Marzo 2019 n. 3 Anno IV Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri per un importo pari ad euro 23.084,48 e del MiBACT per un importo pari ad euro 4.522.099. Indice L'immigrazione in Italia tra realt�, retorica e percezione Cosa significa desiderare? L'immigrazione in Italia tra realt�, retorica e percezione (di Marco Valbruzzi, "il Mulino" n. 499/18) Quanti sono gli immigrati in Italia? Le statistiche, cio� i dati "nudi e crudi" forniti dall'Istat, non lasciano spazio a interpretazioni: poco pi� di 5 milioni. Se a questi aggiungiamo anche il numero di irregolari, in una stima generosa per eccesso arriviamo a poco meno di 6 milioni: il 10% sul totale della popolazione italiana. Fin qui - direbbe Machiavelli - la "verit� effettuale". Ma che cosa succede quando chiediamo direttamente ai cittadini di stimare la percentuale di immigrati presenti nel nostro Paese? La risposta a questo interrogativo � stata fornita da un recente report dell'Istituto Cattaneo, nel quale sono stati messi a confronto i dati "reali" sulla presenza di immigrati nei 28 Paesi dell'Unione europea con le stime fornite dai cittadini in un sondaggio somministrato periodicamente dall'Eurobarometro. Almeno a prima vista, il risultato � stato sorprendente: l'Italia � il Paese europeo dove l'errore percettivo, vale a dire la distanza tra il dato reale e quello stimato dagli intervistati, � in assoluto il pi� ampio. Rispetto al 10% di immigrati presenti sul territorio italiano, i cittadini ne "vedono" o, pi� precisamente, ne percepiscono pi� del doppio, cio� il 25%. Naturalmente, gli italiani non sono stati gli unici a sbagliare la stima: anche in Spagna, Portogallo e Regno Unito - solo per citare i tre casi pi� rilevanti - la distanza tra realt� e percezione � ampia e abbondantemente superiore alla media europea (pari al 16,7%). Ma nessun altro Paese ha una visione tanto distorta, e quindi errata, quanto il nostro. Di fronte a questi dati, sono possibili due tipi di reazione. La prima � quella che definisco, per semplicit�, dei "minimizzatori", il cui argomento suona grossomodo cos�: i cittadini vedono una "realt� aumentata" che non corrisponde alla verit� fornita dai dati e, di conseguenza, il problema dell'immigrazione � un non-problema. O meglio: il problema sta tutto negli occhi e nella mente degli italiani e, quindi, � da l� che bisogna partire per affrontare, razionalmente e con la forza persuasiva dei numeri, la questione. Il secondo tipo di reazione �, invece, quella dei "massimizzatori" secondo i quali un errore percettivo cos� ampio come quello registrato in Italia sta a indicare l'esistenza di un problema, in merito all'immigrazione, molto pi� ampio e diffuso rispetto al quadro fornito semplicemente dalle statistiche. In linea di principio, esiste un pezzo di verit� in entrambe le posizioni. Ma c'� un nodo che va sciolto prima di valutare il peso delle ragioni degli uni e degli altri. E il nodo � che i "minimizzatori" e i "massimizzatori" guardano a uno stesso fenomeno - l'immigrazione - ma da due punti di vista completamente differenti. Anzi, opposti. Per i primi, la questione dell'immigrazione inizia e finisce al momento dell'ingresso degli stranieri nel nostro Paese, mentre per i secondi inizia ma non finisce affatto in quell'istante. Mi spiego meglio. Chi ritiene che l'immigrazione sia soltanto un problema di (errata) percezione osserva i numeri sugli ingressi degli stranieri e ne ricava, non senza solide ragioni, che non sia in atto alcuna "invasione" e che uno Stato come l'Italia possa gestire una presenza di immigrati pari al 10% della popolazione. Certamente si tratta di una percentuale in crescita rispetto agli ultimi decenni, pi� che raddoppiata se confrontata con i dati del 2007 (circa il 4% di stranieri), ma tutto sommato limitata e controllabile per uno Stato moderno come quello italiano. Quindi, il problema non esiste o, per l'appunto, � minimo. Dall'altra parte, c'� invece chi osserva il fenomeno dell'immigrazione non nella sua statica - derivante dalla semplice statistica - ma nella sua evoluzione dinamica. In questo senso, la questione migratoria si va a sommare a tutta un'altra serie di questioni gi� aperte, e per un certo verso affini (dal problema abitativo a quello della sicurezza, dal tema del funzionamento del welfare a quello del degrado urbano), che finiscono per amplificarne la portata. Cos� la "semplice" questione dell'immigrazione si sovraccarica di altri significati e problemi che la rendono sempre pi� rilevante per i cittadini, ma al contempo sempre meno quantificabile nelle sue dimensioni concrete. Chi ha ragione allora tra chi minimizza e chi massimizza il tema dell'immigrazione in Italia? Come abbiamo visto, entrambi hanno le loro "buone ragioni" e stabilire dove stia la verit�, o cosa sia "pi� vero", � materia complessa che non pu� essere risolta con salomonica giustizia (e freddezza). Tuttavia, per capire il motivo per cui l'errore percettivo degli italiani � pi� ampio rispetto a quello degli altri cittadini europei, � necessario partire da un altro dato di fatto: anche se le percezioni non sono reali, nel senso che non si basano su fatti empiricamente verificati o verificabili, la loro origine cos� come le loro conseguenze hanno risvolti assolutamente concreti. Secondo il noto teorema di Thomas, "se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze". Per esempio, chi ritiene che una persona su quattro in Italia sia straniera, amplificando enormemente la portata del fenomeno, � portato a pensare che il "peso" dell'immigrazione per le prestazioni dello Stato - in termini di Welfare, occupazione, sicurezza ecc. - sia maggiore di quanto � effettivamente nella realt�. E, ovviamente, i suoi orientamenti politici ed eventualmente i suoi comportamenti elettorali si adegueranno a quella convinzione. In questo modo una percezione distorta ha un'influenza diretta sulla realt�, cio� produce conseguenze concrete sulle opinioni dei cittadini, sulle proposte programmatiche dei partiti e, infine, sulle decisioni dei governi. Ecco perch�, in questa prospettiva, la percezione, anche se errata, � pi� vera del vero. Ovviamente, tra le cause dell'errore percettivo ci sono anche motivazioni soggettive, psicologiche. Sappiamo da tempo, e gli studi cognitivi e di neuroscienze ce lo ricordano da almeno trent'anni, che le nostre menti vanno costantemente alla ricerca di conferme dei nostri pregiudizi. I social frameworks che noi utilizziamo quotidianamente per organizzare la nostra esperienza individuale filtrano informazioni che riteniamo, per qualche ragione (comprese quelle emotive), rilevanti e tralasciano quelle considerate superflue o in contrasto con il nostro schema interpretativo di partenza. Ma oltre a questa spiegazione soggettiva, esistono anche altre ragioni contestuali che servono a spiegare l'enorme distanza che, in Italia, separa la percezione dalla realt�. Da un lato, ci sono motivazioni strutturali, sia di lungo che di corto periodo. Il ruolo dell'istruzione, tanto per cominciare, rientra tra quelle di lungo periodo e, anche da questo punto di vista, i dati parlano piuttosto chiaro. L'errore di percezione sulla presenza di immigrati in Italia aumenta al decrescere del livello di istruzione: per i laureati la percentuale di stranieri sulla popolazione si attesta al 17,9%, mentre per chi ha frequentato soltanto la scuola dell'obbligo quella percentuale balza al 28%. E se l'Italia ha il record negativo, certificato dall'Ocse, per numero di laureati (il 18% nel 2017, superiore solo al Messico) o per tasso di abbandono scolastico, non stupisce che siano proprio gli italiani ad avere, sul piano europeo, la visione pi� distorta sui temi legati all'immigrazione (e non solo). Tra gli altri fattori di lungo periodo, va considerato anche il fatto che l'Italia, storicamente, � stata un Paese abituato pi� all'emigrazione che non all'immigrazione. Soltanto negli ultimi tre decenni il saldo migratorio, ossia la differenza tra il numero di immigrati e quello di emigrati, � diventato stabilmente positivo. Nel 1991 gli stranieri residenti in Italia erano appena 350-mila, e cio� meno dell'1% della popolazione. Il che ha contribuito a mantenere, anche negli anni successivi, culturalmente piuttosto omogenea la societ� italiana, in termini religiosi, linguistici o etnici. Quasi inevitabilmente, all'interno di un contesto cos� poco abituato alle sfumature e alla presenza di significative minoranze nella societ�, la crescita - per certi versi, si potrebbe dire l'impennata - dell'immigrazione osservata soprattutto a cavallo tra il XX e il XXI secolo ha finito per creare una sorta di "effetto ottico" nella cittadinanza che d� maggiore rilievo allo straniero, all'estraneo o, semplicemente, al diverso. Di fianco a questi elementi di lungo termine, ne esistono per� altri legati a fattori pi� contingenti, che servono comunque a spiegare la mal percezione degli italiani rispetto al fenomeno dell'immigrazione. Tra questi, uno dei pi� rilevanti � sicuramente quello collegato alla crisi migratoria scoppiata tra il 2014 e il 2015, dopo il fallimento delle cosiddette "primavere arabe" e delle operazioni di regime change lanciate disordinatamente e inefficacemente in Libia e Siria. Lo sbarco sui porti italiani di circa 160-mila migranti all'anno - alcuni in fuga da regimi oppressivi, altri da situazioni socio-economiche non pi� sostenibili - ha creato un'ondata di allarmismo nella popolazione italiana a cui lo Stato, nelle sue diverse ramificazioni centrali e locali, non ha saputo fornire alcun tipo di risposta. Peraltro, solo una parte minoritaria dei migranti sbarcati sulle nostre coste � poi rimasta effettivamente sul territorio italiano. Anche se le decisioni e le azioni dell'Unione europea sono state intempestive e ben al di sotto delle reali necessit�, soprattutto per quel che riguarda la ripartizione dei rifugiati nei Paesi dell'Europa centro-orientale, va riconosciuto il contributo fondamentale degli altri Stati membri dell'Ue (Germania in primis) nelle attivit� di accoglienza e ricezione dei migranti. Tuttavia, l'impressione diffusa negli italiani, talvolta cavalcata o rintuzzata anche dai mezzi di comunicazione, � che l'Italia sia stata "lasciata sola" di fronte alla crisi dei rifugiati e, quindi, abbia dovuto affrontare da s� l'arrivo dei migranti sulle coste meridionali del Paese. Anche questo sentimento diffuso di abbandono europeo, che solo parzialmente trova conferme nella realt�, ha contribuito ad allargare la forbice tra la percezione e la realt� dell'immigrazione italiana. C'� poi un altro elemento, di natura squisitamente politica, che ha pesato nella diffusione di una visione distorta sul tema migratorio. Non c'� dubbio, infatti, che l'azione di Matteo Salvini come leader della sua "nuova" Lega nazional-nazionalista, costruita soprattutto attorno ai temi della difesa delle frontiere e di chiusura verso l'immigrazione, abbia fatto diventare questa tematica assolutamente centrale nel dibattito pubblico. Secondo i dati dell'Eurobarometro, nel 2012 erano meno del 3% gli italiani che consideravano l'immigrazione una priorit�, mentre sei anni dopo sono diventati pi� del 35% (di fronte a una media dell'Ue del 20%, peraltro in calo rispetto al biennio precedente). Dietro a queste percentuali, oltre ai fattori strutturali a cui si � fatto cenno in precedenza, c'� dunque anche l'abilit� di un imprenditore politico che ha saputo cavalcare le recenti ondate migratorie costruendo una narrazione politica che ha al suo centro la "difesa delle frontiere", la "chiusura dei porti" e la tutela prioritaria degli italiani ("prima gli italiani"). Da ultimo, c'� un aspetto che non pu� essere tralasciato quando si cerca di fornire una spiegazione esaustiva della misperception degli italiani sul tema dell'immigrazione. Si tratta, peraltro, di un aspetto che per troppi anni, soprattutto tra le forze politiche e le �lite intellettuali progressiste, � stato colpevolmente sottovalutato. Ovviamente, il rapporto tra immigrazione e (propensione alla) criminalit� non � n� diretto n� scontato come alcuni partiti politici vorrebbero lasciar intuire. Detto ancora pi� chiaramente: non � vero, in generale, che i cittadini stranieri delinquono maggiormente, cio� con pi� frequenza, rispetto agli italiani. � vero, per�, che per certe categorie di reato, in particolare quelle che creano un maggior allarme sociale, la percentuale di atti criminosi commessi dagli stranieri � pi� alta rispetto al resto della popolazione. E questo vale per i borseggi, le rapine, le violenze sessuali, i furti negli esercizi commerciali o nelle abitazioni e altri reati contro la propriet� privata. La combinazione di questi due elementi - diffusa micro-criminalit�, da un lato, e crescita della popolazione straniera, dall'altro - ha quindi favorito il formarsi di una visione ostile e distorta sulla presenza degli immigrati in Italia. Provo ora a riassumere. La questione dell'errore percettivo degli italiani sulla questione migratoria � una materia complessa, che ha spiegazioni vicine e lontane nel tempo, alcune strutturali e altre invece pi� congiunturali. Quel che � certo � che non esiste una motivazione sola dell'errata percezione degli italiani nei confronti dell'immigrazione. Cio�: non � tutta colpa di Salvini se gli italiani percepiscono almeno il doppio di immigrati rispetto a quelli realmente presenti, cos� come non � colpa soltanto di una scarsa istruzione e di una ancora pi� scarsa informazione pubblica. Ci� significa che, se si intende ridurre la distanza tra realt� e percezione, non bisogna concentrarsi solo su un settore o una questione specifica. Peraltro, chi ritiene che questa distanza non sia di per s� un problema, perch� frutto soltanto di una illusione ottica, non sente neppure il bisogno di sforzarsi per individuare una soluzione. Se il problema non c'�, la soluzione non si pone. Al contrario, chi pensa che dietro a quella enorme distanza tra i dati e le percezioni si annidi un problema serio � bene si attrezzi gi� da ora per affrontare con la dovuta seriet� la questione. Questo vuol dire, necessariamente, mettere in campo soluzioni che valgano sia per il breve che per il lungo periodo. Lo sforzo per una maggiore e migliore istruzione, soprattutto per le generazioni pi� giovani, deve continuare, possibilmente rendendolo ancora pi� incisivo. Lo stesso sforzo deve valere per il contrasto all'analfabetismo funzionale, soprattutto per quello cosiddetto "di ritorno": un altro campo dove l'Italia ha la maglia nera in Europa. Ma, come abbiamo visto, non si tratta solo e soltanto di una questione di conoscenza e informazione. Dietro l'errata percezione sull'immigrazione c'� anche l'assenza di un controllo efficace dello Stato nelle fasi di accoglienza, inserimento e integrazione degli immigrati nel tessuto sociale del nostro Paese. La politica dei "porti aperti" � una politica che pu� bastare al momento dell'arrivo degli immigrati sulle coste o alle frontiere italiane, ma che non ha nulla da dire sulle tappe successive, che sono poi quelle che maggiormente interessano/preoccupano i cittadini. Mi si pu� ribattere che anche i fautori della politica dei "porti chiusi" non hanno n� una politica n� una visione per la gestione dell'immigrazione. Il che � certamente vero. Ma loro il problema lo risolverebbero (il condizionale � d'obbligo) a monte, cio� evitando che il problema diventi effettivamente tale. Di conseguenza, non sono tenuti ad avere una proposta politica sull'immigrazione che vada al di l� della pura emergenza. Chi invece si fa paladino dell'accoglienza � chiamato a un compito ben pi� impegnativo, che � quello di elaborare un pacchetto di politiche efficaci in grado di garantire un'integrazione regolata, anzi governata, degli stranieri: senza finti "buonismi" e senza cedimenti multiculturalisti. C'�, infine, il tema politico per eccellenza che riguarda il racconto pubblico sul tema dell'immigrazione. Se il cuore della competizione politica �, per dirla con Elmer E. Schattschneider, "la mobilitazione di un bias" ovvero la capacit� di influenzare i pregiudizi dell'opinione pubblica a proprio vantaggio, � evidente che Matteo Salvini ha vinto la gara prima e dopo il 4 marzo. � lui che "possiede" il tema dell'immigrazione ed � sempre lui il protagonista eroico del racconto che ha imposto al Paese: una nazione minacciata alle frontiere, che rischia un'invasione senza controllo di nemici-stranieri e pretende l'azione energica di un "salvatore della patria". Se e finch� il confronto politico rimarr� ancorato a questa narrazione, per gli altri partiti all'opposizione non ci sar� competizione e continueranno a fare le comparse in una storia che non gli appartiene. L'unico modo per spezzare l'incantesimo � pensare fuori da quello schema, immaginando un'Italia diversa, che affronta la questione dell'immigrazione non dal lato dell'emergenza, bens� da quello dell'integrazione. Ma soprattutto che, dopo aver rassicurato il Paese sulla possibilit� di gestire senza traumi un flusso migratorio di circa 20-mila persone (quelle registrate nel 2018, fino ad oggi), riesce a convincere i suoi concittadini che l'emergenza vera � rappresentata dagli oltre 50-mila giovani italiani che ogni anno lasciano l'Italia per andare a cercare lavoro e fortuna all'estero. Per loro, i porti e le porte d'uscita sono sempre aperti. Anche troppo. Cosa significa desiderare? (di Alberto Oliverio, "Prometeo" n. 142/18) - Il desiderio, non � una "cosa" determinata una volta per tutte, ma uno stato di tensione che caratterizza l'esistenza umana. - � nella natura del desiderio di non poter essere soddisfatto, e la maggior parte degli uomini vive solo per soddisfarlo. (Aristotele, La politica) Per ogni desiderio ci si deve porre questa domanda: che cosa accadr� se il desiderio sar� esaudito e che cosa se non lo sar�? (Epicuro) Il desiderio non � soltanto una pulsione legata alla mancanza di un oggetto o a un bisogno primario. Il desiderio � condizionato, plasmato e indotto dalla cultura in cui siamo immersi, dalla pubblicit� centrata su modelli, ruoli, oggetti ideali, da forme di condizionamento, seduzione e insoddisfazione che vengono create fin dagli anni della prima infanzia. Il desiderio � al centro dei pensieri e delle azioni umane ma la sua definizione � tutt'altro che facile: Platone, nella Repubblica, parla di "una bestia multiforme e dalle molte teste (policefala)" e lo condanna come tipico della parte pi� bassa dell'anima e degli strati pi� spregevoli della comunit�. Per Spinoza, invece, � "l'essenza stessa dell'uomo". La difficolt� di definire il desiderio deriva sia dalle sue complesse relazioni con i bisogni e le pulsioni, sia dal fatto che si pu� caratterizzare in aspetti paradossali, una sorta di repulsione che attrae. Il desiderio ha aspetti sfaccettati, quello dell'amore, del sesso, della volutt�, della curiosit�, della speranza, e ha la dimensione dello slancio contraddistinto da un flusso incessante. Il desiderio si caratterizza per la violenza delle passioni ma anche per la misteriosa attrazione esercitata dall'oggetto, anche un oggetto materiale, e dalla serenit� che subentra nel momento della sua realizzazione, come indica Dante nel XXXIII canto del Paradiso nel momento in cui san Bernardo lo guida verso la contemplazione divina: "E io ch'al fine di tutt'i disii/ appropinquava, s� com'io dovea,/ l'ardor del desiderio in me finii". Dal punto di vista etimologico il verbo latino desiderare assomma il de- privativo e sidera, gli astri. Nella sua forma primigenia il significato � stato dunque quello di smettere di contemplare le stelle, ovviamente a scopo augurale, per poi significare "prendere atto dell'assenza di", associato a una sensazione di rimpianto. Ma in sostanza all'idea originale di "rimpiangere l'assenza" � subentrata una connotazione pi� positiva, la prospettiva di "cercare di ottenere, sperare di", gi� evidente nella lingua latina, di cui fanno parte immagini astrali come "lunam petere", volere la luna. In questo senso il verbo desiderare, come indica il De Mauro, entra a far parte della nostra lingua verso la fine del XIII secolo per riferirsi a un coacervo di stati o situazioni che vanno dall'appetito al bisogno, dalla fame all'inclinazione, dalle passioni alle tentazioni, a seconda che ci si muova in ambiti laici o religiosi. Ma quel che � certo � che gradualmente si afferma il concetto che ogni desiderio ha un oggetto e che ogni oggetto assomma in s� una serie di caratteristiche che lo rendono desiderabile agli occhi di una particolare persona. "L'oscuro oggetto del desiderio", per usare le parole di Luis Bu�uel, ha infatti una dimensione fortemente individuale, denuncia relazioni e radici che possono affondare nel passato di una persona, il che sottolinea il fatto che spesso nel desiderio vi sono aspetti irrazionali che rimandano al mondo soggettivo e intimo del "soggetto del desiderio", una dimensione che talvolta � ancor pi� oscura di quella dell'oggetto. Sigmund Freud, nel suo classico saggio sull'interpretazione dei sogni, distingue tra sogni "di comodit�", in cui il desiderio � concreto e palese, e sogni in cui l'oggetto del sogno � mascherato dalla censura onirica: "� facile dimostrare che spesso i sogni si rivelano, senza alcuna maschera, come appagamenti di desideri; cosicch� ci si pu� meravigliare che il linguaggio dei sogni non sia stato gi� compreso da lungo tempo. Per esempio, c'� un sogno che io posso produrre in me quando voglio, per cos� dire sperimentalmente. Se la sera mangio sardine, olive o qualsiasi altro cibo molto salato durante la notte mi viene sete e mi sveglio. Ma il mio risveglio � preceduto da un sogno che ha sempre lo stesso contenuto, cio� che sto bevendo. [...] La sete d� vita al desiderio di bere ed il sogno mi mostra quel desiderio soddisfatto compiendo una funzione, che � facile indovinare: io dormo profondamente e non sono solito farmi svegliare da qualsiasi bisogno fisico. Se posso calmare la mia sete sognando di bere allora non ho bisogno di svegliarmi per soddisfarla. Questo, dunque, � un sogno di comodit�. Il sognare ha preso il posto dell'azione, come succede spesso in altri casi della vita". Ma questi sono per Freud esempi di desideri banali: persino le oche desiderano e sognano il granturco, segnala con umorismo. La maggior parte dei sogni, invece, rimanda a desideri mascherati, sessuali, di potere, legati alla paura, e aprono quindi la porta all'interpretazione dell'inconscio. La razionalit� del desiderio Il desiderio, inoltre, � un desiderio di qualcosa ma al tempo stesso � anche il desiderio di qualcos'altro rispetto all'oggetto desiderato o, come indica Freud, all'oggetto palese. Esso ha dunque due dimensioni, una che comporta un aspetto pi� o meno consapevole, un'altra pi� sfuggente, dai contorni incerti. Per quanto riguarda la prima, rimanda allo sforzo che si compie, un impulso che spinge gli esseri umani a volere ci� che permette loro di "accrescere la propria potenza". Si tratta di una dimensione su cui Spinoza si � soffermato nell'Etica. "Questo sforzo, quando si riferisce alla sola anima si chiama volont�; ma quando si riferisce allo stesso tempo all'anima e al corpo si chiama appetito: l'appetito non � altro che l'essenza stessa dell'uomo dalla cui natura ne consegue necessariamente che si tratta di ci� che serve alla sua conservazione: e l'uomo � pertanto determinato a conseguirla. Per di pi� non vi � alcuna differenza tra desiderio e appetito, se non che il desiderio si riferisce generalmente agli uomini, in tanto che essi hanno coscienza dei propri appetiti e pu�, per tale ragione, essere definito in questo modo: il desiderio � l'appetito associato alla sua stessa coscienza". Per Spinoza il desiderio � un vero motore dell'essere, ci� che spinge ognuno di noi a realizzare ci� che riteniamo possa essere la causa del benessere, della gioia: � questa caratteristica che dovrebbe permettere di riconoscere o ipotizzare l'esistenza di un bene verso cui tendere. Come nota il filosofo, "� dunque stabilito da tutto ci� che noi non ci sforziamo invano, che non vogliamo, non appetiamo e non desideriamo alcuna altra cosa che non giudichiamo buona: ma al contrario, giudichiamo che una cosa � buona perch� ci sforziamo di raggiungerla, la vogliamo, appetiamo, desideriamo". Per questo motivo una persona che desidera un oggetto particolare non dovrebbe desiderarne un altro, anche se quest'altro ha una serie di propriet� che lo rendono, da un punto di vista esterno, pi� desiderabile del primo. Ma in realt� il desiderio nasce e si sviluppa in quanto si intravede la possibilit� di raggiungere, per il tramite di un oggetto specifico, qualcosa d'altro: in questo senso il desiderio non � separabile dalle attivit� che esso genera, il che, ancora una volta, sottolinea il fatto che le motivazioni del desiderio non sono mai del tutto evidenti, consapevoli. Il desiderio come vuoto ontologico La razionalit� e la linearit� della concezione di Spinoza pongono dunque in ombra gli aspetti inconsapevoli o non esplicitamente dichiarati del desiderio e ignorano, inoltre, un aspetto che oggi ha un ruolo centrale nella psicologia dinamica ma che affonda le sue radici nella filosofia di Platone. Si tratta del vuoto ontologico che caratterizza la condizione umana, il nostro rapporto con il tempo, con lo spazio, con l'altro. D'altronde, senza questo vuoto non sarebbe nemmeno possibile ipotizzare l'esistenza, la dimensione dell'Io. Il desiderio, infatti, non rappresenta una connotazione negativa dell'essere umano, un aspetto compulsivo del suo essere: � il desiderio che caratterizza la sua umanit�, che lo fa uomo. � Platone a notare nel Simposio come il desiderio non sia tanto - o soltanto - legato alla volont� di possesso, alla propriet� come realizzazione di un vero soddisfacimento, ma al senso di vuoto: e in questo senso il desiderio ha una capacit� generatrice, fino a portare dal vuoto all'eccesso. Questa lettura del desiderio � anche al centro del pensiero di Jacques Lacan, che indica come il desiderio sia ci� che ha origine nel momento in cui ci si rende conto che la domanda � ben superiore al soddisfacimento del bisogno e che esiste ancora e sempre qualcosa da desiderare. Il desiderio, insomma, non � una "cosa" determinata una volta per tutte, � invece uno stato di tensione che caratterizza l'esistenza umana, i rapporti di un individuo con il mondo che lo circonda e con gli altri. � per tale motivo che il desiderio non � assimilabile ai bisogni o alle pulsioni: spesso non ha un fine preciso, non pu� essere ridotto alla soppressione di uno stato di tensione, non � determinato a priori e non � identico in tutti gli individui. Inoltre, non � un fenomeno essenzialmente biologico e nemmeno una scelta volontaria: ha una qualche parentela con le scelte razionali, ma diversamente dalle azioni volontarie non sfugge ai condizionamenti e alle contingenze. Certo, esiste sempre un processo di elaborazione interna dei desideri che segue una sua logica, anche se questa non � riducibile a un algoritmo, secondo cui una persona persegue l'oggetto del desiderio e lo raggiunge o almeno tenta di raggiungerlo sulla base di una serie di passi lineari: in realt�, la persona pu� non avere ben presente il contenuto dell'oggetto o pu� indirizzarsi verso un altro oggetto perdendo di vista il primo, magari anche rimpiangendolo... "Noi non riusciamo a cambiare le cose secondo il nostro desiderio, ma gradualmente il nostro desiderio cambia", commenta Marcel Proust nella Ricerca del tempo perduto. E in effetti, una delle caratteristiche del desiderio � che evolve nel tempo, come d'altronde l'Io: durante la propria esistenza il soggetto cerca di costruire uno spazio che delinei il suo Io, tenta di definire le proprie particolarit� ma al tempo stesso vorrebbe assomigliare agli altri, cerca di realizzarsi, di lasciare una traccia, in ultima analisi di sopravvivere. Ma succede spesso che il senso della vita ci sfugga, che non si comprenda ci� che si vuole al di fuori delle richieste e delle aspettative degli altri. Ogni individuo � a un tempo un soggetto consapevole, che ha accesso alla propria vita mentale, e un soggetto inconsapevole: le sue scelte possono rivelare solo a posteriori i suoi obiettivi, la verit� del soggetto, e dei suoi desideri, "si esprime attraverso l'ambivalenza delle sue azioni e le contraddizioni dei suoi propositi" (M' Marzano, Je consens, donc je suis... �thique de l'autonomie, PUF, Paris 2006). Desiderio, motivazione, credenze Fin dai tempi di Hume la motivazione ad agire rappresenta una dimensione fondamentale del desiderio. Saremmo motivati a fare qualcosa soltanto se abbiamo il desiderio di farlo: non basta pensare che una particolare azione sia richiesta dalla situazione in cui ci troviamo, o che sia necessaria per qualche ragione, come sostiene il cognitivismo ortodosso: le credenze, cio� gli stati cognitivi, non sarebbero infatti sufficienti, da sole, per spingerci ad agire. Ci� non implica che sia sufficiente avere un desiderio per essere motivati ad agire: � necessario conoscere quali sono i mezzi necessari per soddisfarlo e avere una credenza in proposito: ad esempio, se vado al ristorante per soddisfare un mio desiderio alimentare, diciamo mangiare una polenta ai funghi, devo anche credere che in quel ristorante possano avere nel menu un piatto del genere. Ma secondo Hume, e i sostenitori della cosiddetta teoria humeana, desiderio e credenza hanno ruoli diversi: nella motivazione il desiderio d� una spinta all'azione, mentre una credenza pu� soltanto dare una direzione alla spinta motivazionale, non generarla. A questo modo di guardare alla motivazione - e ai desideri - si oppone il cognitivismo puro, di cui Jonathan Dancy � il pi� noto sostenitore. Anche i cognitivisti sostengono che desideri e credenze sono stati mentali distinti, ma ritengono pure che il desiderio non dia la spinta ad agire e non contribuisca alla motivazione: provare un desiderio sarebbe soltanto la dimostrazione che siamo motivati ad agire. La motivazione, invece, avrebbe origine soltanto da stati mentali cognitivi, cio� da credenze relative ai fatti: le credenze eserciterebbero quindi un ruolo attivo mentre i desideri sarebbero inattivi. La discussione sul ruolo di desideri e credenze in rapporto all'azione ha un notevole impatto anche sull'etica. Nelle scelte etiche, infatti, esistono due funzioni, una normativa (che ci indica cosa dovremmo fare guidando le nostre scelte e il comportamento) e una motivante che ci spinge ad agire in un modo particolare. Ora, alcuni sostengono che pu� esserci una ragione nel fare qualcosa soltanto se si ha il desiderio di farla, in quanto il legame tra ragione e desiderio motivante sarebbe essenziale ("internalismo delle ragioni"). Nella posizione opposta ("esternalismo delle ragioni") si sostiene invece la possibilit� che ci sia una ragione perch� facciamo qualcosa anche se non abbiamo desiderio di farla, come affermano Dancy e, in termini diversi, Thomas Nagel, che negano il ruolo motore del desiderio. Chi sostiene che la motivazione abbia sempre origine dal desiderio deve mostrare che quest'ultimo ha un ruolo preponderante nello spingerci all'azione e che si tratta di uno stato mentale distinto dalla credenza: la differenza tra desiderio e credenza consiste nel fatto che un desiderio � soddisfatto se lo stato delle cose che viene presentato in esso diventa reale, mentre una credenza � vera se lo stato delle cose che essa rappresenta corrisponde a quello reale. In altre parole, il desiderio � uno stato mentale a cui il mondo deve adattarsi e implica una forma di adattamento mondo-a-mente, mentre una credenza � soddisfatta se rappresenta in modo veritiero lo stato delle cose, implica cio� un adattamento mente-a-mondo. Lo psicologo americano Abraham Maslow ha compiuto una delle analisi pi� approfondite sugli aspetti autodiretti della motivazione basata su due punti fondamentali: l'esistenza di una motivazione alla crescita e di una gerarchia di bisogni. Questi ultimi si situano lungo una scala che comincia da quelli iniziali, essenzialmente fisiologici, per proseguire con i bisogni di sicurezza, di appartenenza, di amore, di stima, di autorealizzazione, di sapere, di capire, fino a quelli estetici. Secondo Maslow, quando gli individui hanno soddisfatto i bisogni minimi da "carenza" (fisiologici, di sicurezza, appartenenza, amore, stima) si sentiranno motivati a soddisfare i bisogni di crescita pi� elevati o di "essenza": autorealizzazione, conoscenza, comprensione, estetica. Questa fase della motivazione non avrebbe origine quindi da una mancanza ma da un desiderio di soddisfare bisogni pi� elevati, di "essere" in modo pi� pieno. I desideri e il cervello Il desiderio, come abbiamo accennato, ha diverse facce e "mattoni" che contribuiscono alla sua costruzione. Una di esse � quella che Daniel Berlyne ha definito la "motivazione di curiosit�", la fame di stimoli nuovi che contrastano la monotonia. Si tratta di una delle caratteristiche del cervello evoluto dei mammiferi superiori che si oppone a quella mancanza di stimoli che sono essenziali a lubrificare la "macchina cerebrale" per tenerla in efficienza. A tal punto il cervello ha bisogno di novit�, che � in grado di produrne anche durante il sonno quando i suoi nuclei profondi bombardano le trame cerebrali, contribuendo cos� ad attivare i circuiti della memoria, a riportare alla luce le esperienze e a generare i sogni. Nel corso della veglia, invece, l'immaginazione, la fantasia sono in grado di anticipare le conseguenze di azioni possibili, cio� di delineare oggetti del desiderio, che vanno dalla sfera sessuale alla realizzazione di quei sogni-desideri che hanno a che vedere con la realizzazione dell'Io. In questi ultimi anni gli psicobiologi hanno posto in luce alcuni meccanismi nervosi che vanno dalla capacit� di rispecchiare i comportamenti motori degli altri, attraverso i neuroni specchio descritti dal gruppo di Giacomo Rizzolatti, all'attivazione di neuroni puramente percettivi coinvolti nella percezione di azioni complesse. La conoscenza di questi meccanismi ha consentito di inquadrare sotto una nuova luce alcuni aspetti dei desideri riguardanti una dimensione interpersonale della mente che dipende, appunto, dall'entrata in funzione di sistemi cerebrali che vanno dal rispecchiamento delle azioni altrui alla capacit� di riconoscere le emozioni sulla base delle espressioni facciali e del comportamento di una persona, in primo luogo la paura, o di provare disgusto attraverso l'entrata in funzione dell'insula dell'emisfero destro. Giulio Giorello e Corrado Sinigaglia hanno sottolineato come queste conoscenze non si limitino a chiarire i rapporti tra percezione e movimento degli arti o dei muscoli implicati nelle espressioni facciali ma abbiano anche un significato pi� vasto: la percezione non sarebbe confinata al mondo visivo ma, attraverso le interazioni con sistemi finalizzati al movimento, costituirebbe un "invito all'azione". Questo impegno motorio ha dunque un significato filosofico pi� vasto: George Berkeley sosteneva che "esse est percipi aut percipere", un'affermazione che non si limitava a contestare che la percezione fosse un fatto essenzialmente visivo ma si opponeva anche a considerarla come un fatto meramente passivo. Nell'ambito dei desideri potremmo notare che osservare le azioni altrui pu� essere contagioso, indurre desideri, porci quasi in sintonia con lo stato mentale della persona che osserviamo. Accanto a questa dimensione interpersonale le nostre conoscenze sulla biologia dei desideri sono state arricchite dalla comprensione di quei meccanismi somatici che, come indica Antonio Damasio, svolgono un ruolo fondamentale nel dirci che siamo emozionati. Gi� Hume, nel suo trattato sulla natura umana, sosteneva che quando desideriamo qualcosa proviamo anche un'emozione, una propensione verso di essa: alla luce delle teorie e degli studi di Damasio, � l'emozione che contribuisce a "incarnare" il desiderio, a connotarlo e dargli quella pregnanza di cui sarebbe incapace la sola sfera cognitiva, la pura ragione. D'altronde, ci sono desideri che proviamo senza sapere di averli, desideri inconsci, opachi alla ragione, e desideri mascherati che non prendiamo in considerazione o ci rifiutiamo di analizzare perch� suscitano un senso di vergogna, perch� comportano paure inaffrontabili o, pi� semplicemente, perch� sono in contrasto con l'immagine che abbiamo di noi stessi, quella che ci siamo dati e che ha una dimensione pubblica. Anche a livello di desideri inconsci il rapporto tra emozione e desideri � particolarmente significativo: la nostra mente nota quelle situazioni in cui si verifica l'inatteso, i momenti in cui il nostro procedere verso gli scopi che ci siamo dati viene accelerato o bloccato. Secondo Damasio, che nega la dicotomia emozione-ragione, la ragione � guidata dalla valutazione emotiva delle conseguenze dell'azione, ad esempio tesa a soddisfare un desiderio. Cartesio sosteneva un dualismo tra mente e corpo, dove la mente era un'entit� razionale e pensante mentre il corpo era rivolto al puro soddisfacimento dei bisogni fisici. Per Damasio, invece, questa separazione � insensata e irrealistica: la mente � un prodotto evolutivo, � finalizzata al soddisfacimento delle nostre necessit� fisiche e psichiche, e per raggiungere questo obiettivo deve disporre di informazioni derivanti da quelle strutture nervose che elaborano le risposte affettivo-emotive che emergono dalle esperienze in cui siamo immersi e dai contenuti della memoria. Ogni decisione richiede una valutazione dei costi e benefici delle diverse opzioni, che man mano prendono corpo nella memoria di lavoro. L'aver incontrato una stessa o simile situazione nel passato implica che emergano le stesse componenti emotive che sono state suscitate allora da conseguenze positive o negative. Ci� comporta che la coloritura emotiva che caratterizza una decisione allo stato nascente ci informi delle sue possibili conseguenze che emergono dalle memorie emotive di esperienze pregresse. Questo meccanismo � stato chiamato da Damasio "marcatore somatico": i meccanismi fisiologici scatenati da un'emozione grazie all'attivazione del sistema nervoso autonomo (il sudare, l'accelerazione cardiaca, la contrazione muscolare, le contrazioni gastro-intestinali) sono quindi marcatori che illuminano le nostre decisioni "razionali". Per provare questa sua teoria, Damasio ha studiato il comportamento e le reazioni fisiologiche di persone che hanno sub�to danni alla corteccia orbitofrontale e ha notato che non mostrano quelle reazioni del sistema nervoso autonomo che normalmente si accompagnano a un'attivazione emotiva. Per esempio, di fronte a immagini dal contenuto traumatizzante, queste persone non andavano incontro a quell'insensibile aumento della sudorazione cutanea (rilevabile attraverso la risposta di conduttanza cutanea o GSR) che � invece evidente in persone dal cervello integro. Per valutare l'opportunit� e utilit� delle nostre azioni, vale a dire per prendere una decisione, la corteccia orbitofrontale deve servirsi di informazioni apprese sulla qualit� emotiva dei diversi stimoli: le connessioni tra la corteccia orbitofrontale e l'amigdala fanno parte di un circuito idoneo a tener conto di diversi tipi di memorie emotive. Desideri e dipendenza I desideri, dunque, hanno una dimensione emotiva: d'altronde, l'antico termine passioni rimandava, pi� del termine emozione, al desiderio che ne era alla base: la passione dell'innamorato, la passione degli amanti, quelle religiose, persino quelle patrie al centro degli ideali romantici, rimandavano al desiderio di assolverle, a uno stato di tensione per raggiungere l'oggetto ideale o idealizzato che poteva dominare l'esistenza: il desiderio di gloria e successo di Julien Sorel, il protagonista de Il rosso e il nero di Stendhal, il desiderio di realizzazione e d'amore da parte del giovane Werther, la brama dell'avaro di Moli�re, e cos� via, fino ai personaggi letterari dei giorni nostri, stanno a indicare come passione e desiderio generino un'affannosa ricerca dell'oggetto desiderato, una dipendenza che domina l'esistenza, come la droga per il tossicodipendente. Lo scienziato sociale Jon Elster si � chiesto, infatti, cosa abbiano in comune la dipendenza da emozioni, come nel caso dell'amore, e la dipendenza da sostanze. Esistono degli elementi comuni oppure hanno qualcosa di fondamentalmente diverso? Indubbiamente si pu� individuare un continuum che va dagli impulsi primari (fame, sete, desiderio sessuale) a desideri in cui la componente pulsionale � meno evidente, il radicamento biologico meno forte. Ma tutti i desideri sono caratterizzati da una componente emotiva pi� o meno forte, da uno "stato viscerale", cio� da un turbamento dell'omeostasi del corpo che indica alla mente, come sostiene Damasio, che il soddisfacimento di un desiderio non comporta soltanto una valutazione prettamente cognitiva, non si limita a rispondere a una credenza. Eppure nelle stesse credenze pu� esistere una componente viscerale, il che le accomuna, almeno in parte, alle pulsioni e ai desideri. Secondo Elster esistono, infatti, delle relazioni tra cognizione e stati viscerali o impulsi primari: anzitutto uno stato viscerale pu� essere suscitato da una credenza quando questa implica una motivazione, un desiderio; in secondo luogo, una volta suscitata, una credenza pu� modulare una motivazione viscerale (per esempio, si pu� provare invidia e vergognarsene; un bevitore modifica l'immagine di s� quando si considera un alcolista). Se le motivazioni, e con esse i desideri e la dipendenza che questi possono stabilire, sono legate alla cognizione, il ruolo dei fattori cognitivi � invece meno rilevante quando si considerano le dipendenze da sostanze d'abuso, il craving, il senso di compulsione al consumo che secondo la classifica del DMS-IV (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell'American Psychiatric Association) accomuna gran parte delle tossicodipendenze e che rappresenta il primo criterio diagnostico della sindrome da dipendenza. C'� inoltre una differenza tra forti desideri (craving) ed emozioni: le emozioni dipendono dalle credenze molto pi� del craving associato alla dipendenza e degli stati prodotti dalle droghe. Una forma di dipendenza � quella indotta dalla pubblicit� al fine di orientare i desideri delle persone. "Si deve riconoscere che il pubblicitario, per certi versi, � un manipolatore di cervelli quanto un neurochirurgo, anche se i suoi attrezzi e i suoi strumenti sono diversi", scriveva nel lontano 1957 "Advertising Age", la pi� importante rivista di pubblicit� a livello mondiale. L'autore di queste righe usava la metafora del neurochirurgo come un'iperbole, nello stile esagerato tipico della pubblicit� che per vincere la concorrenza deve cercare di colpire. A distanza di cinquant'anni, per�, questo paragone non sembra pi� tanto iperbolico. Nel 2004 il neuroscienziato Read Montague riusc� a dimostrare l'esistenza di un divario sorprendente tra gusto e vista. Invitate a indicare con gli occhi bendati una preferenza tra due bibite concorrenti, la Coca-Cola e la Pepsi, la maggior parte delle persone che si sottoposero al test si dissero pi� favorevoli al gusto della Pepsi che a quello della Coca-Cola. La stessa cosa per� non si verific� quando quelle stesse persone, non pi� bendate, espressero nuovamente il loro parere: molti di coloro che alla prima prova avevano scelto la Pepsi, alla seconda affermarono di preferire la Coca-Cola. Montague ne dedusse che il logo della Coca-Cola era pi� radicato di quello della Pepsi nell'immaginario dei consumatori e che la Pepsi doveva accontentarsi del secondo posto. La Coca-Cola, nata molto prima della concorrente e tramandata da una generazione all'altra, si era conquistata una "quota desiderio" nel cervello dei consumatori. Questa conclusione non spiega per� il motivo di un divario cos� sorprendente tra gusto e vista. Per capirne di pi� Montague � ricorso alla risonanza magnetica. Seguendo l'attivit� cerebrale di un gruppo di volontari, osserv� che quando una persona guarda l'immagine di un prodotto viene sollecitata una regione del suo cervello caratteristica, la corteccia prefrontale mediana. Mentre il test con gli occhi bendati coinvolge l'area cerebrale del cosiddetto nucleo accumbens (o striato ventrale) - una struttura cerebrale legata alla sensazione del piacere e del rinforzo - la corteccia prefrontale mediana si attiva in rapporto a ricordi, sensazioni, sentimenti che in una persona sono connessi a quel prodotto (abitudini quotidiane, ricordi infantili, pubblicit�, ecc') e che costituiscono la spinta verso il desiderio: ancora una volta, motivazione e desiderio ci appaiono come due diversi aspetti della mente, pur se intrecciati fra loro. La fabbrica dei desideri I meccanismi della dipendenza, le basi cerebrali del rinforzo, i condizionamenti che strutturano motivazioni, credenze e desideri non devono far passare in seconda linea il fatto che una delle caratteristiche del desiderio � di essere concatenato con una serie di esperienze, credenze e punti di vista difficilmente riducibili a singole entit� dotate di una propria autonomia. � possibile caratterizzare i singoli desideri, credenze, intenzioni, soltanto nell'ambito di una pi� vasta rete di atteggiamenti che conferiscono una certa coerenza a ogni singola intenzione, desiderio, memoria o persino percezione, o che fanno capo a una logica interna, quella che implica appunto che ogni singolo atteggiamento non possa essere scisso dalla sottile e vasta rete di atteggiamenti che un individuo si � formato, nel bene o nel male, nel corso della sua esistenza. Il desiderio non � quindi soltanto una molla che si deve scaricare appieno affinch� una persona si senta soddisfatta: d'altronde, se si va oltre il desiderio-pulsione, ci si rende conto che la realizzazione del desiderio � aperta a qualche compromesso, a contrattazioni. � quanto si verifica, per esempio, nel campo delle scelte economiche: in teoria si dovrebbe massimizzare il profitto, raggiungere l'obiettivo che comporti il ritorno pi� alto. In pratica, come indica Herbert Simon, premio Nobel per l'economia che ha coniato il termine "satisfice" (accontentarsi), in opposizione a "optimize" (massimizzare), la gente tende ad accontentarsi piuttosto che a massimizzare, scegliendo un percorso decisionale che soddisfi la maggior parte dei desideri. Parlando dell'invidia Felice Cimatti ne illustra una caratteristica, quella legata al "desiderare il desiderio": ma la stessa definizione � pi� prosaicamente il titolo di un best seller di sessuologia che punta a far ritrovare "il brivido della passione" e che individua alcuni "nemici" del desiderio che possono essere sconfitti, magari anche attraverso il ricorso al Viagra, motore di passioni e desideri calanti. "Desiderare il desiderio" rimanda per� anche alla sottile induzione cui sono oggi soggetti le pulsioni, i desideri, le aspirazioni, le scelte. Il desiderio, infatti, non � una pulsione che sgorga autonomamente dall'Io senza subire condizionamenti esterni. Una sua caratteristica fondamentale � quella di essere il frutto di sottili pressioni che a livello conscio, e soprattutto inconscio, portano continuamente a desiderare, spingono verso traguardi consumistici che mutano di continuo, verso desideri indotti fin dagli anni dell'infanzia, sotto la spinta di quei "persuasori occulti" che Vance Packard ha descritto in anticipo sui tempi (I persuasori occulti, Einaudi, Torino 2005). Nell'epoca dell'individualismo, inoltre, il desiderio � rivolto verso la realizzazione dell'Io, o meglio della propria immagine, a partire da quella fisica, dal corpo. Costruire il proprio corpo, "scolpire gli addominali", dare risalto ad alcune parti con tatuaggi o piercing, pu� rappresentare un progetto centrale. Il corpo � al tempo stesso plasmato dalla nostra mente e dalla cultura in cui viviamo, sottoposto a modifiche per potenziarne alcuni aspetti o per dargli una forma che risponda ai nostri desideri: il corpo di una persona anoressica o di un giovane "palestrato", il corpo ricoperto di tatuaggi o plasmato da diete e massaggi ci indica che esso esprime visioni del mondo e desideri. Tuttavia, accanto ai desideri che conferiscono al corpo un ruolo centrale, al di l� del suo richiamo sessuale, vi sono anche desideri centrati sull'esserci: questo oggi non riguarda tanto o soltanto lo status sociale ma la presenza e diffusione della propria immagine, il comparire. Youtube, i clip scambiati attraverso i telefonini, i blog, la messa in rete delle proprie foto, testimoniano l'aspirazione di essere presenti sulla scena grazie alla propria immagine: una nuova dimensione rispetto al passato, un segno che il desiderio evolve, condizionato, plasmato e indotto dalla cultura in cui siamo immersi, dalla pubblicit� centrata su modelli, ruoli, oggetti ideali, da forme di condizionamento, seduzione e insoddisfazione che vengono create fin dagli anni della prima infanzia e che, in buona sostanza, hanno al loro centro il consumo.