Marzo 2016 n. 3 Anno I Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione Redazione Amministrazione Biblioteca Italiana per i Ciechi 20900 Monza - Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Pietro Piscitelli (Responsabile) Copia in omaggio Stampato in Braille a cura della Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Indice Europa, terra di profughi L'era della (dis)informazione Vincere a tutti i costi Europa, terra di profughi (di Silvia Salvatici, "il Mulino" n. 6/15) Nel dibattito pubblico intorno a quella che viene spesso definita "crisi dei profughi" � piuttosto frequente trovare riferimenti al secondo dopoguerra, indicato genericamente come il precedente storico paragonabile alla congiuntura attuale. I parallelismi fra il repentino intensificarsi del flusso di rifugiati in arrivo nei Paesi europei e i massicci spostamenti di popolazione che ebbero luogo durante il conflitto mondiale, e negli anni immediatamente successivi, entrano in gioco in primo luogo per sottolineare la drammaticit� degli eventi in corso. Significativa, in questo senso, � l'assimilazione dei campi oggi destinati a uomini e donne in fuga dai conflitti del Medioriente con quelli che oltre sessant'anni fa alloggiarono le displaced persons nell'Europa appena liberata, e che in alcuni casi vennero ricavati dai campi di concentramento nazisti. Nelle cronache e nei commenti sono il sovraffollamento, le cattive condizioni igieniche, la precariet� e la temporaneit� dell'assistenza a costituire i termini di paragone fra i campi odierni e quelli del dopoguerra. Un paragone proposto per descrivere attraverso immagini a noi pi� familiari una realt� drammatica e complessa, ma di cui abbiamo iniziato a prendere coscienza solo tardivamente, ossia nel momento in cui la ricerca di asilo di milioni di persone ha riguardato i Paesi europei, ha occupato le prime pagine dei giornali ed � diventata un problema politico sempre pi� urgente per Bruxelles. L'incapacit� dell'Unione europea di affrontare la questione attraverso soluzioni condivise - che non rappresentino solo la risposta immediata alla situazione di emergenza, ma spingano tutti gli Stati membri a compiere un passo in avanti sul piano del riconoscimento sostanziale al "diritto di fuga" - costituisce spesso un ulteriore motivo di confronto fra il presente e il passato. Le critiche rivolte alle istituzioni europee assumono infatti maggior vigore attraverso il paragone fra l'attuale impasse e lo spirito di cooperazione che invece avrebbero dimostrato i Paesi riuniti nella neonata Organizzazione delle Nazioni Unite, che nel 1951 ratificarono la Convenzione sullo statuto dei rifugiati proprio sulla scorta dell'esperienza bellica e postbellica. Da pi� parti si � ricordato che questa Convenzione rappresenta uno dei pilastri su cui ancora si regge il sistema internazionale per i rifugiati, e si � esortata l'Europa di oggi a "re-imparare la lezione del secondo dopoguerra" (si veda, ad esempio, Strangers in Strange Lands, "The Economist", 10-9-2015). Senza dubbio il ricorso ai riferimenti storici � uno strumento efficace, se l'obiettivo � quello di avvicinare al vasto pubblico europeo le questioni connesse alla "crisi dei profughi" facendo appello a un vissuto comune e al ripetersi di un'esperienza certo drammatica, ma gi� positivamente risolta in passato. Allo stesso tempo, proposti senza adeguata contestualizzazione e in maniera un po' impressionistica, i richiami al passato risultano fuorvianti, e finiscono per alimentare una percezione della figura del profugo astratta e sempre uguale a se stessa, inevitabile conseguenza delle "crisi" che segnano la nostra storia. Per sventare il rischio di essenzializzazioni e semplificazioni, � utile guardare al precedente storico cos� spesso evocato - il secondo dopoguerra - cercando di capire che cosa ha rappresentato nella definizione del regime contemporaneo per i rifugiati, oggi messo nuovamente alla prova dal massiccio arrivo di richiedenti asilo sul continente europeo. Senza dubbio il secondo conflitto mondiale e l'immediato dopoguerra videro il pi� massiccio e drammatico movimento di popolazione sperimentato in Europa, all'interno del quale le Nazioni Unite identificarono per� una distinta categoria di profughi di cui erano disposti a prendersi cura. Per loro fu coniata una specifica definizione, quella di displaced persons (DPs). Con questo termine si faceva riferimento a tutti i civili che si trovavano fuori dai confini della propria patria per motivi legati alla guerra, ma solo coloro che provenivano dai Paesi schierati contro le potenze dell'Asse avevano diritto alla protezione e all'assistenza. Quindi la scelta compiuta dal proprio Paese d'origine durante lo scontro bellico giocava un ruolo fondamentale per essere (o non essere) riconosciuti come profughi a cui spettava la tutela internazionale: gli appartenenti alle nazioni avversarie degli Alleati, ora sconfitte, non avevano tale diritto. Questo modo di individuare le displaced persons si poneva in linea di continuit� con i criteri gi� adottati nel primo dopoguerra dalla Societ� delle nazioni (Sdn) con l'introduzione del "passaporto di Nansen", un certificato di identit� che era stato rilasciato ai profughi russi e poi anche agli armeni, agli assiri e ad altre minoranze cristiane provenienti dai territori prima appartenenti all'Impero ottomano. La condizione di profugo attestata dal "passaporto" della Sdn veniva dunque riconosciuta a un insieme di persone individuate in base alla propria nazionalit� e a un evento specifico, come le donne e gli uomini russi fuggiti a causa della rivoluzione e della guerra civile, che furono i primi ad avvalersi del nuovo documento. Nel caso dell'attribuzione dello status di displaced persons, vent'anni pi� tardi, il principio della nazionalit� si congiungeva all'attribuzione di una responsabilit� collettiva, estesa a tutti i membri delle diverse nazioni, per le atrocit� commesse in tempo di guerra. L'esempio pi� significativo di questa modalit� di procedere riguarda l'esclusione dagli aiuti internazionali dei Volksdeutsche, ovvero dei circa 12 milioni di persone di nazionalit� tedesca che dopo la fine della guerra furono espulsi dall'Europa centro-orientale, perch� era la popolazione germanica nel suo insieme, indipendentemente dalle storie dei singoli, ad essere considerata la responsabile per eccellenza della tragedia che si era conclusa con la sconfitta del nazismo. La distinzione fra appartenenti a Paesi nemici o alleati cadeva per coloro che erano stati perseguitati dal nazifascismo per motivi religiosi, politici o razziali: ai persecutees - come venivano chiamati nei documenti - spettavano tutela e assistenza, indipendentemente dalla loro nazionalit�. I criteri stabiliti per l'inclusione o l'esclusione tra i profughi di cui le Nazioni Unite intendevano prendersi cura erano dunque fortemente debitori sia al principio della difesa dei diritti collettivi e della protezione delle comunit� nazionali, sia alla convinzione che aiuto e assistenza dovessero essere erogati seguendo le dinamiche e gli esiti del conflitto, all'interno di un programma umanitario definito dai vincitori. La stessa introduzione della denominazione displaced persons corrispondeva a questo approccio. Hannah Arendt gi� nel 1951 metteva in evidenza gli inganni della terminologia e sottolineava tanto l'incapacit� del sostantivo displaced persons di esprimere la perdita dei diritti di cittadinanza associata alla fuga, quanto l'intenzionale abbandono del termine "apolide", l'unico - a suo parere - in grado di richiamare il senso di tale perdita. "Persino la terminologia � peggiorata", scriveva Arendt ne Le origini del totalitarismo, "il termine "apolide" riconosceva, se non altro, che certi individui avevano perso la protezione del loro governo [...] Il termine postbellico "displaced persons" fu inventato durante la guerra con l'esplicito intento di liquidare una volta per sempre l'apolidicit� ignorandone l'esistenza". Chi erano di fatto le displaced persons, la maggior parte delle quali si trovava nei campi profughi della Germania occupata, e poi ancora in Austria e in Italia? Si trattava prevalentemente di ex deportati ai lavori forzati, provenienti in pi� larga misura dall'Europa centro-orientale e balcanica (sovietici, polacchi, cecoslovacchi, jugoslavi), ma anche dai territori conquistati dal nazismo a occidente (francesi, belgi, olandesi). A loro si univano gli ex deportati per motivi politici o razziali, in primo luogo gli ebrei: all'indomani della guerra questi costituivano per� una minoranza, perch� la macchina della morte nazista non aveva consentito a molti di sopravvivere allo sterminio. Infine, tra le file dei DPs venivano annoverati anche i civili che erano fuggiti verso ovest con l'avanzare dell'Armata rossa: uomini e donne di diversa nazionalit� - in particolare baltici, polacchi, ucraini - in parte fuggiti dagli orrori della guerra, ma soprattutto ostili alle forze di occupazione sovietiche. Subito dopo la Liberazione, le displaced persons vennero presentate al mondo come le vittime per eccellenza della guerra e ad occuparsi di loro fu la United Nations Relief and Rehabilitation Administration (Unrra), l'agenzia intergovernativa istituita alla fine del '43 per volont� soprattutto dell'amministrazione americana, allo scopo di portare - come afferm� Franklin Delano Roosevelt - "assistenza e aiuto per la riabilitazione delle vittime della barbarie tedesca e giapponese". Nelle regioni occupate dell'Europa post-bellica l'Unrra era chiamata a occuparsi dei profughi secondo le condizioni previste dagli accordi stipulati con le autorit� militari alleate, che mantenevano per s� la responsabilit� e il controllo di tutte le operazioni che riguardavano i DPs. Alla popolazione profuga che si addensava al centro del vecchio continente ridotto in macerie non si guardava soltanto nei termini di una questione umanitaria, ma anche di un problema che nell'immediato poteva intralciare il controllo dei territori liberati, e sul lungo periodo andava risolto in sintonia con la definizione di un nuovo ordine internazionale. I profughi, suddivisi per nazionalit�, furono raccolti all'interno di numerosi campi: nel 1946 l'Unrra dichiarava di amministrarne pi� di 800 nelle zone della Germania governate dagli anglo-americani. Il ricorso a questa soluzione si collocava nel solco di una pi� lunga consuetudine all'internamento della popolazione civile, consuetudine nata in ambito coloniale gi� alla fine dell'Ottocento e che in Occidente si era affermata durante il primo conflitto mondiale. Nel secondo dopoguerra la gestione dei profughi attraverso i campi venne per� a inscriversi stabilmente tra le pratiche dell'umanitarismo internazionale, non soltanto per il numero elevato dei centri in cui risiedevano le displaced persons, ma anche perch� furono prodotti documenti programmatici, norme e linee guida che in qualche modo "sistematizzavano" questa procedura. Il ricorso ai campi divent� un fattore costitutivo delle politiche di soccorso rivolte ai rifugiati, poich� ne garantiva l'assistenza e - come si osservava in uno studio condotto per l'Unesco nel 1955 - il "controllo centralizzato". Si veniva cos� a consolidare, tanto nei provvedimenti internazionali di aiuto quanto nell'immaginario collettivo, una sorta di rapporto biunivoco tra il profugo e il campo, come se l'uno non potesse esistere senza l'altro (e viceversa). Il criterio seguito per la divisione della popolazione profuga tra le diverse sedi ad essa assegnate fu quello della nazionalit�, un criterio tutt'altro che scevro di contraddizioni. Ad esplodere rapidamente fu per esempio la questione del tardivo riconoscimento degli ebrei come comunit� distinta, e dunque la loro sistemazione nei campi in base all'appartenenza nazionale. Come denunci� il rapporto redatto nell'agosto del 1945 da Earl Harrison - rappresentante americano dell'Intergovernmental Committee on Refugees - questo non solo esponeva i sopravvissuti alla shoah al rischio di ritrovarsi a fianco dei connazionali che li avevano consegnati ai nazisti, ma significava anche "chiudere un occhio" di fronte alla precedente e pi� barbara persecuzione subita dagli ebrei. La creazione di campi interamente polacchi, o sovietici, o jugoslavi fu pensata come la premessa indispensabile per il programma di rimpatrio. Il rientro a casa di milioni di displaced persons certo sarebbe potuto avvenire solo in maniera graduale, ma doveva rimanere l'obiettivo principale. In effetti i profughi che provenivano dai Paesi occidentali fecero presto ritorno nei loro luoghi d'origine, ma molti di coloro che avrebbero dovuto partire per l'Europa dell'est rifiutarono di essere rimpatriati. Tale rifiuto difficilmente poteva essere ignorato di fronte a uomini e donne che, in seguito alle ridefinizioni dei confini determinate dalla fine della guerra, non possedevano pi� una patria in cui tornare. Era il caso di estoni, lettoni e lituani, visto che gli Stati baltici erano stati annessi dall'Unione Sovietica, ma anche molti dei displaced polacchi non intendevano rientrare in un Paese che non corrispondeva pi� ai vecchi confini e su cui gravava la minaccia dell'ingerenza sovietica. Il rifiuto del rimpatrio fu ritenuto plausibile - anche se si cerc� in ogni modo di convincere i profughi a "tornare a casa" - per tutti coloro che provenivano da territori non appartenenti all'Unione Sovietica prima del 1939, ma per chi era gi� cittadino sovietico prima dell'inizio della guerra scatt� l'obbligo del ritorno, indipendentemente dalle sue intenzioni. Infatti nel corso della Conferenza di Yalta i rappresentanti del governo britannico e di quello statunitense avevano firmato con i sovietici due accordi bilaterali nei quali si stabilivano le responsabilit� reciproche per il ritorno dei profughi provenienti dai Paesi alleati. La formula utilizzata in questi accordi era piuttosto ambigua, perch� imponeva ai suoi contraenti l'obbligo di rimpatriare i displaced britannici, americani e sovietici, ma non affermava espressamente che ci� dovesse avvenire anche contro la loro volont�. In tal senso fu per� interpretata dalle autorit� militari anglo-americane, che nell'estate del 1946 avevano gi� rimpatriato circa due milioni di cittadini sovietici, ricorrendo alla forza nei casi in cui il rifiuto del ritorno si era tradotto in resistenza attiva. Il "reinsediamento" (resettlement) dei rifugiati europei - oggi indicato come modello positivo di integrazione, da ripetersi a fronte della "crisi" attuale - fu dunque una componente importante, ma riguard� un numero limitato di persene, rispetto all'iniziale popolazione profuga. Tra il 1947 e il 1951 circa 700.000 uomini e donne lasciarono i campi della Germania attraverso l'International Refugee Organization (Iro), che aveva preso il posto dell'Unrra e organizz� il trasferimento dei profughi nei Paesi dove era stato offerto loro un lavoro. I programmi dell'Iro avevano trasformato le displaced persons in minatori per il Belgio e la Francia e in operai per l'Inghilterra, ma soprattutto in salariati agricoli per gli Stati Uniti e l'Australia e in lavoratrici domestiche per il Canada. Le mete extraeuropee - Stati Uniti in testa - avevano ricevuto le quote pi� elevate di rifugiati postbellici, e il loro ingresso era stato celebrato come l'arrivo di validi lavoratori e dunque futuri buoni concittadini, mentre restava in secondo piano il riconoscimento del loro passato, delle ragioni del loro percorso, degli abbandoni, delle separazioni, dei lutti da cui era stato segnato. Il "reinsediamento" dei profughi postbellici aveva avuto luogo di pari passo con il consolidarsi di un nuovo ordine internazionale, che in Europa aveva visto calare la cortina di ferro lungo il confine che separava le due repubbliche tedesche, quella federale e quella democratica. Tutto questo aveva coinciso con l'inizio di un nuovo flusso di rifugiati, costituito dai cittadini dell'Europa dell'Est in fuga verso occidente. La questione era emersa nel 1948, sebbene in misura molto contenuta, con l'ascesa al potere dei comunisti in Cecoslovacchia e la conseguente uscita dal Paese di migliaia di sostenitori della "terza repubblica". Quando il mandato dell'Iro si avvicin� alla conclusione, nel 1951, il fenomeno dei civili in arrivo dall'Europa dell'est costituiva un problema aperto. In quello stesso anno venne approvata dall'Assemblea generale dell'Onu la Convenzione di Ginevra, che regolamentava le politiche dei singoli Stati in materia di asilo. La Convenzione sullo statuto dei rifugiati del 1951 dava seguito al principio generale enunciato nella Dichiarazione universale dei diritti umani, secondo la quale "ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni" (art. 14). L'accordo firmato a Ginevra stabiliva in primo luogo che il termine "rifugiato" fosse applicabile a chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1� gennaio 1951 e nel giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non pu� o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato (art. 1). Questa definizione segnava una svolta rispetto ai provvedimenti precedenti perch� introduceva un approccio individualistico: la decisione di dare protezione a chi ne faceva richiesta era presa in base alle motivazioni di ogni singolo individuo, veniva cio� attribuito lo status di rifugiato a chi dimostrava di aver subito, o di aver rischiato di subire, personalmente una specifica forma di persecuzione all'interno del proprio Paese di origine. La Convenzione di Ginevra sanciva per la prima volta il diritto individuale a ricevere aiuto, ma lo vincolava a due condizioni, di ordine l'una cronologico e l'altra geografico. Come specificato nell'articolo 1 appena citato, uomini e donne potevano acquisire lo status di rifugiati solo se gli eventi che avevano portato alla loro fuga avevano avuto luogo prima del 1951, ovvero erano riconducibili al secondo conflitto mondiale o alle dinamiche che avevano segnato l'emergere della Guerra fredda. Nel medesimo articolo si dava poi la possibilit� di porre come ulteriore condizione che gli eventi causa della persecuzione fossero accaduti in Europa, ovvero si consentiva ai singoli governi di escludere dall'acquisizione dello status di rifugiati tutti coloro che provenivano da regioni extraeuropee. La quasi totalit� dei Paesi firmatari scelse questa opzione. Il limite cronologico e quello geografico da un lato confermavano l'interpretazione in chiave europea del riconoscimento di una componente specifica della popolazione profuga come destinataria della tutela internazionale. Dall'altro costituivano l'esito di lunghi e difficili negoziati, attraverso i quali era stato riaffermato, anzich� messo in discussione, il peso delle sovranit� nazionali. Soltanto nel 1967 il Protocollo di New York avrebbe soppresso la limitazione temporale introdotta nel 1951 e stabilito che i firmatari del nuovo accordo dovessero rinunciare anche alla limitazione geografica, fatte salve, per�, le dichiarazioni restrittive gi� rese in sede di ratifica della Convenzione di Ginevra e non modificate successivamente. La Turchia, per esempio, non ha mai abrogato la limitazione geografica, ed � questa la ragione per cui oggi non riconosce lo status di rifugiati ai civili in fuga dalla Siria. Il secondo dopoguerra ha senza dubbio costituito un momento cruciale nella costruzione storica del sistema internazionale per i rifugiati, sul piano normativo e istituzionale, ma anche dal punto di vista delle tecniche di intervento e delle pratiche di assistenza. Tuttavia non credo che si debba guardare a quegli anni e a quell'esperienza per trovare la soluzione ai problemi del presente o per cercare modelli di intervento ripetibili. Piuttosto, sfatare il "mito delle origini" dell'attuale regime internazionale per i rifugiati e guardare alle complesse dinamiche che ne hanno segnato la definizione consente di individuarne meglio le rigidit� e le contraddizioni, mettendo a nudo per esempio la presunta oggettivit� delle definizioni e delle classificazioni, a cui oggi tanto ci si appella in primo luogo per separare rifugiati "autentici" e "migranti economici". Pi� in generale, andando al di l� dei riferimenti sporadici al secondo dopoguerra, recuperare una prospettiva di lungo periodo � necessario per contrastare quel processo di "depoliticizzazione" della questione dei profughi da tempo denunciato dai refugee studies, ovvero la sua interpretazione unicamente nei termini di una "emergenza umanitaria" e la perdita di consapevolezza delle complesse ragioni politiche, sociali e culturali che sullo scenario globale determinano il fenomeno della fuga. La riacquisizione di questa piena consapevolezza tra i cittadini costituisce uno dei presupposti su cui pu� fondarsi la capacit� dell'Europa di dare una risposta adeguata alla richiesta di asilo di milioni di persone. L'era della (dis)informazione (di Walter Quattrociocchi, "Le Scienze" n. 570/16) - L'espansione dei social media ha un lato oscuro, ovvero la diffusione pervasiva e senza freni di informazioni false e teorie del complotto, che potrebbe mettere a rischio la societ�. - Vi � mai capitato di essere a cena con amici o familiari, magari anche con un certo livello di istruzione, e che l'argomento di conversazione fosse centrato sull'ultima notizia letta su Internet, per esempio su come il cambiamento climatico sia indotto dalle scie chimiche o sui vantaggi della medicina alternativa? Oppure seguire in televisione argomentazioni di noti comici o cantanti, senza le pi� basilari nozioni di statistica o economia, diventati all'improvviso fini analisti economico-politici che palesano quanto signoraggio bancario e Nuovo Ordine Mondiale stiano attentando alla societ�? Che cosa � cambiato nel nostro modo di informarci e quindi di costruirci un'opinione? Quale ruolo hanno i social media nella diffusione e nella popolarit� di tesi alternative e complottiste? La scienza se ne sta occupando. Di recente sono state sviluppate tecniche che hanno permesso di studiare le dinamiche sociali a un livello di risoluzione elevato sfruttando la grande mole di dati dei social media. Inoltre in un rapporto del 2013 sui rischi globali il World Economic Forum, un'organizzazione internazionale indipendente che discute i problemi pi� pressanti del mondo, mostra che uno dei temi pi� interessanti e allo stesso tempo tra i pi� pericolosi per la societ�, al pari del terrorismo, riguarda la viralit� legata a informazioni infondate o false. Il Web ha cambiato il modo in cui le persone si informano, interagiscono tra loro, trovano amici, argomenti e comunit� di interesse, filtrano informazioni e formano le proprie opinioni. Questo scenario, unito all'analfabetismo funzionale, ovvero l'incapacit� di comprendere efficacemente un testo (in Italia riguarda quasi la met� della popolazione tra i 15 e i 65 anni, secondo l'Organisation for Economic Cooperation and Development, OECD) e all'esposizione selettiva dei contenuti, guidata principalmente dal pregiudizio di conferma (il cosiddetto confirmation bias) a determinati contenuti pu� creare veri e propri fenomeni di massa attorno a informazioni false. Dallo studio anatomico di queste dinamiche sociali emergono sia un quadro allarmante sia una inadeguatezza di fondo delle soluzioni, in particolare quelle algoritmiche e meccaniche, pensate per arginare la formazione, diffusione e rinforzo di narrative fasulle, o misinformation. Nel 2009 David Lazer della Harvard University e colleghi hanno pubblicato su "Science" l'articolo Computational Social Science, che ha sancito la nascita del nuovo campo di ricerca. Tramite un approccio basato sui dati, questa disciplina tende a unire matematica, statistica, fisica, sociologia e informatica, e ha lo scopo di studiare i fenomeni sociali in maniera quantitativa sfruttando le tracce digitali che lasciamo sui vari social media come Facebook, Twitter, YouTube e cos� via. Gli utenti nel cyberspazio selezionano, condividono, commentano e lasciano traccia delle proprie azioni; questo ha reso possibile lo studio della societ� a un livello di risoluzione senza precedenti, che va molto oltre la mera e pura speculazione. Lungo questa linea sono stati fatti notevoli progressi riguardo alla comprensione della diffusione e del consumo delle informazioni, del loro effetto sulla formazione delle opinioni e su come le persone si influenzino a vicenda. A ciascuno il suo Come accennato, nel 2013 il World Economic Forum ha catalogato la diffusione massiva di informazioni fasulle (massive digital misinformation) come una delle minacce pi� serie per la societ�. Questo dipende principalmente dal fatto che nel Web il paradigma di produzione e consumo dei contenuti � fortemente disintermediato. Tutti possono pubblicare la loro versione e opinione su qualunque tematica, senza che poi ci sia un'effettiva verifica sulla fondatezza o quantomeno sulla sostenibilit� di quello che � stato pubblicato. I contenuti fruibili sono prodotti dagli stessi fruitori e la veridicit� come anche l'utilit� delle informazioni sono asservite alle necessit� del singolo utente che cerca spesso conferme coerenti a un suo sistema di credenze gi� strutturato e consolidato. Su Facebook proliferano le pagine su megacomplotti mondiali, scie chimiche, signoraggio bancario, correlazione tra vaccini e autismo, diete fruttariane, fino alle mirabolanti teorie sull'energia infinita che ci viene "astutamente" tenuta nascosta dalle grandi multinazionali a tutela dei loro interessi finanziari. Nonostante la speculazione positivistica basata sull'assunto dell'essere umano razionale, lo studio quantitativo di questi fenomeni ha acceso spie in direzione contraria. In un contesto informativo non filtrato, l'essere umano prende tutto ci� che pi� gli aggrada ed � conforme al proprio pensiero (confirmation bias, appunto) alimentando la formazione di argomentazioni strampalate che vanno a sostegno delle narrazioni pi� disparate. Per esempio, nel caso della narrazione fruttariana si sostiene che i nostri antenati non fossero onnivori ma frugivori, nonostante prove empiriche e pitture rupestri indichino l'esatto contrario. Per non parlare di altre leggende metropolitane come i microchip sottocutanei o i finti sbarchi sulla superficie della Luna che sono gli argomenti forti di noti parlamentari. Questo scenario, cos� fortemente disintermediato e guidato dai gusti di massa, � in grado di generare fenomeni virali su vasta scala che influiscono notevolmente sulla percezione pubblica di questioni anche importanti come salute, politica economica, geopolitica. E pu� causare fenomeni bizzarri. Per esempio, lo scorso anno negli Stati Uniti una banale esercitazione militare denominata Jade Helm 15 � diventata sul Web la prova di un incombente colpo di Stato ordito dall'Amministrazione del presidente Barack Obama. La notizia � stata creduta al punto che il governatore del Texas Greg Abbott ha deciso nel dubbio di allertare la Guardia Nazionale. Senza uscire dai confini italiani, abbiamo il caso della citazione erroneamente attribuita all'ex presidente della repubblica Sandro Pertini e pi� volte smentita dalla stessa Fondazione Pertini: "Quando il governo non fa ci� che il popolo vuole va cacciato con le mazze e con le pietre". Questa citazione � stata usata come simbolo evocativo per la "protesta dei forconi" ed � finita sui manifesti di una convocazione a una manifestazione nazionale contro il governo "corrotto" nel 2013. Altro esempio interessante � il caso del senatore Cirenga, menzionato in un post ironico che a dicembre 2012 � diventato virale su Facebook. Cirenga avrebbe partorito una fantomatica proposta di legge per stanziare 134 miliardi di euro con cui aiutare i parlamentari a trovare un lavoro in caso di non rielezione. La notizia apparsa su Facebook era stata ideata come scherzo, tanto che nel testo che accompagnava l'immagine si leggeva: "� solo colpa del popolo caprone che l'ha votata ma che ha soprattutto condiviso questa immane boiata falsa che solo dei boccaloni come voi potevano reputare vera". L'unica traccia dell'esistenza del senatore Cirenga � una pagina Facebook classificata come "personaggio inventato". Non sono rari i messaggi di utenti indignati che ancora oggi lasciano sulla pagina del finto senatore commenti relativi alla fantomatica proposta. Vero o falso, non importa Al laboratorio di Computational Social Science dell'Istituto IMT Alti Studi Lucca studiamo le dinamiche del contagio sociale e la fruizione dei contenuti sui vari social network come Facebook, YouTube e Twitter. Il gruppo di ricerca � composto da due fisici (Guido Caldarelli e Antonio Scala), uno statistico (Alessandro Bessi), una matematica (Michela Del Vicario) e due informatici (Fabiana Zollo e l'autore di questo articolo). Nello specifico studiamo la viralit� delle informazioni e come si formano e rinforzano le opinioni in un cyberspazio fortemente disintermediato dove i contenuti vengono immessi e fruiti senza alcun controllo. In un primo lavoro, Collective attention in the age of (mis)information, pubblicato su "Computers in Human Behavior" nel 2015, ci siamo concentrati sulla fruizione di informazioni qualitativamente differenti: fonti di informazione ufficiali, fonti di informazione alternativa e quelle dei movimenti politici. Le prime si riferiscono a tutti i quotidiani e agenzie che fanno informazione a copertura nazionale nel panorama italiano (indicate come mainstream). Le seconde riguardano invece le fonti di informazione che si autoproclamano promotrici di tutto quello che l'informazione manipolata nasconde agli utenti. L'ultima categoria riguarda movimenti e gruppi politici che fanno del Web uno strumento di mobilitazione politica. Il lavoro di censimento, soprattutto delle fonti alternative, � stato lungo e certosino. Abbiamo raccolto e verificato manualmente varie indicazioni da utenti e da gruppi Facebook attivi nello smascherare le bufale (Protesi di Complotto, Bufale un tanto al chilo, La menzogna diventa verit� e passa alla Storia). Dalle 50 pagine Facebook censite abbiamo analizzato il comportamento on line di pi� di due milioni di utenti italiani che hanno interagito con le loro informazioni su una finestra temporale di sei mesi, da settembre 2012 a febbraio 2013. I risultati hanno mostrato che informazioni qualitativamente diverse presentano caratteristiche molto simili in termini di durata, numero di utenti che vi interagiscono e persistenza degli utenti. Informazioni dai quotidiani nazionali, dalle fonti alternative e dedicate alla discussione politica riverberano allo stesso modo e non mostrano sostanziali differenze di fruizione sui social media. Per esempio, su tutte le categorie l'attenzione media che un post riceve � di 24 ore. Complottisti manipolati Tra le varie forme di espressione che troviamo su Facebook sono particolarmente interessanti i troll, all'inizio intesi come utenti a caccia della rissa sul Web, che tra commenti irriverenti e oppositivi cercano di creare scompiglio. Ultimamente questa figura, stimolata dall'enorme eterogeneit� di gruppi e interessi che invadono il Web, si � evoluta in qualcosa di pi� articolato. Dove c'� una dinamica sociale che calca troppo la mano e diventa estremista su un qualsiasi aspetto, compare la controparte troll che ne fa la parodia. Pagine che scimmiottano il comportamento dei sostenitori di movimenti politici nostrani (esilarante � Siamo la Gente, il Potere ci temono); pagine che pubblicano sempre la stessa foto di cantanti famosi in barba alla retorica della viralit� dei contenuti, altre che postano foto di Ebola con i gattini, o altre ancora che fanno parodia dell'estremismo vegano. Tra i vari oggetti di scherno non mancano le teorie del complotto con post che parlano di abolire le leggi della termodinamica in Parlamento o che ritengono che da una recente analisi sulla composizione chimica delle scie chimiche emerga la presenza del sildenafil citrato, ovvero il principio attivo del Viagra. Questi contenuti parodistici e caricaturali si sono rivelati fondamentali per i nostri studi, perch� ci hanno permesso di misurare le abilit� di fact checking degli internauti nostrani. Essendo concepiti a scopo parodistico, sono intenzionalmente falsi e veicolano contenuti paradossali; ci hanno permesso quindi di misurare fino a che punto il confirmation bias sia determinante nella scelta dei contenuti. Pi� precisamente, per verificare potenziali attitudini derivanti dall'esposizione continua a tipi specifici di contenuto, sempre nello studio su "Computers in Human Behavior" abbiamo diviso gli utenti, categorizzandoli in base al tipo di informazione preferita tenendo conto della percentuale di like su un unico tipo di informazione, e ne abbiamo misurato le interazioni con uno specifico set, circa 5000, di informazioni troll. Poco sorprendentemente abbiamo trovato che i follower di informazione alternativa, coloro cio� che sono particolarmente attenti all'informazione alternativa, sono i pi� proni a mettere like e condividere informazioni troll, esattamente con la stessa modalit� con cui consumano le altre. Questo risultato � particolarmente interessante perch� porta in evidenza quello che poi abbiamo chiamato "il paradosso del complottista": quelli pi� attenti alla "manipolazione" perpetrata dai mezzi di comunicazione "manipolati" sono i pi� proni a interagire con fonti di informazioni intenzionalmente false, e quindi potenzialmente anche i pi� proni a essere manipolati. Casse di risonanza Il fatto che informazioni diverse siano consumate allo stesso modo pone sostanzialmente due ipotesi: che le informazioni siano trattate indistintamente da tutti gli utenti a prescindere dal tipo di contenuto; che esistano gruppi di interesse focalizzati su specifici contenuti e che il loro comportamento sia universale rispetto al tipo di contenuto e narrativa scelti. Quest'ultima � la pi� affascinante, perch� ripropone il concetto di esposizione selettiva (confirmation bias) e l'idea che il Web, avendo facilitato l'interconnessione tra persone e l'accesso ai contenuti, abbia di fatto messo il turbo alla formazione delle echo chamber, comunit� che condividono interessi comuni, selezionano informazioni, discutono e rinforzano le proprie credenze attorno a una narrazione del mondo condivisa. Quindi un secondo passaggio � stato confrontare il comportamento degli utenti esposti a fonti di informazione scientifica con quelli che seguono solitamente fonti di informazione alternativa e filocomplottista. La scelta � peculiare: le fonti differiscono per avere o meno un mittente, un responsabile del messaggio. L'informazione scientifica fa riferimento a studi generalmente pubblicati da riviste scientifiche, di cui si conoscono autori, istituzioni e cos� via. Nell'informazione complottista, invece, il frammento di informazione � formulato in modo da contenere l'incertezza che poi genera. Si tratta sempre di notizie riferite a qualche piano segreto e volutamente celato al grande pubblico. Altra differenza sostanziale, a prescindere dalla veridicit� dell'informazione riportata dalle due tipologie di fonti, � che sono narrative agli antipodi. La prima si basa su un paradigma razionale che (quasi sempre) cerca evidenze empiriche. La seconda - riprendendo la definizione di Cass Sunstein della Harvard University e autore di importanti libri sulle dinamiche sociali del complottismo, che a sua volta riprende il filosofo Karl Popper - si riferisce a un insieme di credenze che sono il risultato di un processo di causazione che porta ad attribuire gli eventi a un motore intenzionale. Il pensiero complottista ricalca l'incapacit� di attribuire a conseguenze avverse un determinante casuale (forze di mercato, pressione evolutiva, complessit�); sono caratteristiche che secondo Martin Bauer, psicologo sociale alla London School of Economics e studioso delle dinamiche complottiste, sono da attribuirsi a un modo "quasi religioso" di pensare i processi. Un po' come quando all'alba dell'umanit� si attribuiva una natura divina alle tempeste, ora succede lo stesso davanti ai processi intricati della globalizzazione e del progresso tecnologico. Interagendo con i vari gruppi on line attivi nel debunking di informazioni false, ovvero la smentita di queste informazioni false basata su conoscenze acquisite con il metodo scientifico, abbiamo definito l'insieme delle pagine Facebook da esplorare. Nel dettaglio, l'analisi fa riferimento a 73 pagine, di cui 39 complottiste e 34 scientifiche, per un totale di pi� di un milione di utenti italiani di Facebook in una finestra temporale di cinque anni, tra il 2010 e il 2014 per la precisione. I risultati dello studio, Science vs conspiracy: collective narratives in the age of misinformation pubblicato su "PLoS ONE", hanno mostrato che nel Facebook nostrano il numero di utenti che segue fonti di informazione complottista � tre volte quello delle informazioni scientifiche e che entrambe sono assai focalizzate. Emerge chiaramente che gli utenti si aggregano intorno a narrative specifiche e raramente escono da quella echo chamber. Informazioni verificate e non verificate vengono fruite allo stesso modo e in maniera mutualmente esclusiva. Questa caratteristica dell'interazione sociale su Facebook sembra avere un ruolo importante nella diffusione dei rumor falsi. Esaminando 4709 informazioni mirate a imitare satiricamente le teorie complottiste con tratti palesemente assurdi (Viagra nelle scie chimiche, per esempio) ne emerge che gli utenti pi� proni a interagire con questi contenuti (80 per cento) siano coloro che consumano principalmente informazioni filocomplottiste che non sono verificate. Altra caratteristica interessante � che gli utenti focalizzati principalmente su informazioni complottiste tendono a diffondere di pi�, tramite la condivisione con i propri amici le informazioni complottiste. A questo punto ci siamo chiesti se questa forte polarizzazione degli utenti che seguono fonti complottiste oppure scientifiche si riflettesse anche sulle amicizie virtuali. Quindi, esaminando pi� da vicino questa echo chamber abbiamo ricostruito la rete sociale dei due gruppi e abbiamo scoperto una regolarit� statistica sorprendente: al crescere del numero di like su uno specifico tipo di narrativa aumenta linearmente la probabilit� di avere una rete sociale virtuale composta solo da utenti con lo stesso profilo. Ovvero, pi� si � esposti a uno specifico tipo di narrazione, pi� aumenta la probabilit� che tutti gli amici di Facebook abbiano la stessa attitudine al consumo di informazioni. Le implicazioni di queste caratteristiche della rete sociale che si vede divisa in gruppi omogenei in base al tipo di contenuto fruito � fondamentale soprattutto per la comprensione della viralit� dei fenomeni. Questi gruppi omogenei tenderanno a escludere tutto quello che non � coerente con la propria narrazione del mondo. Quindi � una struttura che facilita il rinforzo e facilita la selezione dei contenuti per confirmation bias. Trib� separate A partire da questa ultima osservazione la ricerca � proseguita esaminando gli effetti delle campagne di informazione che mirano a correggere la diffusione delle informazioni false nei social media. In uno studio pubblicato negli atti della conferenza "Social Informatics" e intitolato Social determinants in the age of misinformation abbiamo confrontato tra gli utenti generalmente esposti a fonti di informazione complottista, quelli che sono stati esposti a post di debunking e quelli che invece non lo sono stati. Nello specifico abbiamo misurato la persistenza, cio� la probabilit� di continuare a mettere like su uno specifico tipo di contenuto nel tempo, per gli utenti esposti e per quelli non esposti a campagne di informazione mirate a smentire informazioni false. I risultati hanno mostrato che per gli utenti esposti a debunking la probabilit� di continuare a interagire con informazioni complottiste � circa il 30 per cento pi� elevata rispetto ai non esposti. In parole povere, cercare di convincere un sostenitore delle scie chimiche che queste non esistono produce un effetto di rinforzo della sua credenza che si manifesta in una maggiore interazione con le fonti di informazione erronee. Abbiamo verificato le stesse dinamiche nel contesto del Facebook statunitense su 55 milioni di utenti e abbiamo trovato sostanzialmente le stesse dinamiche. Gli utenti sono polarizzati, si informano e formano la propria opinione secondo un processo cognitivo che evita il conflitto a favore delle informazioni a sostegno della propria credenza. Il principale motore per la diffusione dei contenuti sembra proprio l'omofilia. Gli utenti condividono principalmente i contenuti da altri utenti con un profilo simile. Quest'ultimo risultato, pubblicato a gennaio 2016 sui "Proceedings of the National Academy of Sciences" con il titolo The spreading of misinformation on line, � molto interessante perch� ci ha permesso di sviluppare modelli predittivi, basati sulla meccanica dei fluidi percolativi, che ci permettono con buona approssimazione di calcolare la dimensione dei fenomeni virali. Con un altro lavoro, Emotional dynamics in the age of misinformation pubblicato a settembre 2015 su "PLoS ONE", sempre esaminando l'insieme dei dati degli studi precedenti con le fonti di informazione complottista e scientifica, attraverso tecniche di sentiment analysis, ovvero algoritmi che con un dovuto allenamento sono in grado di fornire con buona approssimazione il sentimento espresso dagli utenti nei commenti ai post, troviamo che pi� lunga � la discussione pi� si va verso un sentimento negativo. Questo vale sia per chi fruisce fonti di informazione complottista sia informazione scientifica, anche se i complottisti sembrano tendenzialmente pi� negativi. In ogni caso, una discussione prolungata su un post sembra produrre una degenerazione negativa. In pratica � come se gli utenti coinvolti si influenzassero negativamente, tendendo a esprimere sentimenti negativi al crescere della discussione. Dentro la cassa Finora ci siamo focalizzati sul comportamento della echo chamber guardandola dall'esterno, e abbiamo trovato che i contenuti sono selezionati per confirmation bias e che altre informazioni sono ignorate o trattate in maniera antagonista. Le comunit� che si aggregano attorno ad argomenti specifici di cui condividono la narrazione (come i complottisti) tendono a confrontarsi al loro interno per stabilire i principi di causazione e trovando spiegazioni a fenomeni ritenuti interessanti. In generale, diversi studi sulle dinamiche del pensiero complottista suggeriscono che questa narrazione � variegata e spesso ha l'obiettivo di identificare la paura di quello che non si conosce o pi� in generale di convogliare sentimenti di ansia e paranoia su oggetti e storie specifiche. Una societ� aperta e globalizzata tende a discutere e cerca spiegazioni ai fenomeni che la riguardano come per esempio la multiculturalit�, la maggiore complessit� del circuito finanziario su scala globale, il progresso tecnologico. Purtroppo, per�, la complessit� dei fenomeni a volte fa preferire all'utente, a prescindere dal livello di istruzione, una spiegazione pi� compatta, che identifichi chiaramente un oggetto da colpevolizzare, per esempio il riscaldamento globale indotto dalle scie chimiche o i disagi della globalizzazione indotti dai piani segreti dei rettiliani. Mettendo il focus all'interno della echo chamber complottista nostrana troviamo che gli utenti tendono ad abbracciare le tesi pi� variegate al crescere della loro attivit� on line. Attraverso algoritmi di automatic topic extraction, ovvero tecniche informatiche che servono a raggruppare i contenuti on line in base ai temi trattati analizzandone il testo, applicati al corpus del Facebook italiano sul versante complottista, troviamo che i topic appartengono fondamentalmente a quattro classi specifiche: dieta, ambiente, salute e geopolitca. Questo risultato � abbastanza in linea con altri paesi; nello specifico abbiamo visto che gli stessi argomenti sono presenti anche negli Stati Uniti, anche se in quel caso c'� anche una forte attenzione a UFO e alieni. In Trend of Narrative in the Age of Misinformation, pubblicato su "PLoS ONE", abbiamo mostrato che la fruizione, nonch� la viralit�, dei post legati a questi temi � fortemente correlata al punto che al crescere dell'attivit� dell'utente si tender� ad abbracciare indistintamente tutto il corpus. Infatti, quanto maggiore � l'attivit� dell'utente, tanto maggiore sar� la sua tendenza ad abbracciare tutto il corpus complottista a prescindere dal topic specifico. In breve, una volta dentro l'echo chamber si tender� ad assorbirne tutti i contenuti proposti. Fine dell'era dell'informazione? Le dinamiche sociali che emergono dai nostri studi evidenziano in modo chiaro le problematicit� relative alla formazione e all'emergenza di narrazioni su fatti e fenomeni potenzialmente erronei nei social media. La selezione dei contenuti avviene per pregiudizio di conferma, ovvero per confirmation bias, e questo porta alla formazione di gruppi solidali su specifici temi e narrazioni che tendono a rinforzarsi e allo stesso tempo ignorare tutto il resto. Nella maggior parte dei casi la discussione degenera in un litigio tra estremisti dell'una o dell'altra visione, e si fomenta quindi la polarizzazione. Questo contesto rende di fatto molto difficile informare correttamente e, come conseguenza, fermare una notizia infondata diventa di fatto impossibile. La bufala del senatore Cirenga � stata pubblicata in un moto di indignazione su Twitter qualche mese fa da un noto attore. Il problema della disinformazione sui social media � molto sentito, al punto che Facebook ha introdotto la possibilit� per gli utenti di segnalare informazioni false, mentre Google sta studiando un metodo per considerare l'affidabilit� delle pagine nella classifica dei risultati da mostrare all'utente. In ogni caso, a valle dei nostri studi emergono forti dubbi sulla efficacia di soluzioni algoritmiche e ingegneristiche che i grandi colossi del Web stanno applicando. Probabilmente per molto tempo ancora le nostre cene saranno allietate da infuocate discussioni sull'ultimo megacomplotto mondiale ordito dai rettiliani o da interessanti disquisizioni sui potenti effetti della nuova dieta a base di acqua, ghiaia e capesante che spopola sul Web. L'importante � diffondere quello che ci viene tenuto nascosto, poi che sia vero o falso poco importa. Che sia il caso di cambiare la dicitura di era dell'informazione in era della credulit�? L'esplosione dei social media Ormai i social media sono parte integrante della nostra quotidianit�, con un incessante aumento del numero di utenti. Secondo il rapporto Digital, Social & Mobile in 2015 dell'agenzia We Are Social il numero di utenti attivi su Internet ha superato i 3 miliardi, arrivando al 42 per cento della popolazione mondiale. Riguardo ai social media, oggi gli utenti attivi sono pi� di 2 miliardi (29 per cento della popolazione mondiale). Nonostante il digital divide, grande piaga del nostro paese, l'Italia risulta molto attiva. Gli utenti attivi sono il 60 per cento della popolazione. Se guardiamo il tempo trascorso on line si vede che in Italia l'accesso in Internet da desktop si attesta sui valori della media mondiale, mentre quello legato alla navigazione da dispositivi mobili � decisamente inferiore (2,2 ore al giorno, contro una media di 2,7 ore). Gli italiani trascorrono 6,7 ore al giorno su Internet (tra dispositivi mobili e desktop), e 2,5 ore sono dedicate all'uso di canali sociali contro una media mondiale di 2,4 ore; per avere un termine di paragone, in Francia la media � di 2 ore, in Spagna di 1,9. Il 60 per cento degli italiani accede regolarmente a Internet e gli account attivi sui canali social sono 28 milioni, di cui 22 milioni accedono da dispositivi mobili: quest'ultimo dato, ovvero l'accesso a canali social da mobile, � quello che ha visto il maggior incremento negli ultimi mesi. Possiamo affermare quindi che in Italia c'� una propensione sempre pi� grande a interagire in mobilit� e in maniera attiva con i contenuti a cui � possibile accedere on line. Vincere a tutti i costi (di Fabio Lucidi, "Psicologia contemporanea" n. 228/11) - Quali sono i meccanismi psicologici che inducono a praticare il doping? - Il connubio sport-doping, cos� come lo conosciamo oggi, trova la sua origine nel periodo della Guerra Fredda, in linea con la visione ideologico-utilitaristica dell'attivit� sportiva che caratterizzava l'Est europeo in quegli anni. Il tentativo di arginare il predominio del blocco dell'Est nelle competizioni sportive non fu, comunque, il solo motivo a contribuire alla diffusione del fenomeno anche nei paesi occidentali: il mito dell'uomo muscoloso, specialmente fra i cultori del body-building nella west coast, contribu�, infatti, alla diffusione degli anabolizzanti. Negli anni Sessanta il CIO (Comitato Olimpico Internazionale) istitu� una commissione medica e la pratica del doping venne ufficialmente definita nel 1963 come "la somministrazione ad un soggetto sano o l'utilizzazione da parte dello stesso, per qualsiasi mezzo, di sostanze estranee all'organismo o di sostanze fisiologiche in quantit� o per via anomale, e ci� al solo scopo di influenzare artificialmente ed in modo sleale la sua prestazione sportiva in occasione della partecipazione ad una competizione". Il CIO ha, inoltre, stilato una lista di sostanze vietate, che viene aggiornata di anno in anno e include stimolanti (come le anfetamine), narcotici (quali morfina o eroina), anabolizzanti, diuretici (spesso usati per perdere peso o per "mascherare" altre sostanze ai controlli), ormoni peptidici (ad esempio l'ormone della crescita). Esistono poi dei "metodi vietati" (come la trasfusione ematica con il sangue di un donatore o con il proprio) e delle sostanze sottoposte a restrizione, come alcuni anestetici. In altre parole, sostanze che per un individuo con problemi di salute rappresentano dei farmaci ad azione terapeutica, nello sport diventano doping. Il doping nello sport di alto livello Gli studi che hanno cercato di valutare l'incidenza del doping nello sport di alto livello basandosi su quanto riferito dagli atleti, indicano percentuali comprese tra l'1,2% e l'8%. Quando per� si chiede agli atleti di indicare se conoscono altri (compagni di squadra o avversari) che utilizzano sostanze, le stime aumentano e vanno dal 6% al 34% (Backhouse et al., 2007). Le ragioni addotte per giustificare l'uso di doping nello sport di alto livello sono riconducibili per lo pi� al desiderio di migliorare la propria prestazione o di vincere per ottenere vantaggi di natura economica o altri tipi di benefici (ad esempio, sponsorizzazioni, status sociale, ecc.). Le sostanze dopanti spesso sono viste dagli atleti professionisti come mezzi necessari per superare gli infortuni e per sostenere lo sforzo di allenamenti molto duri che si susseguono giorno dopo giorno. Un tema ricorrente � quello della paura che gli avversari, dopandosi, possano ricavarne un vantaggio incolmabile. Per questo alcuni studiosi hanno tentato di leggere la scelta di fare uso di doping come un caso particolare del "dilemma del prigioniero" (Haugen, 2004): in una competizione in cui due atleti hanno la stessa probabilit� di vittoria, la scelta migliore per entrambi sarebbe quella di non doparsi e di competere alla pari, in una gara doping-free. Tale scelta � per� ostacolata dalla mancanza d'informazioni sulla "correttezza" degli avversari e dai sospetti che tutti facciano uso di doping. Per queste ragioni nel "dilemma del doping" molti atleti scelgono di doparsi. Altri studi (Strelan e Boeckmann, 2006) hanno cercato di spiegare la scelta del doping come il risultato di un'analisi costi-benefici, in cui i "deterrenti", o costi, che sembrano avere un ruolo protettivo, sono la paura delle sanzioni morali e delle possibili conseguenze negative per la salute. Queste ultime sono tipicamente sottostimate, mentre per le prime possono entrare in gioco meccanismi di disimpegno morale. Da questi studi, invece, emerge che gli atleti non sembrano temere di risultare positivi ai controlli, probabilmente perch� ritengono di poterli superare agevolmente. Il doping tra gli adolescenti Da alcuni anni l'interesse dei ricercatori si rivolge sempre pi� ad un fenomeno in espansione, ovvero l'uso di doping nello sport amatoriale e, in particolare, tra gli adolescenti. � evidente che il mercato di sostanze dopanti non sarebbe cos� ampio se si rivolgesse esclusivamente al numero limitatissimo di atleti di alto livello. In effetti, diversi studi internazionali stimano che, tra gli adolescenti che praticano sport a livello amatoriale, una percentuale compresa tra l'1% e il 5% assuma doping. Gli studi condotti in Italia (Mallia et al., in stampa) confermano questo dato. Emergono chiaramente differenze di genere: sono soprattutto i ragazzi a utilizzare sostanze dopanti per migliorare il proprio aspetto e/o la propria prestazione. Nel caso degli adolescenti diventa pi� difficile inquadrare le cause del fenomeno. Se nello sport di alto livello le ragioni per cui alcuni atleti fanno ricorso al doping possono essere ricondotte alla ricerca della vittoria a tutti i costi, per un semplice amatore questo non sembra poter rappresentare un motivo adeguato. Per la maggior parte delle ragazze o dei ragazzi, d'altra parte, l'idea di sport dovrebbe associarsi a quella di divertimento, di buona salute, di confronto leale con i coetanei, di scoperta delle proprie potenzialit� e dei propri limiti. � per questo che alcune ricerche hanno posto l'enfasi sugli obiettivi estetici pi� che su quelli prestazionali. L' ideale di bellezza socialmente condiviso, nei ragazzi, � associato ai muscoli e alla forza, mentre l'ideale di bellezza femminile di solito � collegato ad un corpo magro, esile e aggraziato, cosa che ne spiega la maggiore prevalenza nei maschi e il diverso approccio alle sostanze: i maschi, infatti, usano prevalentemente steroidi anabolizzanti o testosterone, le femmine invece utilizzano pi� spesso diuretici o sostanze anoressizzanti. Il fenomeno � confermato anche da un recente studio italiano (Zelli, Lucidi e Mallia, 2010) che ha rilevato come gli atteggiamenti positivi nei confronti del doping e l'intenzione di farne uso � correlata nei ragazzi con il desiderio di aumentare la propria massa muscolare e nelle ragazze con quello di perdere peso. Quali processi psicologici? Negli ultimi anni l'analisi dei processi psicologici che possono spingere un giovane verso il doping � stata affrontata in studi che hanno cercato di andare al di l� dei singoli motivi e di inquadrare il fenomeno all'interno di teorie pi� ampie. Queste teorie enfatizzano l'importanza delle convinzioni personali e della percezione delle pressioni esterne nelle scelte comportamentali. Secondo la Teoria del Comportamento Pianificato (Ajzen, 1991) il miglior modo per prevedere se una persona metter� in atto un'azione � quello di sapere se � intenzionata a compierla. L'intenzione a sua volta pu� essere prevista considerando tre sistemi di convinzioni personali: gli atteggiamenti, ovvero la valutazione generale sul fatto che mettere in atto un determinato comportamento comporti principalmente vantaggi o svantaggi; le norme soggettive, quindi la valutazione generale delle pressioni sociali verso quel comportamento; la percezione di controllo comportamentale, che considera quanto quel comportamento sia facile o difficile da attuare. La Teoria Social-Cognitiva (Bandura, 1986), poi, spiega il comportamento individuale come risultato di una costante interazione tra disposizioni personali e influenze ambientali. Alcuni meccanismi di controllo personale regolano il modo con cui le pressioni esterne influenzano il comportamento. Tra questi, il principale � l'auto-efficacia percepita, ovvero le convinzioni circa le proprie capacit� di mettere in atto i comportamenti necessari a produrre specifici risultati, superando le difficolt� che dovessero presentarsi. In accordo con questa prospettiva, la ricerca (Lucidi et al., 2004) ha dimostrato che l'elemento cruciale per i giovani non � quello relativo alle pressioni esterne verso il doping o la presenza di difficolt� da superare per raggiungere i propri obiettivi estetici, ma la percezione della propria incapacit� di resistere a quelle pressioni o di superare quelle difficolt� (autoefficacia auto-regolativa). Il ricorso al doping, per�, non � soltanto un comportamento diretto a uno scopo. Esso rappresenta una pratica sleale, che mina i principi dell'etica sportiva, oltre che delle leggi attualmente in vigore. La psicologia deve ad Albert Bandura l'introduzione del concetto di disimpegno morale, che rimanda a quei meccanismi di giustificazione morale che permettono all'individuo di allontanare da se stesso le responsabilit� per i propri comportamenti sleali o scorretti, ad esempio attribuendo ad altri la responsabilit�, negando o minimizzando le conseguenze, biasimando le vittime. Il comportamento scorretto di assunzione di doping pu�, ad esempio, essere giustificato appellandosi a ragioni superiori (lo faccio per la squadra), comparandolo con un'azione ancor pi� condannabile (ci sono azioni ben peggiori), o negando il danno (non faccio male a nessuno). Altri meccanismi permettono "di dislocare o di diffondere" la responsabilit� dell'azione su altri (in fondo lo fanno tutti; non � colpa di chi assume sostanze, ma di chi lo spinge a vincere a tutti i costi). � stato recentemente dimostrato che l'uso dei meccanismi di disimpegno morale contribuisce, insieme alle altre variabili sopra descritte (Lucidi et al., 2008), a prevedere l'uso di doping negli adolescenti. Un ultimo approccio, infine, ha cercato di considerare i processi di valutazione delle situazioni sociali. Gli avvenimenti che caratterizzano qualsiasi situazione interpersonale vengono tipicamente interpretati da ciascuno di noi. I nostri comportamenti derivano da nostre interpretazioni pi� che dai fatti stessi. Zelli, Mallia e Lucidi (2010) hanno dimostrato che i comportamenti di abuso di doping nei giovani dipendono spesso dalle loro interpretazioni delle ragioni che portano un interlocutore (un allenatore, un compagno di squadra, ecc.) a proporgli di farne uso, pi� che dalla forza con cui questa pressione viene esercitata. In altre parole, se un giovane sportivo amatoriale si convince che chi gli sta proponendo il doping � davvero interessato alla sua forma fisica, le sue probabilit� di farne uso diventano molto alte. Non � sufficiente informare Esiste un generale accordo sul fatto che fornire informazioni sugli effetti, a breve e a lungo termine, delle sostanze dopanti ha scarsa efficacia nel modificare la scelta di usarle. In alcuni casi pu� essere controproducente, portando ad un "effetto paradossale" che si esprime in un aumento dell'uso di tali sostanze. Una strategia pi� efficace prevede di impostare programmi che non solo forniscano informazioni, ma puntino a lavorare, attraverso tecniche interattive, su alcuni dei processi psicosociali (ad esempio, sull'autoefficacia autoregolativa e sugli atteggiamenti) che, come abbiamo visto, possono influenzarne l'uso. In tal senso, ad esempio, si pu� aiutare i ragazzi a sviluppare le proprie capacit� a "dire di no" alle pressioni esterne (dei pari, degli allenatori, ecc.) verso l'uso di doping attraverso opportune tecniche di apprendimento sociale. Tra queste possiamo citare il "Mastery" e il "Modeling". Si tratta, in entrambi i casi, di mostrare ai ragazzi il modo in cui risolvere un problema proponendo, ad esempio attraverso dei video, l'esperienza di qualcuno che ha gi� avuto modo di affrontare quella situazione. Si parla di Mastery quando il video rappresenta qualcuno evidentemente molto esperto, che riesce ad affrontare la situazione con calma e sicurezza. Nelle tecniche di Modeling, invece, si cerca di trasmettere ai giovani, per piccoli passi, l'esperienza di qualcuno che � estremamente simile a loro e vive le loro stesse difficolt�. Mentre in quest'ultimo caso il processo che guida l'apprendimento � l'imitazione, nel primo si poggia molto pi� sull'identificazione con un modello che, esposto a una iniziale fase di difficolt�, riesce con la propria forza e determinazione, a superarla. Ulteriori strategie sfruttano in modo positivo la forza della pressione dei pari per cercare di aiutare i giovani atleti a modificare il proprio atteggiamento verso il doping. Tra i programmi che seguono questa linea di intervento i pi� conosciuti, in ambito internazionale, sono ATLAS (Adolescents Training and Learning to Avoid Steroids) e ATHENA (Athletes Targeting Healthy Exercise and Nutrtion Alternatives, www.atlasathena.org). Entrambi i programmi, strutturati in incontri regolari, utilizzano tecniche di "peer education", basando il lavoro su piccoli gruppi in cui un "peer leader", adeguatamente formato, ha il compito di condurre le attivit�. I due programmi non centrano il loro focus solo sull'uso di sostanze nello sport, ma cercano di promuovere nei giovani una "sana" pratica dello sport attraverso un corretto allenamento e una dieta equilibrata. Infine, aiutano lo sviluppo di capacit� interpersonali e sociali dei ragazzi, aumentando la loro capacit� di resistere all'offerta di sostanze e di leggere criticamente le informazioni, spesso scorrette e lusinghiere, che provengono dai mezzi di informazione. Recentemente, tra gli interventi realizzati in Italia, � da segnalare "Prima e Doping" (www.primaedoping.it), una campagna che, attraverso l'uso di tecniche di simulazione e role-playing applicati a situazioni relazionali e sociali, ha lo scopo di far emergere e ristrutturare idee e interpretazioni che si configurano come "rischiose".