nel lavoro vi aspettate sempre di dare prestazioni d'eccellenza? Oltre alla professione ci sono anche altri ambiti della vita - nello sport, in cucina, nell'educazione dei figli - in cui volete soddisfare altissime pretese? Date sempre il meglio di voi in tutto quello che fate? In tal caso siete probabilmente affetti da perfezionismo. Una trentina di anni fa comparve, sull'americana Psychology Today, il primo articolo su questo problema. L'autore, David Burns (1982), vi tracciava un quadro tutt'altro che positivo delle conseguenze che lo sforzo di conseguire l'optimum comporta per la salute mentale: ansie, comportamenti ossessivi, depressione, maggiori probabilit� di suicidio. L'elenco dei disturbi psichici correlati a questo tratto di personalit� era gi� lungo in quelle prime ricerche. Da allora � stato completato soprattutto in riferimento ai disturbi dell'alimentazione e della funzione sessuale, dove le richieste eccessive nei confronti del proprio corpo possono condurre a gravi patologie. Il fatto di pretendere troppo dalle proprie capacit� di prestazione non basta tuttavia a spiegare perch� il perfezionismo rischi di farci ammalare. Ad Alfred Adler e ai lavori di un altro teorico, Don Hamachek, risale la concezione del perfezionismo oggi prevalente, secondo cui si devono distinguere due aspetti fondamentali. Il primo riguarda il livello delle prestazioni che una persona si prefigge. Molto grossolanamente, e con numerose gradazioni intermedie, gli individui si possono distinguere in perfezionisti e non perfezionisti, ma in senso scientifico si parla di perfezionismo solo se lo sforzo per raggiungere la perfezione � un tratto dominante che coinvolge pi� o meno tutti gli ambiti dell'esistenza. Affermazioni tipiche in questo senso sono, ad esempio: "Per me � importante dimostrare di essere il pi� bravo possibile in tutto quello che faccio"; "Cerco sempre e comunque di dare il meglio di me". Il secondo aspetto ha a che vedere con il modo in cui una persona fa i conti con il successo o l'insuccesso rispetto alle mete ambiziose che si � programmato. � qui che si decide se il perfezionismo rappresenta un rischio per la salute mentale. La tendenza perfezionistica � funzionale, cio� sana, quando una persona sente di poterla controllare: non fanno paura gli errori di percorso, n� un eventuale fiasco totale, e viceversa si � capaci di godere anche di successi parziali. Un rischio per la salute mentale si ha, invece, quando in primo piano c'� la paura di non riuscire a realizzare gli scopi prefissati. Si parla allora di perfezionismo disfunzionale. Quello che in piccole dosi pu� essere uno stimolo, a lungo andare diventa un veleno per la psiche. Soprattutto la sensazione ricorrente di aver fallito ha conseguenze negative per l'autostima e per la cosiddetta "aspettativa di autoefficacia", con cui si indica la convinzione di poter padroneggiare con le proprie forze anche situazioni difficili. La ricerca dimostra che le persone dotate di alte aspettative di autoefficacia non si lasciano facilmente mettere fuori combattimento da un brutto colpo. Se invece l'aspettativa di autoefficacia � scarsa, aumentano i rischi di depressione o disturbi ansiosi. La stessa correlazione vale per il sentimento di autostima. Viste dall'esterno, queste angosce di fallimento appaiono spesso del tutto infondate. Di fronte a un insuccesso il non perfezionista � in grado di pensare: "Insomma, non � poi cos� tremendo se per una volta qualcosa non riesce tanto bene, e poi in fondo non � andata nemmeno cos� male". L'incapacit� di prendere alla leggera il tema del rendimento e delle prestazioni � un'altra causa possibile dei disturbi causati da un perfezionismo eccessivo. Alla base c'� una tendenza a pensare in bianco e nero, che spesso � tipica dei perfezionisti disfunzionali. Per chi ha questo atteggiamento esiste solo l'alternativa secca bene/male: non esiste per loro: "Ce l'ho quasi fatta", oppure "S�, � vero, non ho completato la prova, ma almeno questa parte mi � riuscita bene". Anche un piccolo errore si traduce in un fallimento completo. Come i dubbi sulle proprie capacit�, anche questo atteggiamento di rigida dicotomia comporta conseguenze negative per la stima di s�. Impedisce di imparare dagli errori: la sola cosa che conta alla fine � non aver raggiunto lo scopo. C'� anche un'altra ragione per cui i perfezionisti non riescono a valutare oggettivamente gli errori. Spesso infatti hanno la sensazione che se non fanno qualcosa di eccellente gli altri li rifiuteranno. Dal momento che valutano se stessi soprattutto in base alle prestazioni di cui sono capaci, danno per scontato che anche il prossimo faccia lo stesso. La conseguenza � che, oltre a tenersi sempre sotto pressione, si sentono spesso assediati dalle aspettative delle persone che hanno intorno. Tutto ci� esaspera la paura di fallire o commettere errori, paura che permea pensieri, sentimenti e comportamento, con effetto paralizzante: chi non si espone non sbaglia, ma non realizza niente, tanto meno scopi ambiziosi. Quanto pi� intensa � la paura dell'errore, tanto pi� � probabile non riuscire a raggiungere neppure mete che sarebbero del tutto accessibili. Sentimenti d'inferiorit�, impotenza e disperazione, tutti sintomi classici della depressione, sono le conseguenze prevedibili sul piano psichico, cui si aggiungono disturbi del sonno, tensioni e altri sintomi fisici di stress. Il timore di incorrere in errori o di fare fiasco non � ignoto neppure ai perfezionisti che abbiamo definito "funzionali". Questi per� sono capaci di fare i conti con la loro paura. Non dubitando fondamentalmente delle proprie capacit� di prestazione, partono generalmente dall'idea di conseguire gli scopi che si sono preposti. Se poi non ci riescono o inciampano in qualche errore, la cosa non mette in questione tutto quanto il lavoro fatto, tanto meno la loro personalit� complessiva. Anzich� sviluppare la paura di nuovi fallimenti, impiegano strategie attive di soluzione dei problemi, imparano dall'insuccesso e ampliano le proprie capacit�. E cos� accrescono le probabilit� di centrare l'obiettivo. Come mai alcuni riescono a fare i conti cos� bene con le loro alte aspirazioni e altri invece no? Da cosa dipende che certe persone soccombono alle paure mentre altre le superano? Anche qui, come per molti tratti di personalit�, le radici vanno cercate nella famiglia d'origine. Tutta una serie di ricerche dimostra che due aspetti sono decisivi. In primo luogo tutti i perfezionisti, sia funzionali che disfunzionali, hanno imparato molto presto che le prestazioni sono importanti. Fino dall'infanzia il loro comportamento era commisurato a standard molto esigenti. Ci� di per s� non � negativo e pu� favorire lo sviluppo di una stabile consapevolezza di s�. Ma a questo scopo � necessario che il bambino si senta accettato anche quando sbaglia e venga aiutato a imparare dai propri errori. Nel caso del perfezionismo disfunzionale � proprio questo che manca: le alte pretese dei genitori si accompagnano a freddezza emotiva, gli errori non sono quasi mai perdonati, le manifestazioni di affetto e dedizione sono rare. In queste condizioni il desiderio di riconoscimento da parte dei genitori rimane per lo pi� insoddisfatto e il bambino si sforza invano di diventare migliore, nella speranza di ottenere finalmente l'attenzione e il riconoscimento che tanto desidera. Nel frattempo prende piede in lui un sentimento d'impotenza, data l'esperienza ripetuta di non essere mai in grado di raggiungere la meta agognata. Si sviluppano, certo, standard molto ambiziosi, ma nello stesso tempo si dubita di poterli mai soddisfare e si temono le conseguenze che gli errori portano con s�. Torniamo ai quesiti posti all'inizio dell'articolo. Avete risposto di s� a tutte le domande? Avete dei dubbi sulle vostre capacit�? Basta un piccolo errore a farvi credere di aver fallito? Avete a volte l'impressione che gli altri vi abbandonino o non vi apprezzino pi� se le vostre prestazioni non sono buone? Era cos� gi� nel rapporto con i vostri genitori? In tal caso si pu� dire che appartenete alla categoria dei perfezionisti disfunzionali. Non necessariamente ci� comporta effetti negativi sul piano della salute mentale. Il perfezionismo � pericoloso soprattutto in condizioni di stress. E lo stress in parte ce lo procuriamo da soli: chi pretende di ottenere prestazioni d'eccellenza in ogni campo della vita si espone a una pressione eccessiva. Ma � anche vero che in tempi di incertezza economica l'obbligo di fare di pi� e meglio viene imposto dall'esterno a un numero crescente di persone. Questa combinazione pu� condurre fino a patologie di tipo depressivo. Se il disagio aumenta, anche per i perfezionisti si pone il problema di dove trovare aiuto e sostegno. Per questo tipo di persone ovviamente non � per nulla facile rivolgersi a un aiuto esterno. Date le alte pretese nei propri confronti, tentano piuttosto di insistere per cavarsela da soli quando sono in difficolt�. E cos� arrivano tardi in psicoterapia, se mai ci arrivano. I loro problemi spesso rimangono non trattati per anni e anni. Per questo motivo si suppone che il perfezionismo non sia da sottovalutare come causa di suicidio. Purtroppo la ricerca sui possibili interventi terapeutici � solo agli inizi, anche se da alcune indicazioni preliminari sembra che una terapia cognitivo-comportamentale possa ottenere effetti positivi. Questo tipo di trattamento parte dall'idea che il comportamento e il vissuto siano determinati dal nostro modo di pensare, da come valutiamo noi stessi e le situazioni. Per quanto riguarda le tendenze perfezionistiche, in una terapia cognitivo-comportamentale non solo si lavora per sostituire le pretese troppo ambiziose con altre pi� realistiche, ma si fanno i conti con la tendenza a dare giudizi ipercritici su di s� e anche sul prossimo. Un altro aspetto importante � l'impiego di strategie per affrontare efficacemente lo stress. L'obiettivo � imparare ad accettare l'imperfetto e a saper apprezzare quello che si � raggiunto. � necessario quindi che gli standard che ci imponiamo tengano conto delle nostre reali capacit�. Perfetto! O no? Il perfezionista tipico Da cosa si riconosce un perfezionista? E come scoprire se si rientra nella categoria? Ad esempio, dai comportamenti caratteristici che il perfezionista manifesta nella vita di ogni giorno. Possiamo distinguerne due tipi fondamentali: i comportamenti che servono a realizzare scopi ambiziosi e quelli che permettono di evitare le situazioni in cui il desiderio di perfezione rischia di sfuggire di mano. Ecco alcuni esempi. Ipercompensazione - Un comportamento viene portato all'eccesso per avere la certezza che niente vada storto: ad esempio, per non rischiare di arrivare in ritardo si parte con largo anticipo, anche quando si conosce a memoria il percorso. Controlli eccessivi - Il perfezionista spesso controlla ripetutamente se ha sbagliato qualcosa, se altri hanno fatto errori, se certi standard sono rispettati. Oppure chiede insistentemente agli altri se ha fatto tutto bene. Ripetere e correggere - Il perfezionista ripete un'azione, ad esempio, piegare il bucato, finch� il risultato non � perfetto. E corregge gli altri se fanno un errore, cosa non sempre gradita. Eccesso di pianificazione - Vi rientra la stesura esasperata di elenchi d'ogni genere. "Covare" una lista di impegni futuri a volte fa s� che manchi il tempo per passare davvero all'azione. Difficolt� di decisione - Di fronte a molte alternative diverse il perfezionista talvolta ha difficolt� a decidersi, per paura di fare una scelta sbagliata. Temporeggiare - Nel timore di fare fiasco, spesso il perfezionista rimanda l'azione. Questa tendenza a procrastinare pu� arrivare al punto di evitare del tutto le situazioni in cui si potrebbe fallire. Non riuscire a smettere - Il perfezionista rimane invischiato in un compito e ha difficolt� a concluderlo. Qualcuno ci si butta invece troppo presto per la paura di non arrivare a finire in tempo. Incapacit� di delegare - Per sfiducia negli altri il perfezionista preferisce in genere fare tutto da solo. I molti volti del perfezionismo Due pionieri della ricerca sul perfezionismo, i canadesi Paul Hewitt e Gordon Flett, distinguono tre dimensioni del fenomeno: - perfezionismo rivolto verso se stessi: il desiderio che nasce dall'intimo di essere perfetti; - perfezionismo rivolto agli altri: la tendenza a pretendere la perfezione dagli altri: amici, familiari, colleghi; - perfezionismo socialmente prescritto: la convinzione di essere amati e accettati solo se si � perfetti. Questi tre aspetti comportano problemi diversi. Il perfezionismo rispetto alla societ� crea un circolo vizioso, per cui quanto meglio si fa tanto pi� alte diventano le aspettative: la conseguenza pu� essere un sentimento d'impotenza, fino alla vera e propria depressione. Chi pretende la perfezione dagli altri e li critica senza piet� rischia gravi problemi relazionali. Il perfezionismo rivolto verso se stessi sarebbe infine un fattore di rischio per la salute mentale; dalla ricerca emerge una correlazione fra questo tipo di perfezionismo e l'anoressia. Altre concezioni del perfezionismo lo riconducono alle idee ossessive imperniate sulla necessit� di essere perfetti, oppure allo sforzo di mascherare all'esterno i propri supposti difetti. Alcuni autori ritengono che la differenza fra perfezionismo sano e nocivo dipenda dal numero di aspetti della vita che vi sono coinvolti, ma Flett e Hewitt dubitano che il perfezionismo possa mai essere sano: a loro avviso l'aspirazione alla perfezione � sempre legata a problemi psichici.