Febbraio 2017 n. 02 Anno II Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Copia in omaggio Indice L'Europa alla deriva? Seconda e ultima parte Cosa ci rende felici? L'Europa alla deriva? Seconda e ultima parte (di Valerio Castronovo, "Prometeo" n. 136/16) L'emergenza economica e quella dell'immigrazione, insieme all'incubo del terrorismo, avevano creato una sorta di combinato disposto per la diffusione di diverse forme di populismo su un ampio arco politico e culturale. Se l'estrema destra rinfacciava a quella moderata di aver perso di vista i valori identitari tradizionali, avendo lasciato che si aprissero le porte all'immigrazione extracomunitaria di prevalenti matrici islamiche, a sua volta l'estrema sinistra, non esente da fermenti anarchicheggianti, rimproverava a quella riformista di aver abbandonato, sotto la spinta di dottrine ordoliberiste, la causa della classe lavoratrice e ceduto il campo all'invadenza delle oligarchie finanziarie, non opponendosi validamente allo smantellamento di tanti posti di lavoro e allo sfaldamento dello "Stato sociale". Questo duplice genere di recriminazioni aveva perci� finito per fomentare una crescente ondata di euroscetticismo, di insofferenza e sfiducia nelle istituzioni comunitarie. Ma era stata soprattutto l'estrema destra, in quanto portata a coltivare pulsioni e tendenze xenofobe, con una forte presa emotiva, a raccogliere una quota crescente di consensi fra i ceti sociali pi� deboli e vulnerabili. Significativo a questo riguardo era il successo elettorale riportato negli ultimi tempi dal Front National in alcune localit� del Nord-est, roccaforti in passato del movimento operaio, ma sempre pi� in disarmo a causa della recessione e della maggiore competitivit� di industrie cinesi e indiane. Fin dal dicembre 2011 l'ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt aveva cercato di smuovere la classe dirigente tedesca, paga del fatto che la propria economia continuava (malgrado tutto) a godere di buona salute, dalla perpetuazione in sede europea di un indirizzo rigorista di austerit�. Aveva perci� affermato che esistevano alcune ragioni storiche, politiche ed economiche, che avrebbero dovuto indurre, in ogni caso, i tedeschi a essere "riconoscenti all'Europa" e la Germania a mostrarsi adesso solidale con i suoi partner: anche perch� un comportamento diverso, all'interno della Ue e dell'Eurozona, sarebbe risultato "catastrofico". Insomma, secondo Schmidt, c'era il pericolo che Berlino, continuando ad agire in base alla convinzione che le prescrizioni del ministro delle Finanze Wolfgang Sch�uble concorressero all'interesse collettivo, avrebbe finito col resuscitare altrove i fantasmi di un nazionalismo revanscista e col pregiudicare perci� le sorti della Comunit� europea. Ma l'ex cancelliere socialdemocratico e gli intellettuali (da J�rgen Habermas a Ulrich Beck), che avevano cercato di svegliare le coscienze, non avevano lasciato il segno sulla classe politica n� su gran parte dell'opinione pubblica. Si spiega pertanto come, stando a un'indagine condotta da uno studioso francese, Dominique Reyni�, si contassero nel 2013, oltre a partiti e movimenti populisti strutturati, una sessantina di gruppi di analoghe tendenze, anche se di differenti matrici ideologiche, accomunati da forti pregiudiziali antieuropeiste, che aggregavano in complesso un buon numero di proseliti. Quello che inizialmente era parso un fenomeno contingente e transitorio di ostracismo nei confronti delle istituzioni comunitarie era divenuto perci� sempre pi� consistente e visibile nello scenario politico, oltre che largamente presente nell'universo della Rete. E se a popolare le fila dei movimenti nazional-populisti erano le generazioni pi� anziane, non era detto che molti giovani non avrebbero finito per confluirvi, dato che non si vedeva quale avvenire potesse assicurare loro un'Europa cos� matrigna e carica di pesanti ipoteche. A gonfiare le vele dell'euroscetticismo aveva concorso anche la perdita di peso e d'influenza dell'Unione europea nel firmamento internazionale. Alle cosiddette "primavere arabe", che dall'inizio del 2011 avevano travolto, sotto la spinta di movimenti popolari di piazza, i vecchi regimi autoritari (dalla Tunisia all'Egitto) non aveva fatto seguito l'avvento di sistemi politici che assecondassero una svolta democratica e progressista. Al Cairo s'era insediato, sia pur in seguito a elezioni per lo pi� regolari, un governo d'ispirazione tradizionalista islamica e fortemente critico nei confronti dell'Occidente, che aveva riesumato i postulati d'un tempo dei Fratelli musulmani. E in Libia, dopo l'intervento anglo-francese appoggiato da Washington (che aveva assecondato la rivolta degli oppositori di Gheddafi conclusasi in ottobre con l'uccisione del Rais), il paese era divenuto ingovernabile, con due governi contrapposti e uno sciame di milizie tribali. Di conseguenza, uno scacchiere strategico come quello mediterraneo era adesso insicuro e fonte di serie incognite, oltre a essere divenuto lo scenario di un "mercato di esseri umani" che gestiva le fughe dei migranti dal Nordafrica e da quella sub-sahariana. N� era valso ad assicurare una salda stabilit� all'Egitto l'insediamento al potere nel 2013 di una giunta militare capitanata da Al Sisi, che aveva defenestrato il leader islamista Al Morsi e imposto il pugno di ferro, con la benedizione degli Stati Uniti, ma che aveva spinto nello stesso tempo l'Arabia Saudita, all'insegna di un connubio fra ideologia wahabita e potenza finanziaria, per ripristinare i rapporti di forza nel mondo arabo, a sbarrare il passo all'Iran sciita e a scatenare una "guerra per procura" (attraverso una coalizione dei paesi del Golfo) contro il sud dello Yemen dove s'erano arroccati gli sciiti houthi. Se l'Unione europea appariva una compagine priva di reali capacit� incisive sul corso degli eventi politici nelle aree a ridosso delle sue frontiere, ci� era dovuto, del resto, al fatto che continuava a procedere in ordine sparso, senza una rotta di navigazione precisa e solidi punti di riferimento. Anche perch� l'adozione di un indirizzo omogeneo e coerente in tema di politica estera avrebbe dovuto avere per pendant e supporto un indirizzo in materia di politica economica e sociale efficace e tale da assicurare pari opportunit� di sviluppo e quindi largamente condivisibile. Che persistessero invece profonde divergenze a questo riguardo, lo si era constatato ancora una volta nel corso del 2013: tanto che a Bruxelles si era dovuto ripiegare su alcune misure tampone e settoriali, pur di fronte al pericolo evidente che di questo passo l'Europa non sarebbe mai uscita dalla palude del ristagno. N� and� meglio successivamente, dato che si fin� col riporre nel cassetto il pur modesto piano di investimenti concepito dopo le elezioni europee del maggio 2014. Di conseguenza, la Germania aveva continuato a detenere una posizione dominante, in virt� di crescenti avanzi accumulati nella sua bilancia commerciale e di un'economia rimasta semipubblica. Oltretutto, mentre s'erano esacerbati i dissidi in sede comunitaria ed erano caduti gli indici di partecipazione alle elezioni europee, il terrorismo islamista si accingeva a riportare la jihad in quello che l'Isis considerava il paese europeo pi� vulnerabile e insieme di maggior valenza simbolica agli effetti della propria strategia. Di qui il sanguinoso attentato che i suoi accoliti compirono nel gennaio 2015 a Parigi, nel centro della citt�, contro la redazione della rivista satirica "Charlie Hebdo" (accusata di "blasfemia" per alcune vignette su Maometto) e un magazzino alimentare ebraico. Da quel momento la minaccia del Daesh di prendere sistematicamente di mira altri bersagli "sensibili", ma anche di colpire indiscriminatamente luoghi e spazi pubblici, divenne un incubo angoscioso per l'Europa. Anche perch� il Califfato si serviva di kamikaze votati, in base alla dottrina fondamentalista del "martirio-suicidio", a farsi esplodere tra la gente provocando un notevole numero di vittime. D'altronde era ben difficile individuare per tempo quanti, dietro normali apparenze, s'erano assunti una missione nichilista del genere, decisi a portarla a compimento: tanto pi� perch� si trattava per lo pi� di giovani residenti nei paesi europei indottrinati in qualche moschea radicale e perci� insospettabili. Di fatto, sebbene una ridotta minoranza di musulmani aderisse alla causa dell'estremismo islamista, l'Isis faceva leva sulla religione quale leva essenziale per raccogliere, sotto la sua "bandiera nera", centinaia di adepti e intrecciare, in nome della fede, alleanze e sinergie sul piano operativo che avessero per obiettivo tanto l'annientamento di credenti ad altre religioni che l'affermazione di un proprio ruolo egemone nell'ambito della galassia musulmana storicamente variegata e composita fra le diverse confessioni. Perci� aveva rinsaldato i suoi rapporti con gli jihadisti di Al Shabaab in Somalia e con quelli di Boko Haram operanti in Nigeria e in vari paesi limitrofi. Nonostante l'offensiva aerea e di terra intrapresa da parte di inglesi, francesi e americani contro l'Isis, per espellerlo dai territori che aveva conquistato in Siria, Iraq e anche in Libia nella zona di Sirte, il Califfato aveva continuato a reclutare numerosi "foreign fighters" fra giovani estremisti islamici europei. E, dato che erano in grado di agire come "pesci nell'acqua", essi costituivano la minaccia pi� grave. D'altronde non si era giunti in sede comunitaria a stabilire un coordinamento sistematico dei diversi servizi d'intelligence. Nel frattempo avevano mostrato sempre pi� la corda i modelli d'integrazione/assimilazione invalsi in Francia e Gran Bretagna nei riguardi delle diverse comunit� etniche e religiose presenti entro il proprio territorio, in particolare di quelle di fede musulmana. Mentre le loro prime generazioni, pur continuando a professare il proprio credo, avevano finito per accettare e condividere i principi politici e le norme civili del paese in cui s'erano insediate e che aveva dato loro modo di migliorare il proprio tenore di vita, molti elementi pi� giovani s'erano mostrati tutt'altro che disposti a compiere lo stesso percorso. N� era stato unicamente il fatto di aver incontrato crescenti difficolt� di occupazione o di essere rimasti emarginati negli squallidi anfratti delle periferie urbane, a spingerli verso posizioni estremiste. Anche l'influenza e gli appelli alla resilienza e a un assoluto antagonismo del Califfato avevano contribuito alla loro radicalizzazione. Perci� era venuta meno in Francia la capacit� d'inclusione all'insegna dei principi e valori laici e democratici che stavano alla base della cittadinanza e dell'appartenenza alla comunit� nazionale. A sua volta, il paradigma del multiculturalismo, che avrebbe dovuto assecondare in Gran Bretagna la formazione di una societ� multietnica, sulla scia dell'universalismo coloniale d'un tempo dell'Union Jack, aveva finito per dare luogo in pratica a una sorta di atomizzazione e tribalizzazione della societ�. E ci� in seguito alla tendenza, soprattutto da parte della comunit� islamica, a costituire delle enclaves autoreferenziali in conformit� ai propri esclusivi codici normativi e ai precetti delle scuole coraniche, alla stregua di altrettante monadi separate dal resto della societ�. Di conseguenza s'erano venute cos� incrinando le fondamenta di un sistema giuridico e istituzionale basato su regole omogenee e uniformi, proprie di uno Stato liberale e di diritto. Di fronte alle crescenti difficolt� di integrazione delle componenti di matrice islamica in base ai parametri in auge o comunque declinati sino ad allora, sarebbe stato indispensabile, a maggior ragione, far conto su una ripresa in forze dell'economia che servisse sia a ridurre le diseguaglianze sociali e ad allentare le tensioni, sia a rafforzare le basi e le credenziali delle istituzioni politiche. Senonch�, mentre erano ancora tangibili e tutt'altro che in via di superamento le conseguenze della Grande crisi provocate dall'overdose di finanziarizzazione e deregulation dell'economia, stentavano ad affermarsi concrete misure e soluzioni che segnassero la transizione verso un capitalismo sostenibile e responsabile al servizio della collettivit�. E tale quindi da accrescere le opportunit� di lavoro e i livelli di istruzione, nonch� da garantire la qualit� della vita e la salvaguardia dell'ambiente. Nell'ambito dell'Eurozona era stata infine la Bce a varare all'inizio del 2015, con il quantitative easing, una politica di espansione monetaria, con l'intento sia di agevolare la ristrutturazione dei debiti sovrani dei paesi pi� in affanno, sia di riavviare il motore dell'economia tramite la messa in circolazione di una maggiore liquidit�. Ma occorreva che da Bruxelles si allentassero nel contempo i lacci dell'austerit�, che risultavano incongruenti in una fase di persistente recessione e aggravavano i problemi di disoccupazione con devastanti effetti sociali, dato che si contavano ufficialmente pi� di venti milioni di persone senza lavoro, soprattutto fra i giovani. Affinch� l'Europa dell'euro desse concreti segni di ripresa e vitalit�, ogni suo partner avrebbe dovuto naturalmente fare la propria parte: chi, impegnandosi nel compimento di alcune riforme strutturali; chi, non limitandosi a difendere determinate "rendite di posizione". Tuttavia, spettava in primo luogo alla Germania, alla sua classe dirigente, rivedere il suo atteggiamento di ermetico rigorismo contabile, basato su parametri concepiti vent'anni prima in ben altra situazione. Si trattava, in sostanza, di elaborare una strategia di sistema che coniugasse stabilit� finanziaria, crescita economica ed equit� sociale. Si spiega pertanto come l'Europa, sfibrata da una lunga recessione e sempre pi� sfilacciata sul piano politico e sociale, prestasse il fianco alle trame dell'Isis. In particolare, la Francia continuava a essere il "ventre molle" per i suoi attacchi nel Continente, in quanto a Parigi c'erano vari agenti dell'Isis sotto copertura e decine di volontari disposti a colpire. Inoltre il Belgio costituiva una sede logistica a portata di mano per una rete di collegamenti e intermediazioni. La strage perpetrata nel novembre 2015 nella capitale francese, in una discoteca affollata di giovani, segn� non solo una recrudescenza del fanatismo jihadista ma rese evidente il fatto che l'Isis era sempre pi� in grado di avvalersi in Europa di una vasta organizzazione composta da alcuni imam di moschee d'ispirazione fondamentalista, reclutatori e addestratori, "cellule in sonno" e vari affiliati, ma anche di numerosi "lupi solitari" convertitisi alla sua causa. Inoltre disponeva di un complesso di servizi per la contraffazione di documenti d'identit� e l'acquisizione di armi ed esplosivi procurabili attraverso alcuni gruppi della criminalit� locale. Il successivo sanguinoso attentato nel marzo 2016 all'aeroporto di Bruxelles, eseguito da alcuni kamikaze e ordito da un nucleo di mandanti poi individuati, conferm� ulteriormente il fatto che ci si trovava a misurarsi con una strategia terroristica concepita e programmata dal Daesh con finalit� palesemente eversive e destabilizzanti. Nel frattempo gli atti di violenza e prevaricazione nei riguardi di numerose donne avvenuti la notte di Capodanno a Colonia e in altre citt� tedesche, per opera di vari gruppi di giovani immigrati, avevano allarmato l'opinione pubblica in Germania. E messo in difficolt� il governo, in quanto la Cancelliera aveva enunciato ad agosto che il suo paese, dopo aver gi� dato ospitalit� a centinaia di migliaia di profughi dal Medio Oriente, avrebbe continuato ad aprire le porte, sino a un milione di persone, a quanti fuggivano dai teatri di guerra, in particolare ai siriani. Ma adesso si temeva che fra di loro s'infiltrassero dei militanti dell'Isis. E queste apprensioni avevano alimentato l'udienza di un partito della destra nazionalista come Alternative f�r Deutschland, e indotto inoltre alcuni esponenti dei partiti di maggioranza a chiedere che si ponesse un freno alla politica dell'accoglienza. Intanto l'effetto di maggior portata e pi� eclatante prodotto dall'offensiva jihadista era consistito nella rincorsa alla chiusura, una dopo l'altra, delle proprie frontiere da parte della Croazia, della Macedonia, della Serbia, dell'Ungheria, della Repubblica Ceca, della Slovenia e dell'Austria. S'era cos� bloccata la rotta anatolico-balcanica attraverso cui affluivano verso il nord Europa le correnti migratorie dal Medio Oriente e dal Sud-est asiatico, che approdavano in Turchia e in Grecia, quali prime tappe del loro itinerario. Nel contempo vennero sospesi, a cominciare dai paesi dell'Est, gli accordi di Schengen che consentivano la libera circolazione delle persone nell'ambito della Ue. Di conseguenza, una parte dell'Europa and� rinserrandosi dietro una selva di controlli sempre pi� rigidi lungo i percorsi dell'esodo pi� battuti. Ma pure altrove (dalla Francia alla Danimarca, ai paesi scandinavi) si adottarono da allora, sulla spinta dei movimenti populisti ma anche delle paure sempre pi� diffuse per l'afflusso di extracomunitari, norme e misure restrittive, quando non si eressero delle autentiche barriere a presidio delle proprie frontiere. Si venne perci� riversando sull'Italia una vasta corrente di migranti, in quanto a quella in corso dai paesi del Maghreb e sub-sahariani s'era aggiunta gran parte di quella proveniente dal Medio Oriente e dal Corno d'Africa. Si trattava di una moltitudine di gente, fra profughi per motivi politici e migranti per motivi economici, il cui itinerario dai luoghi d'origine a quelli d'imbarco era gestito da schiere di loschi e spietati trafficanti, in combutta spesso con le autorit� locali. N� era stato sufficiente il contributo assicurato da altri paesi della Ue alla Marina italiana, in fatto di uomini e mezzi navali, per soccorrere e salvare molte vite di quanti naufragavano, nelle acque del Canale di Sicilia, dalle fragili imbarcazioni in cui venivano ammassati a forza da gruppi di scafisti avidi quanto brutali. Per il resto, la Commissione di Bruxelles non era giunta a far valere le disposizioni che pur aveva annunciato per un'equa ripartizione proporzionale dei migranti aventi diritto d'asilo fra i vari paesi della Ue. Di fatto, quelli dell'Est, che pur avevano beneficiato largamente dei fondi strutturali europei, erano riluttanti a metterle in pratica, e altri governi nicchiavano. Perci�, in base alle norme vigenti, ai paesi di primo approdo dei migranti spettava provvedere alla loro ospitalit� e assistenza materiale: anche se gran parte di loro intendevano raggiungere la Germania, la Svezia e altre m�te del nord Europa. D'altronde l'accordo siglato nella primavera del 2016 da Bruxelles con Ankara, patrocinato e sostenuto in primo luogo dal governo tedesco, contemplava che la Turchia (dietro un compenso di sei miliardi di euro) trattenesse sul proprio territorio i profughi siriani e altri migranti che premevano sulle porte dell'Europa. Di conseguenza, il flusso migratorio extracomunitario, pi� che verso le isole di un paese privo di adeguate risorse e fortemente impoverito come la Grecia, s'era dirottato verso le sponde della Sicilia e di altre regioni del Sud. Ed era evidente che, di questo passo, il compito addossato all'Italia sarebbe divenuto altrettanto esorbitante che ingiustificato. Tanto pi� che anche Vienna aveva chiuso in pratica la sua frontiera al Brennero e Parigi aveva fatto lo stesso a Ventimiglia. In Gran Bretagna la questione degli immigrati di matrice islamica residenti nel proprio territorio (per lo pi� originari del Pakistan, del Bangladesh e di altri ex possedimenti coloniali), alcuni dei quali implicati in attentati falliti o sospettati di connivenza con l'Isis, era assurta a uno dei principali temi del dibattito nella campagna referendaria sulla permanenza o meno del Regno Unito nell'Unione europea. Londra aveva considerato da sempre la Ue soprattutto uno spazio di mercato, di liberi scambi commerciali e movimenti di capitale, e non gi� una comunit� che avrebbe dovuto conseguire, insieme all'integrazione economica, quella politica. D'altronde, se aveva conservato con la sterlina la propria sovranit� monetaria, non partecipava all'accordo di libera circolazione di Schengen e a quello di cooperazione giudiziaria, n� riconosceva la giurisdizione della Carta dei diritti fondamentali della Ue all'interno dei suoi confini. Per il premier David Cameron, che aveva indetto il referendum, l'ipotesi di una Brexit avrebbe dovuto indurre Bruxelles ad accordare a Londra una serie di concessioni in ordine ai contributi finanziari al bilancio della Ue e su altri capitoli. Ma quanto riusc� a ottenere a questo riguardo in sede negoziale non era bastato a neutralizzare la disaffezione di tanti suoi connazionali verso la Ue: anche perch� di fronte all'emorragia economica e all'esaurirsi della spinta propulsiva dell'Europa continentale, aveva ripreso fiato e vigore il tradizionale isolazionismo britannico, all'insegna dello "splendido isolamento" d'altri tempi. D'altronde vari esponenti conservatori ma pure laburisti non erano pi� immuni da questo genere di suggestioni. Sebbene gli ambienti economici e i principali quotidiani si fossero impegnati affinch� la Gran Bretagna restasse nell'Unione europea, era cos� prevalsa, nel verdetto uscito dalle urne il 23 giugno, la causa del divorzio, patrocinata dall'Ukip di Nigel Farage e votata dalla maggioranza dell'elettorato, in particolare nelle periferie urbane e nei centri minori delle contee. Che si fosse trattato o meno di una scelta sbagliata, sta di fatto che la Comunit� europea aveva perso, con la Brexit, una delle sue principali componenti e s'era perci� indebolita nel quadro internazionale. Per di pi� molte cose stavano cambiando nelle relazioni con gli Stati Uniti, dato che risultava sempre pi� difficile la conclusione dei negoziati in corso da quattro anni per il varo di un trattato di libero scambio transatlantico. Per alcuni governi europei, le clausole poste da Washington avrebbero finito per avvantaggiare i produttori e i consumatori americani. A ogni modo, per gli Usa l'area del Pacifico costituiva uno scacchiere decisamente pi� importante per la politica economica ed estera americana, dato il confronto in corso con la Cina. Ma non erano soltanto le incertezze riguardanti il futuro dei rapporti con gli Usa a offuscare gli orizzonti della Ue. Oltre al protrarsi della guerra civile in Siria, che coinvolgeva fra i suoi diversi comprimari (oltre a russi e americani) anche francesi e inglesi, e che era divenuta sempre pi� un autentico calvario per la popolazione di Aleppo, la Comunit� europea aveva a che fare con le conseguenze della controversia insorta fra Kiev e Mosca per l'annessione russa della Crimea avvenuta nel marzo 2014. Poich� essa era sfociata nell'adozione, di concerto con Washington, di severe sanzioni economiche nei confronti del Cremlino, risultanti alla lunga particolarmente pesanti per le esportazioni dei paesi dell'Eurozona. Inoltre, sebbene si trattasse di fronti lontani dall'Europa, non potevano essere sottovalutati, in un mondo sempre pi� interconnesso e caratterizzato da conflitti locali meno controllabili d'un tempo, anche i dissidi insorti nel Sud-est asiatico in seguito alle rivendicazioni di Pechino su gran parte delle acque territoriali del Mar Cinese Orientale e Meridionale, che interferivano con i diritti di sovranit� di Filippine, Indonesia e Malaysia. Il fatto che su alcuni atolli i cinesi avessero allestito delle piste utilizzabili da aerei militari aveva suscitato il timore che essi volessero servirsene per impiantare delle basi missilistiche. Per giunta, a tenere in agitazione l'Estremo Oriente, soprattutto la Corea del Sud e il Giappone, era la Corea del Nord, giunta a sperimentare in segreto una bomba all'idrogeno e intanto a lanciare dei missili a lunga gittata, cos� da minacciare i paesi circostanti. Altrettanto preoccupante era l'aggressivit� economica della Cina, che, volendo tornare a marciare a un passo spedito (come era avvenuto sino a poco tempo prima), stava cercando di accrescere al massimo le sue esportazioni ricorrendo al dumping e ad altri espedienti. Di fatto, per via della sua sovrapproduzione largamente eccedente il proprio fabbisogno interno e quindi riversata sui mercati a prezzi stracciati, essa aveva posto in crescenti difficolt� alcuni importanti settori dell'industria europea. E ci� proprio quando Pechino pretendeva che l'Unione europea riconoscesse alla Cina lo status di un'economia di mercato a tutti gli effetti. Considerando che altri paesi asiatici avevano spinto all'eccesso alcune loro produzioni, s'imponeva perci� l'esigenza di una regolamentazione appropriata e condivisa dei traffici commerciali: altrimenti l'Europa, per non venire surclassata, avrebbe dovuto prima o poi alzare barriere doganali protezionistiche. In questo contesto gi� di per s� intricato e denso di incognite il terrorismo era tornato a colpire. Nella strage avvenuta ai primi di luglio del 2016 a Dacca, la capitale del Bangladesh, ci avevano rimesso la vita, fra gli altri, anche nove italiani su venti ostaggi uccisi in un ristorante dagli jihadisti. Ancor pi� orrendo era stato il massacro perpetrato il 14 luglio a Nizza da un militante neo-convertito dell'Isis, che aveva provocato oltre un'ottantina di vittime. Si erano cos� dilatate le paure e le inquietudini mentre la lotta al terrorismo aveva posto, in termini stringenti, nell'ambito di un'Europa assediata dalle incursioni dell'Isis, il dilemma fra il rispetto dei principi individuali di libert� e le esigenze collettive di sicurezza. A sua volta il fallito colpo di Stato, pochi giorni dopo in Turchia, era stato sfruttato dal presidente Recep Erdogan (leader del partito per la Giustizia e lo Sviluppo al potere dal 2002) per avviare una gigantesca "purga" dei quadri militari e di decine di migliaia di esponenti della magistratura, della pubblica amministrazione, del mondo della stampa, dell'universit� e delle professioni; nonch� per intensificare le misure repressive contro la minoranza curda. Si era cos� instaurato ad Ankara un regime autoritario di carattere personale senza pi� veli di sorta, all'insegna di una saldatura fra nazionalismo e tradizionalismo religioso, a scapito delle libert� civili e della laicit� dello Stato. Inoltre l'accusa agli Stati Uniti di aver appoggiato dietro le quinte la sedizione degli avversari del "Sultano" di Ankara e il tentato putsch di alcuni capi militari aveva portato quasi a un punto di rottura i rapporti con Washington. Nel contempo Erdogan aveva minacciato Bruxelles di stracciare il "contratto" stabilito pochi mesi prima sul blocco alle sponde del Bosforo dei flussi migratori diretti verso il Nord Europa. Oltretutto, se per la Nato l'esercito turco era dislocato in un settore geopolitico strategico, per l'Europa la Turchia era un mercato di oltre 80 milioni di persone. Di qui il forte potere di ricatto che Ankara era in grado di esercitare, anche perch� Erdogan aveva riallacciato, fin da subito, i rapporti con Mosca, dopo che l'abbattimento nel novembre 2015 di un caccia russo sul confine siriano aveva rischiato di innescare un conflitto. Questo riavvicinamento aveva giocato peraltro a tutto vantaggio di Putin, che, essendo stato il primo a dichiararsi solidale con il presidente turco la notte del golpe, aveva ottenuto che Ankara accettasse lo stato di fatto in Siria (non reclamando pi� per il momento l'uscita di scena di Assad), rilanciato il progetto del "Turkish Stream" (il gasdotto russo da realizzare entro il 2019 per aggirare cos� l'Ucraina), e avuto inoltre precise assicurazioni che la Turchia non avrebbe chiuso gli stretti sul Mar Nero alla flotta di Mosca di base in Crimea. E se Erdogan non avrebbe potuto comunque fare a meno, volente o nolente, degli Stati Uniti, ben diversamente era in grado di agire con la Ue, dato che poteva riaprire la strada ai migranti verso l'Europa e inoltre rinfacciare a Bruxelles il fatto che la Turchia continuava a essere in attesa (dal 1987) di venire ammessa nella Ue: anche se adesso l'inclusione di un regime che aveva violato i diritti politici fondamentali e intendeva ripristinare la pena di morte risultava del tutto incompatibile con lo statuto della Comunit� europea. Di fatto, mai come negli ultimi tempi s'� accumulato nell'ambito della Ue un groviglio di problemi cos� gravi e ineludibili di ordine politico, economico e sociale. E mai in precedenza � apparsa cos� evidente la mancanza di un autentico spirito comunitario, di saldi rapporti di fiducia reciproci fra i suoi partner. Al punto da chiedersi se stiamo assistendo al crepuscolo dell'Unione europea. Oltre ad essersi ormai dissolta la prospettiva originaria di un'integrazione politica su base federale, si sono approfondite le divisioni intraeuropee ed � in corso un processo di rinazionalizzazione, mentre stanno guadagnando sempre pi� terreno e consensi, in un clima di marcato euroscetticismo, i movimenti populisti contrari alle istituzioni europee. Senonch� la politica di stretta austerit� perseguita con ostinazione, sia pur con qualche temporaneo allentamento, dalla Germania e dai paesi "pi� virtuosi", all'insegna dell'assunto tolemaico del pareggio annuale di bilancio, ha penalizzato in complesso l'economia dell'Eurozona, provocato un'ingente disoccupazione, determinato l'impoverimento del ceto medio e il rischio di una crescente polarizzazione della societ�. Perci�, nel tentativo non solo di bloccare lo choc dei debiti sovrani ma di rianimare un'economia altrimenti esangue, la Bce era ricorsa, dall'inizio del 2015, al quantitative easing, tuttavia, la creazione di nuove risorse, attraverso l'incremento delle emissioni di liquidit� (programmato sino al marzo 2017), affinch� le banche la convertissero in prestiti a bassi costi a imprese e famiglie, non ha dato finora i risultati che si speravano. Dopo quasi due anni di una cura monetaria espansiva, l'economia non � ripartita, la produzione � pressoch� al palo, i consumi sono per lo pi� fermi anche perch� la gente, preoccupata del futuro, sta tornando a risparmiare. E, con i tassi d'interesse sotto zero, numerose banche si trovano in forte difficolt�. � vero che anche in altri paesi avanzati si riscontrano analoghe tendenze al ribasso della crescita, ma non cos� accentuate come in Europa. Inoltre la persistenza di una governance vincolata a una rigida politica di austerit� ha finito per indebolire i principali partiti e per restringere i loro spazi d'azione. E per accrescere l'influenza dei movimenti populisti, ancorch� essi non siano in grado di indicare adeguate terapie, se non delle ricette semplicistiche e demagogiche, a cominciare dalla rinuncia tout court all'euro. In pratica, per un rilancio dell'economia europea, occorreva che un paese come la Germania con un debito sostenibile e un notevole surplus commerciale promuovesse innanzitutto adeguati investimenti pubblici in casa propria, tali da produrre una serie di effetti indotti positivi nell'ambito della Ue. Da anni essa registra un attivo crescente nei suoi scambi di beni e servizi o interessi e dividendi col resto del mondo. Ma questa sua ragguardevole entit� di risorse � rimasta in gran parte immobilizzata, senza tradursi in investimenti nei settori produttivi e nelle infrastrutture. Col risultato che una gran massa di liquidit� non � stata messa in circolazione e non ha concorso perci� a rianimare le economie dei partner della zona euro, nonostante i rischi di stagnazione che l'Europa sta ormai correndo. Oggi, sebbene il governo tedesco sia consapevole del pericolo di una disgregazione di Eurolandia, il fatto che abbia intanto eletto il suo notevole surplus commerciale a simbolo e vanto del dinamismo e dell'efficienza della propria nazione, e le prossime scadenze elettorali dell'autunno del 2017 hanno indotto la Merkel all'immobilismo, a non cambiare rotta, e a preoccuparsi piuttosto del problema dell'immigrazione, divenuta frattanto la sfida pi� difficile e insidiosa per Berlino. Quantunque la Cancelliera abbia scongiurato, tramite l'accordo con Erdogan, l'afflusso di altri migranti attraverso la rotta balcanica verso la Germania, i dirigenti del suo partito e quelli della Spd si sono infatti resi conto che occorre un periodo di almeno cinque anni (tra apprendimento della lingua tedesca e acquisizione di appropriate cognizioni professionali) per integrare effettivamente nell'ambito della societ� e nel mondo del lavoro i profughi aventi diritto d'asilo. Inoltre l'avanzata nelle recenti elezioni in alcune regioni e a Berlino di Alternative f�r Deutschland ha rivelato che una quota crescente di cittadini sta orientandosi verso la destra nazional-populista. In questo contesto e di fronte ad altri cruciali appuntamenti elettorali (come quelli in Francia e in Olanda) l'Europa appare intrappolata in una palude politica ed economica. Se i partiti moderati sono per lo pi� arroccati sulle loro posizioni, senza un cambiamento di passo, quelli socialdemocratici e progressisti vivono da tempo un declino elettorale che sembra inarrestabile e sono comunque per lo pi� privi di nuove idee e suggestioni dinanzi agli effetti pervasivi della globalizzazione e della rivoluzione digitale che hanno provocato nella classe media crescenti timori di un declassamento sociale e perci� un'ondata di angosce e insicurezze. D'altronde la Germania � irremovibile nel presidiare la politica dell'austerity perch� teme di pagare il conto delle spese altrui. Eppure i tedeschi dovrebbero comprendere che, senza una politica fiscale comune, basata su un sistema bilanciato di aiuti reciproci nelle fasi pi� difficili e un sistema di assicurazioni a livello europeo sulla disoccupazione, alla lunga l'euro non sarebbe pi� sostenibile. Per giunta non si pu� pi� gestire il flusso migratorio (che ha finito per riversarsi in gran parte sulla rotta mediterranea verso le coste italiane), senza l'attuazione degli accordi che contemplavano il collocamento dei profughi aventi diritto d'asilo fra i diversi paesi della Ue, e senza un piano di aiuti economici mirati ai paesi di maggiore provenienza degli immigrati per trattenerli cos� in patria con opportunit� concrete di formazione e di lavoro. Se poi si considera che non si � giunti tuttora a elaborare una linea di condotta omogenea in politica estera, n� in tema di sicurezza, risulta evidente perch� l'Europa continua, da un lato a essere emarginata di fatto dai pi� importanti processi decisionali in sede internazionale e, dall'altro, a essere esposta all'offensiva del terrorismo islamista. Di qui il pericolo incombente di una disgregazione dell'Unione europea a causa, appunto, della combinazione di tante circostanze endogene ed esogene che stanno incrinando le sue fondamenta e mettendo in discussione la sua ragion d'essere. Cosa ci rende felici? (di Jan Delhey, "Psicologia contemporanea" n. 218/10) - Davvero viviamo in un'epoca "post-materialista"? Non parrebbe, a giudicare dagli sconvolgimenti economici degli ultimi anni. Anche nella presunta societ� dell'abbondanza denaro e propriet� rimangono importanti per il nostro benessere, soprattutto per chi non ha un grosso conto in banca. E tuttavia tornano in primo piano anche i vecchi valori immateriali, a cominciare dalla famiglia. - Le ricerche degli ultimi vent'anni hanno portato alla luce molte cose sulla felicit� e le sue condizioni. Ad esempio, dagli studi sui gemelli sappiamo oggi che i geni e la personalit� vi contribuiscono in grande misura. Ognuno di noi, attraverso una sorta di lotteria biologica, ha una disposizione individuale a essere tendenzialmente pi� felice o infelice, soddisfatto o insoddisfatto. Una disposizione, tuttavia, non � altro che una disposizione, e il benessere soggettivo � influenzato anche dalle circostanze di vita. Sappiamo bene di che cosa si tratta: una stabile vita di coppia, amicizie, una rete di sostegno sociale, un lavoro soddisfacente, attivit� appaganti nel tempo libero, ma anche un reddito adeguato e un corrispondente standard di vita. Analoghe regole empiriche valgono per il confronto fra societ� diverse, considerate nel complesso. Ai primi posti in graduatoria ci sono i paesi dove troviamo riunite quanto pi� possibile queste caratteristiche: un alto livello di libert� politica, parit� fra i sessi, un clima di fiducia reciproca, benessere materiale. Il sociologo finlandese Erik Allardt riassume tutto ci� in una formula incisiva: having, loving, being, avere, amare, essere. Quanto pesi la prima voce, il possesso materiale, nel livello complessivo di felicit�, � oggetto di vivaci discussioni. Il denaro rende felici: questo vale ancora nei paesi ricchi, o l� il materialismo � superato da tempo? Informazioni interessanti si ricavano dai sondaggi in cui si chiede agli intervistati di indicare (ad esempio, su una scala da 1 a 10) quanto siano soddisfatti della vita che stanno conducendo. Da queste ricerche demoscopiche su scala planetaria risulta che al vertice della graduatoria si collocano danesi e svizzeri, mentre agli ultimi posti troviamo (con buone ragioni) ucraini, iracheni e abitanti dello Zimbabwe. I sondaggi mostrano inoltre che l'equivalenza denaro=felicit� vale soprattutto per i paesi in via di sviluppo, mentre � pi� labile nei paesi ricchi. I dati che lo dimostrano sono sostanzialmente tre. Anzitutto, distribuendo la popolazione di un paese in base al reddito (reddito pro capite globale), vediamo che i ricchi sono in generale pi� soddisfatti dei poveri, anche se la differenza � meno marcata in societ� come la Germania rispetto a paesi come quelli dell'Europa orientale o del Sudest asiatico, dove i ricchi manifestano un livello soggettivo di benessere molto superiore ai concittadini poveri. Probabilmente ci� � dovuto al fatto che l� la povert� � qualitativamente diversa, compromettendo molti bisogni elementari, e si avvicina pericolosamente al livello di povert� assoluta. C'� poi un secondo dato interessante. Se mettiamo in relazione il livello di benessere materiale delle popolazioni con il livello soggettivo di soddisfazione, otteniamo una chiara correlazione positiva: nelle societ� del benessere gli individui sono in media pi� soddisfatti. Ci sono tuttavia eccezioni, ad esempio in America latina, dove il barometro della felicit� segna valori pi� alti di quanto farebbe pensare il reddito pro capite: altro indizio che il denaro non � tutto. Di regola le popolazioni pi� ricche sono comunque pi� soddisfatte, cosicch� nessuno dei paesi occidentali fa registrare valori particolarmente bassi nel livello soggettivo di soddisfazione. Ma la crescita non � lineare: la curva della correlazione fra benessere materiale e "felicit�" � ripida nella fascia a basso reddito, mentre si appiattisce nei livelli superiori. Ci� significa che in un paese povero un aumento dello standard di vita produce una significativa crescita del benessere soggettivo, mentre in un paese ricco il vantaggio si avverte di meno. Gli economisti parlano a questo proposito di riduzione dell'utilit� marginale del denaro. Infine, negli ultimi trent'anni gli abitanti dell'Europa occidentale non risultano essere diventati pi� felici, bench� la storia economica parli di un'esplosione del benessere, che si esprime in abitazioni sempre pi� ampie, auto pi� lussuose, viaggi all'estero, cene al ristorante, grandiosi impianti audio e video, ecc.. Negli Stati Uniti e in Giappone, dove i dati demoscopici permettono di risalire indietro fino agli anni '50, vediamo che la curva della felicit� � rimasta piatta. Cresce quindi la ricchezza, ma non la soddisfazione per le proprie condizioni di vita. Le interpretazioni del fenomeno sono diverse. Secondo alcuni, la colpa � delle pretese crescenti dei consumatori, efficacemente stimolate da una macchina del marketing sempre pi� professionalizzata. Questa interpretazione significherebbe che nelle societ� opulente le persone rimangono fondamentalmente materialiste, e proprio per questo cadono nella trappola del consumismo: come topolini in gabbia, ci affatichiamo per accumulare cose materiali, senza per questo diventare pi� felici. Una lettura del tutto diversa dell'andamento orizzontale della curva, per quanto riguarda la percezione soggettiva di benessere e soddisfazione, sottolinea invece il calo del materialismo: una volta assicurati i bisogni fondamentali, un benessere aggiuntivo non porta grandi vantaggi. Maggior benessere non produce automaticamente maggiore felicit�. Sullo sfondo di questi dati, non sorprende che nelle concezioni psicologiche della felicit� non compaiano pi� cose come il denaro o lo standard di vita. Al loro posto nelle definizioni del benessere psicologico oggi troviamo aspetti come autonomia, sviluppo della personalit�, accettazione di s�, competenza e relazioni sociali. L'importanza di questi fattori � incontestabile. Resta il fatto che per la maggior parte dell'umanit� le condizioni materiali di vita si ripercuotono nella realt� quotidiana, l� dove il benessere personale dipende fortemente dal portafoglio, come in Cina, in Russia o in Bulgaria. Ma neppure in un paese come la Germania il fattore "having" pu� essere totalmente eliminato dalla formula tripartita della felicit�. Come dimostrano studi recenti dell'istituto tedesco di ricerca economica, il fattore denaro finora � stato sottovalutato. La ragione � che i questionari rilevano per lo pi� il reddito del mese o dell'anno in corso. Questo valore tuttavia � soggetto a forti oscillazioni, e il nostro comportamento risente molto di pi� delle entrate continuative, cio� dell'ambito finanziario entro cui siamo abituati a muoverci nel corso degli anni. Se si introduce questo dato, vediamo che la soddisfazione per le proprie condizioni di vita � chiaramente stratificata in base al livello di reddito. In altre parole, il denaro offre una certa sicurezza, ma solo se affluisce regolarmente nel nostro conto in banca. Un quadro simile si ottiene se invece del reddito si considera la situazione patrimoniale. A parte le vincite alla lotteria o una grossa rapina in banca andata a segno, il patrimonio mobiliare e immobiliare � molto meno oscillante del reddito, e distribuito socialmente in maniera molto pi� ineguale: si pensi che circa met� dei tedeschi non possiede praticamente nulla. Considerati insieme, reddito e patrimonio hanno un'influenza nettamente maggiore sulla sensazione soggettiva di benessere. Il possesso libera non da tutte, ma da molte preoccupazioni quotidiane, come dimostrano anche recenti ricerche australiane. Riassumendo possiamo dire che il fattore "having", consumi, reddito e patrimonio, anche nelle societ� ricche ha una parte pi� importante di quanto supposto finora, ai fini della percezione soggettiva di benessere. Ci� non significa che sia pi� importante di "loving" o "being" come ingrediente della felicit�, ma certo il denaro non � secondario e in ogni caso � troppo importante per escluderlo del tutto dalla formula. Gli studi citati finora mostrano soprattutto come si distribuisce nella popolazione il livello di benessere soggettivo. Altra cosa � la questione del materialismo: qui si tratta non dell'effetto esercitato dalle cose materiali, ma del valore che � loro attribuito. Una via per affrontare questo aspetto � studiare le correlazioni fra l'indice globale di soddisfazione per le proprie condizioni di vita e gli indici settoriali. Questi ultimi riguardano il livello soggettivo di soddisfazione in aspetti particolari dell'esistenza, ad esempio il reddito o la situazione familiare. Qui non si tratta pi� di condizioni oggettive, ma di come il soggetto percepisce e valuta la propria situazione. In che misura la soddisfazione per la propria situazione di vita dipende dalla soddisfazione per la propria condizione economica? E in che misura vi contribuiscono invece aspetti post-materialisti come la famiglia o il contesto sociopolitico? Per capirlo ho preso in esame i dati di due sondaggi comparativi su scala planetaria: il World Values Survey (WVS) del 2005, un progetto di ricerca internazionale sul cambiamento di valori e atteggiamenti, e il Pew Global Attitudes Project, un sondaggio del 2002 su atteggiamenti politici di significato globale. Entrambi i rilevamenti sono stati condotti in oltre 40 paesi diversi, che coprono l'intero spettro dello sviluppo economico, dalla miseria assoluta all'abbondanza, il reddito pro capite in USA � 40 volte quello di Zambia o Etiopia. La domanda �: davvero nelle societ� del benessere le persone danno meno importanza ai valori materiali? La risposta �: s� e no. Vediamo anzitutto cosa fa propendere per il no. Contrariamente alle aspettative, nei paesi ricchi la soddisfazione per la propria situazione economica non influisce sulla felicit� generale meno che nei pasi poveri. � vero che i dati del WVS mostrano una correlazione decrescente, via via che si passa dai paesi in via di sviluppo alle societ� opulente, ma � una correlazione statisticamente non significativa, che pu� dipendere da variazioni casuali. Anche nel Pew Project non emerge nessun calo di materialismo dai paesi poveri a quelli ricchi. Non sembra quindi che il peso relativo dei fattori economici diminuisca automaticamente con il crescere del benessere. Guardando pi� da vicino, per�, si vede qualcosa di diverso: � nel Sudest asiatico e in Europa orientale che la soddisfazione economica equivale praticamente alla soddisfazione globale per la propria situazione di vita. Quei paesi stanno attraversando in un tempo limitato potenti rivolgimenti economici, spesso con il passaggio anche ideologico dall'economia socialista pianificata all'economia di mercato. L'impressione che se ne ricava � che non siamo noi occidentali ad avere un atteggiamento post-materialista (basti dire che sotto questo profilo non c'� grande differenza fra Europa occidentale e Africa sub-sahariana), ma sono piuttosto gli abitanti dell'Europa dell'est e dell'Asia sudorientale quelli che attribuiscono un'importanza quasi esclusiva ai valori materiali. Per quanto tempo durer� in quei paesi questo materialismo esasperato � da vedere. Probabilmente, quando l'economia di mercato sar� pi� matura, il consumismo si raffredder� e si normalizzer�, tornando a una pi� equilibrata consonanza di "having, loving, being". Prendiamo ora in considerazione uno degli aspetti particolari in cui si articola la valutazione dell'esistenza in termini non materialisti: la percezione soggettiva della propria autonomia. Considerata oggi una parola chiave delle societ� postindustriali, consiste nella libert� di decisione, nella possibilit� di organizzare liberamente la vita e di scegliere percorsi individuali. In effetti, nelle societ� ricche le persone si sentono pi� libere rispetto alle popolazioni che occupano le fasce media e inferiore nella scala del benessere. Solo che come fattore di felicit� l'autonomia di vita non � da noi pi� importante che in altre parti del globo. Ancora una volta sono i cittadini dei paesi ex-socialisti quelli che attribuiscono all'autonomia il massimo valore, presumibilmente per reazione ai lunghi anni di oppressione e tutela di regime. In Occidente, troviamo chiari segni di valori post-materialisti non tanto nel bisogno di autonomia e libert�, quanto nel valore attribuito alla famiglia. Nelle societ� del benessere, la felicit� sembra dipendere molto dalla soddisfazione per la propria vita familiare. La ricerca comparata ci dice infatti che le popolazioni dei paesi ricchi traggono da questi aspetti del tutto privati dell'esistenza una gratificazione maggiore rispetto ai popoli pi� poveri. Riprendendo la formula tripartita della felicit�, nel mondo occidentale assume maggior peso il fattore "loving". Questa tendenza emerge con grande chiarezza dal confronto dei dati raccolti con i sondaggi internazionali. In conclusione, cosa ci dice la ricerca comparativa sulla felicit�? Anzitutto che anche nelle societ� affluenti c'� una correlazione fra ci� che si possiede e la sensazione di condurre una vita felice. Inoltre, che c'� sempre una stretta correlazione fra il livello di soddisfazione per il proprio reddito e la soddisfazione generale per il genere di vita che si conduce, da noi come nell'Africa subsahariana. Ma quanto siamo soddisfatti del nostro reddito � questione di desideri e pretese, che possono essere altissime o modeste. Ne consegue che non esiste affatto una decisa tendenza verso una concezione post-materialista della felicit�. Il denaro � ancora importante per noi e per il nostro benessere. In questo hanno ragione i critici del consumismo, anche se non � il caso di esagerare: quanto a materialismo siamo lontanissimi dalle economie di mercato emergenti, come Russia o Cina. Quello che i critici non considerano � la relativa perdita d'importanza del fattore "having" a favore del "loving". Oggi, a quanto pare, ricaviamo pi� felicit� dalla vita familiare. Se questo dovesse rappresentare il nocciolo della felicit� post-materialista, non si tratterebbe di uno sviluppo sgradevole: il denaro rimane importante, ma la famiglia lo � di pi�.