Marzo 2020 n. 3 Anno V Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del MiBACT. Indice � riformabile il capitalismo? Il costo dei batteri � riformabile il capitalismo? (di Valerio Castronovo, "Prometeo" n. 148/19) - Perch� � tornato quest'interrogativo e quali sono le tesi a confronto. - L'alba del Terzo Millennio era stata salutata in Occidente sull'onda di grandi aspettative, di una pressoch� unanime fiducia nel futuro. Non solo perch�, dopo il crollo dei regimi comunisti nell'Europa dell'Est e l'estinzione dell'Unione sovietica, era finita l'epoca della Guerra fredda e nessun altro genere di messianesimo ideologico e politico era comparso all'orizzonte. Ma anche perch� si pensava che sarebbe stata l'America, l'unica superpotenza rimasta sulla scena e protagonista della rivoluzione informatica, a orientare la direzione di marcia del mondo nel nuovo secolo. D'altra parte, se l'America di Ronald Reagan aveva riportato in auge negli anni Ottanta i principi del liberismo all'insegna della scuola monetarista di Milton Friedman, a sua volta l'America di Bill Clinton aveva coniugato determinati leitmotiv neo-liberisti con alcuni obiettivi di interesse collettivo. Di conseguenza lo Stato avrebbe dovuto circoscrivere l'ambito dei suoi interventi nella sfera economica e contribuire soprattutto, con adeguati incentivi nel campo della formazione, ad addestrare e temprare le persone ai cambiamenti, in modo da renderle in grado di camminare con le proprie gambe, e quindi di progettare il proprio itinerario e la propria collocazione nella societ�. Di qui la grande importanza attribuita alle motivazioni personali, allo spirito d'iniziativa e alla capacit� di aggiornare le proprie cognizioni. Insomma, una sorta di "Terza Via", consistente in un sistema economico pi� efficiente e flessibile, imperniato su un equilibrio fra competizione e cooperazione internazionale, fra i principi della libera iniziativa e ponderate forme di protezione sociale. Se la Gran Bretagna di Tony Blair (il leader del New Labour, insediatosi nel 1997 a Downing Street) aveva condiviso la prospettiva di un sistema con "meno Stato e pi� mercato", era stata comunque l'America a tradurla in atto con pi� efficacia e incisivit�, grazie a un vigoroso dinamismo che aveva consentito di aumentare la produttivit� del lavoro e la redditivit� del capitale, e di mobilitare perci� nuove risorse per affrontare le sfide del mercato globale. Dall'industria al terziario, dalla ricerca tecno-scientifica all'intermediazione fiianziaria, dalle attivit� di marketing al commercio e-mail, non c'era un altro Paese al mondo dove stesse avvenendo un'analoga dislocazione del sistema economico verso un insieme di servizi basati sulla conoscenza e su nuovi saperi. Inoltre, il dollaro era tornato d'autorit� sul piedistallo che occupava prima della crisi degli anni Settanta e questo consentiva agli Stati Uniti di finanziare il disavanzo della propria bilancia dei pagamenti, mentre Wall Street era divenuta la Mecca per investimenti d'ogni sorta, in particolare quelli destinati verso imprese specializzate nella telematica e nel commercio elettronico. Perci� il capitalismo a stelle e strisce era tornato in auge, sebbene alcuni analisti ammonissero sui rischi derivanti da una eccessiva concentrazione di quattrini e di aspettative fortemente remunerative sui titoli dell'hi tech. Ma la Federal Reserve Bank non era di questo avviso. D'altronde, il mercato finanziario continuava a tirare: e dal 1995, dopo la nascita della Wto (l'Organizzazione mondiale del commercio), si riteneva che, con la progressiva liberalizzazione degli scambi, le cose sarebbero andate ancora meglio. D'altronde la globalizzazione aveva cominciato a dare alcuni frutti tangibili consistenti nella progressiva riduzione delle aree di povert� e di emarginazione. Nel 2004 la quota di popolazione costretta a vivere con un dollaro o meno al giorno era diminuita, rispetto ai primi anni Ottanta, dal 40 al 18 per cento. E se i Paesi africani continuavano per lo pi� a vegetare in condizioni endemiche di miseria e arretratezza, quelli dell'America Latina, che in passato boccheggiavano sotto un fardello di ingenti debiti pubblici e di un'inflazione a due cifre, avevano preso a marciare: alcuni speditamente come il Brasile, altri recuperando terreno (come l'Argentina), altri ancora (come il Cile e il Messico) procedendo ulteriormente sulla strada dello sviluppo. Ma era soprattutto una parte consistente dell'Asia a dar prova di notevole vitalit�, a cominciare dalla Cina e dall'India che stavano bruciando le tappe sulla strada della crescita economica. Insomma, sembrava che non ci fosse altro che andare avanti sulle direttrici di marcia aperte dalla "New Economy", dagli effetti a raggiera delle tecnologie informatiche e dalle nuove opportunit� di sviluppo emerse con la globalizzazione degli scambi, degli investimenti e delle transazioni finanziarie. Senonch� a rannuvolare questo firmamento economico dalle tinte cos� rosee era scoppiata negli Stati Uniti la bolla dei titoli tecnologici, dopo che nel 1999, in seguito a una delibera pressoch� unanime del Congresso, s'era consentito, abolendo una legge in vigore dal 1933, anche alle banche commerciali (quelle abilitate a raccogliere i depositi e a prestare denaro alle imprese) di compiere le stesse operazioni, nella negoziazione di titoli e nel credito ordinario, riservate fino ad allora alle banche d'investimento. � vero che con questo provvedimento si voleva accrescere la sfera d'azione e la flessibilit� del sistema finanziario americano. Ma le principali banche s'erano man mano trasformate in una sorta di supermercati dando la stura alla comparsa, come i funghi, di nuovi titoli, come i "derivati sul credito" con un sempre maggior grado di complessit� e, insieme, di opacit� e di azzardo. Si trattava infatti di operazioni che avevano per riferimento non gi� il conto patrimoniale, ossia orientate secondo una logica di medio-lungo periodo, bens� il conto economico, e quindi in base a una logica di breve termine, di mese in mese, se non di giorno in giorno, che puntava a risultati immediati. Gi� a quel tempo alcuni economisti avevano cominciato a sottolineare quale grave minaccia fosse insita nella crescente finanziarizzazione dell'economia per via del sopravvento di una congerie di operazioni speculative. Di fatto, fra i molti titoli riversatisi a Wall Street erano andati aumentando notevolmente, sino a raggiungere la cifra imponente di 60 mila miliardi di dollari (pari a quattro volte il Pil americano), i "credit default waps" (ossia, dei titoli consistenti in scommesse sulla capacit� o meno di questa o quella societ� di rientrare dai propri debiti). Rispetto al passato aveva perci� preso il sopravvento la produzione di denaro per produrre altro denaro, senza che di mezzo vi fosse n� lavoro, n� produzione di beni e di servizi: di qui il divario fra la produzione effettiva di ricchezza e la sua moltiplicazione fantasmatica, dovuta a una neo-aristocrazia finanziaria di banchieri d'affari e top manger, che puntava a moltiplicare rapidamente e abbondantemente i propri guadagni in base a procedimenti di facile maneggio. D'altra parte, dopo il ritorno alla Casa Bianca di un esponente repubblicano come George W. Bush, la nuova amministrazione, sospinta dagli araldi di un mercatismo dogmatico, aveva applicato alla lettera i precetti della deregulation. Per l'amministrazione in carica, assorbita dai problemi di politica estera, quel che importava era, comunque, che l'economia continuasse a tirare. Per di pi�, dato che la Fed aveva mantenuto bassi i tassi di interesse e s'era cos� creata un'enorme massa di liquidit�, il governo federale aveva continuato a incoraggiare lo sviluppo del mercato immobiliare. Dopo che s'era esaurita la fase espansiva trainata dal "boom" dell'informatica, non si vedeva infatti quale altro comparto, se non quello dell'edilizia residenziale, fosse pi� promettente e di sicuro affidamento, dato che andava crescendo la domanda di abitazioni. Fatto sta che le banche avevano facilitato quanti intendevano comprarsi un appartamento con una batteria di mutui a condizioni tali da invogliare a questo passo anche chi non avrebbe potuto sul momento permetterselo. Non solo perch� avevano assicurato che si sarebbe potuto cominciare a pagare i relativi interessi dopo uno o due anni. D'altro canto, le banche e le societ� che concedevano il mutuo badavano subito dopo a cartolarizzare questi loro crediti, tagliandoli in tanti pezzetti e reimpacchettandoli in vari prodotti finanziari da porre in vendita sul mercato dei capitali. Tutto era filato liscio o quasi, sino alla primavera del 2007 quando s'erano manifestati i primi sintomi di un cedimento del mercato immobiliare. Mentre i prezzi andavano scendendo a vista d'occhio, s'era manifestato anche un aumento delle insolvenze sui mutui subprime (cosiddetti in quanto concessi dalle banche senza effettive garanzie di reddito accertato dei mutuatari). Perci� le banche avevano cominciato a sentire puzza di bruciato. Non soltanto negli Stati Uniti s'era spinto ad oltranza il pedale su operazioni immobiliari finanziarie pi� o meno con lo stesso genere di prestiti. Anche in Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e in altri Paesi s'era puntato sull'espansione del mercato immobiliare e alla fine i prezzi delle case erano saliti troppo in alto per invogliare altri possibili compratori a farsi avanti. Ma intanto erano soprattutto le banche americane a trovarsi nell'occhio del ciclone, e si trattava delle pi� grosse, come s'era scoperto man mano, in seguito alla valanga di insolvenze emerse fra l'autunno del 2007 e la primavera dell'anno successivo. Dopo che in Gran Bretagna e negli Stati Uniti si era dovuto ricorrere all'intervento dello Stato per ricapitalizzare alcune grandi banche travolte dal crollo di Wall Street, era cos� venuto meno un articolo di fede durato per quasi trent'anni: ossia che la deregulation fosse di per s� tale, in ogni evenienza, da garantire uno sviluppo preminente dell'economia e un equilibrio virtuoso del mercato. Era scoccata adesso la rivincita di quanti avevano continuato negli ultimi anni a esprimere critiche severe nei confronti della politica di Bush, non senza chiamare in causa peraltro anche l'operato del suo predecessore, in quanto la deregulation era stata condivisa negli anni Novanta dallo "stato maggiore" del partito democratico. Tra i primi a indicare quale strada si dovesse percorrere per ridare fiato all'economia americana, era stato Joseph Stiglitz (premio Nobel per l'economia nel 2001), che aveva denunciato pi� volte gli eccessi speculativi delle banche. La sua opinione era che fosse necessario adottare fin da subito un vasto programma di opere pubbliche e infrastrutture per rivitalizzare gli investimenti: ci� che riecheggiava in pratica quanto s'era fatto, col New Deal, durante la grande crisi negli anni Trenta. A sua volta, un altro censore risoluto della deregulation, come Paul Krugman, sosteneva che occorreva predisporre un piano che scongiurasse il pericolo di una disoccupazione di massa e ridesse fiducia alla "middle class", in quanto essenziale per una ripresa dell'intero sistema. Dello stesso avviso era Robert Reich, per tre volte ministro ai tempi di Bill Clinton, e l'ultima delle quali come segretario al Dipartimento del lavoro, quando aveva concepito, con il "welfare to work", una riforma del sistema di protezione sociale. Per lui, si trattava anche di ampliare l'area dell'assistenza sanitaria pubblica che lasciava ampiamente a desiderare. Insomma, sembravano tornati in auge i precetti di Keynes. Senonch� questa crisi non era paragonabile a quella degli anni Trenta, faceva per tanti aspetti storia a s�, dato che occorreva individuare delle terapie che fossero sintonizzate sia con i nuovi problemi strutturali emersi nel frattempo, sia con la progressiva interconnessione mondiale dei mercati. Sta di fatto che anche Bush s'era convinto che non si potesse togliere dalla circolazione i "titoli spazzatura", andandoli a cercare da ogni parte per poi acquistarli con una parte dei fondi del "maxi-piano" varato ai primi di ottobre, in quanto le procedure sarebbero state troppo lente e complesse. Occorreva agire immediatamente e quindi destinare la maggior parte dei mezzi disponibili all'ingresso della mano pubblica nel capitale delle banche. In Europa, oltre che in Gran Bretagna, pure in Germania ci si era orientati verso una soluzione analoga, in quanto la coalizione ministeriale di Angela Merkel si apprestava a nazionalizzare la Commerzbank e a valutare se si doveva agire allo stesso modo nei riguardi della Deutsche Bank. Inoltre, se negli Stati Uniti Bush aveva deciso di suo pugno (con l'appoggio del presidente neo-eletto Barack Obama) lo stanziamento di 14 miliardi di dollari per scongiurare il naufragio della General Motors e della Crysler, aggirando l'opposizione di alcuni senatori del suo partito, anche in Francia e in Germania si stava predisponendo un piano di aiuti a sostegno dell'industria automobilistica. Insomma, lo Stato era tornato di scena, e appariva evidente, di fronte alle previsioni sempre pi� fosche sulla portata della recessione, che gli interventi pubblici erano destinati a moltiplicarsi. Mai gli americani s'erano trovati dal secondo dopoguerra in preda a un senso di smarrimento e di frustrazione come quello in cui erano precipitati a causa di una crisi economica cos� grave. Proprio per questo Barack Obama, non appena insediatosi alla Casa Bianca, aveva varato un piano che contemplava la creazione entro il 2011 di tre milioni di posti di lavoro, un cospicuo programma di opere pubbliche e infrastrutture, una serie di incentivi per la crescita della domanda e degli investimenti, nonch� alcune misure per lo sviluppo delle "tecnologie verdi", in funzione di un sostanziale miglioramento delle condizioni ambientali. In pi� il governo aveva promesso una riduzione dei prelievi fiscali sui proventi dei ceti medio-bassi e dei rimborsi per le piccole e medie imprese, in modo da assicurare loro pi� liquidit� al fine di ammortizzare eventuali perdite e di favorire gli investimenti. Si trattava tuttavia di vedere come assicurare la copertura finanziaria di un programma cos� impegnativo. Durante la presidenza di Bush il debito pubblico era infatti aumentato di oltre il 72 per cento e il deficit del bilancio federale era salito a una cifra considerevole rispetto al Pil. In pratica, la crescita del reddito nazionale americano era avvenuta negli ultimi anni sempre pi� a debito e in presenza di una cronica carenza di risparmi interni. E fra quanti avevano prestato i soldi agli Stati Uniti, comprando i loro bond, era balzata in prima fila la Cina, che aveva scavalcato il Giappone. Sebbene il piano di Obama fosse stato ridimensionato dal Congresso rispetto a quello originario, si calcolava che, per gli oneri di cui s'era fatto carico il Tesoro, il debito pubblico sarebbe cresciuto nel 2009 di almeno nove punti, sino all'81 per cento del Pil. D'altronde, anche a contare i tagli alle "spese improduttive", risultava evidente che gli Usa dovevano ricorrere, in primis, ai Paesi che gi� avevano contribuito in passato a finanziare il debito pubblico americano. Una politica monetaria ancorch� aggressiva, mediante una riduzione sino a zero del tasso d'interesse (come la Fed era giunta ad attuare dal gennaio 2009), non sarebbe stata comunque sufficiente a bloccare una congiuntura recessiva cos� pesante. Di conseguenza, ci si chiedeva se il pi� poderoso sistema capitalistico al mondo avrebbe potuto risollevarsi senza ricorrere, paradossalmente, a una spinta decisiva da parte della Cina comunista. Poich�, sebbene il "Dragone rosso" si fosse frattanto convertito a una sorta di "socialismo di mercato", aveva continuato pur sempre a declinare sul piano politico i precetti marxisti-leninisti. Ma i dati di fatto stavano a dimostrare che s'era stabilito negli ultimi dieci anni un legame a doppio filo fra le due sponde del Pacifico. Su un totale di 2860 miliardi di dollari in buoni del Tesoro, a cui ammontava il debito estero degli Stati Uniti, ben 585 miliardi erano quelli contratti con Pechino. Inoltre, sommando anche i titoli di Stato garantiti da prestiti ipotecari e quelli di societ� statunitensi di cui la Cina era in possesso, la cifra complessiva del debito americano nei confronti di Pechino superava i 1200 miliardi di dollari, una cifra equivalente in pratica a due terzi del totale in valuta straniera che i cinesi avevano accumulato fra il 2004 e il 2008. L'ultimo "pianeta rosso" aveva cos� finanziato fino ad allora gli squilibri del "gigante capitalistico" americano. In sostanza, la tempesta finanziaria esplosa nel 2008 aveva messo in luce la mancanza di una governance a livello globale, di qualcosa che fosse analogo al sistema di Bretton Woods, che fino al 1971 aveva assecondato le relazioni commerciali e garantito un regime stabile dei cambi. Occorreva quindi non solo rafforzare o modificare gli strumenti d'intervento del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale, le cui funzioni si erano appannate nel corso del tempo. Era indispensabile dar vita a un nuovo sistema di partenariato dell'economia globale fondato sul multilateralismo, su un complesso di apposite norme contro la manipolazione delle valute, di codici giuridici efficaci in materia di brevetti e diritti di propriet� intellettuale, di precise clausole per la trasparenza dei movimenti di capitale, di pi� salde garanzie a tutela dei risparmiatori e degli investitori. Un autorevole economista come Dani Rodrik aveva rilevato a questo proposito che si sarebbe dato vita, in base (per l'appunto) a determinati criteri e congegni regolatori comuni, a una "globalizzazione intelligente", ossia pi� efficace, equa e sostenibile. Occorreva a tal fine evitare che i mercati finanziari continuassero a operare a briglia sciolta assoggettando in pratica Stato e governi alle loro logiche e strategia; ma senza ripristinare, per questo, lo "Stato grosso", pesante e invadente del passato, bens� attenendosi a efficaci politiche del bilancio pubblico e varando adeguate misure di stimolo alle innovazioni e alla crescita dei fattori produttivi, passando in pratica dal "Welfare state" (che aveva democratizzato il capitalismo nella seconda met� del Novecento) all'"Innovation state", in quanto il futuro dei Paesi pi� avanzati e di quelli emergenti sarebbe dipeso sempre pi� dalla quarta rivoluzione industriale, dalle nuove tecnologie specializzate ed alta intensit� di capitale. Senonch� esse, comportando la sostituzione di forza lavoro poco qualificata con macchine azionate da un numero inferiore di lavoratori altamente qualificati, sono destinate a creare profonde diseguaglianze col pericolo quindi di grandi conflitti sociali e politici. Di qui la funzione essenziale dello Stato, quale gestore dell'innovazione, dato che (come aveva rilevato Maria Mazzuccato, un'economista italiana dell'University College di Londra) il settore privato ben difficilmente avrebbe potuto assumersi il rischio di farsi carico di un compito del genere. D'altra parte, la creazione di un sistema normativo tale da garantire la limpidezza delle operazioni finanziarie, promuovere la diffusione delle nuove conoscenze e favorire la condivisione delle decisioni pi� rilevanti fra autorit� nazionali di vigilanza e quelle di monitoraggio sovranazionali, non poteva venire lasciato in pratica nelle mani di ristretti gruppi di tecnocrati. Altrimenti sarebbero venute meno le prerogative dei parlamenti e dei governi. Che fosse ormai avvertita la necessit� di un cambiamento in un modo o nell'altro, lo attestava anche il ritorno nel dibattito pubblico, nel bicentenario della nascita di Karl Marx, di alcuni assunti del pi� illustre teorico del socialismo e del comunismo. Sebbene le previsioni del pensatore di Treviri sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, o sull'immiserimento e la crescente omogeneit� dei lavoratori salariati, non si fossero verificate, restava tuttavia valido quanto egli aveva intuito e predetto: ossia che lo sviluppo della produzione basata sul mercato e sul profitto avrebbe determinato tensioni e crisi continue, attraverso un "processo di distruzione creatrice". Poich� il capitalismo � di per s� contraddittorio, funziona per salti, che ogni volta producono innovazioni incessanti e merci complesse, e mettono inevitabilmente in discussione i nuovi equilibri cos� raggiunti. Nell'epoca del mercato globale e della rivoluzione digitale le imprese multinazionali hanno trovato il modo, mediante le nuove tecnologie, di acquisire profitti monopolistici che gli organismi antitrust non riescono a prevenire o comunque a intercettare. Ci� che aveva portato economisti progressisti come Stiglitz e Reich a sottolineare l'importanza di un maggior ruolo dello Stato per una regolamentazione del mercato in modo da impedire la formazione di eccessive concentrazioni di ricchezza e di potere nelle mani di pochi grandi gruppi privati. Ma, secondo due studiosi americani come il giurista Eric Posner e un filosofo come Glers Weyl (poi ricercatore in Microsoft), l'interventismo pubblico non sarebbe pi� bastato, nell'et� di Internet e del Big tech, a correggere la direzione di marcia del capitalismo senza una radicale trasformazione, in via generale, del modo di concepire, tassare e scambiare la propriet� di beni d'ogni tipo. In pratica, si stava facendo strada l'idea che fosse giunto il momento non solo di rivedere gli attuali meccanismi di mercato ma di procedere anche a una graduale trasformazione dei diritti di propriet�. Sino al punto, stando ad alcune ricette provocatorie contenute nei Radical Markets di Posner e Weyl, di portare a una sorta di "collettivismo radicale", basato su un sistema di aste continue nelle quali, di fatto, "tutto ci� che abbiamo non � nostro", ma lo abbiamo in affitto e la "wealth tax � il canone che paghiamo". Dopo che il mondo occidentale stava ricavando vantaggi e benefici proporzionalmente minori rispetto a quelli che andavano conseguendo i suoi competitor, a cominciare dalla Cina, il dibattito sul capitalismo non era rimasto pi� circoscritto in determinati ambienti accademici e culturali, ma aveva coinvolto pi� ampi settori di opinione pubblica. Erano infatti cresciuti gli interrogativi e le apprensioni di fronte alle rilevanti mutazioni determinate dagli sviluppi di un mercato globale sempre pi� multipolare e dagli effetti dirompenti della rivoluzione elettronica-informatica che falcidiava posti di lavoro fra gli strati operai e quelli impiegatizi, ma pure nell'universo delle piccole imprese e delle libere professioni. D'altronde, a conferma di quanto fosse cambiato nel giro di due decenni l'assetto del precedente sistema di governance dell'economia mondiale, stava il passaggio dal G7 al G20: ossia, a un sistema sempre pi� interconnesso ma nel contempo pi� instabile e mutevole per via della sua magmatica complessit�, in quanto formato da Paesi estremamente eterogenei sotto il profilo tanto politico che sociale e culturale. Il summit del G20, tenutosi nell'ottobre 2018 a Buenos Aires, aveva reso sempre pi� palesi le difficolt� di disinnescare le tensioni esistenti nel campo delle relazioni commerciali ma anche di superare le remore di alcuni Paesi (a cominciare dagli Stati Uniti di Donald Trump, staccatisi dagli Accordi di Parigi in materia ecologica) a un'efficace politica collegiale volta a bloccare il peggioramento delle condizioni ambientali. In questa situazione, alcune grandi corporation americane sono giunte nell'agosto 2019 a mettere in discussione un principio come quello, sancito negli anni Settanta, dalla scuola friedmaniana di Chicago, secondo il quale l'obiettivo precipuo del "fare impresa" deve consistere nel creare valore per gli azionisti. Al posto di questa sorta di dogma, che bocciava qualunque "coscienza sociale" delle imprese alla stregua di una deriva verso il socialismo, e che era al centro di critiche e polemiche sempre pi� roventi, la Business Roundtable, un'associazione che annovera quasi 200 imprese della grande Corporate America (con un fatturato complessivo di oltre sette triliardi di dollari), ha enunciato che, accanto al profitto degli azionisti, occorre perseguire anche gli interessi degli stakeholder (ossia dipendenti, fornitori, consumatori, comunit� locali). Di qui la domanda che � andata ponendosi: se siamo effettivamente in presenza di una "svolta etica" da parte del capitalismo americano, destinata a far scuola. Una svolta, dovuta all'intento dei gruppi di maggior stazza di rilegittimare il proprio ruolo, come soggetto non pi� autoreferenziale ma inclusivo. E ci� in quanto il mondo in cui si trovano a operare � caratterizzato oggi da diseguaglianze sociali ormai intollerabili, da crescenti rischi ambientali e dalle difficolt� sempre pi� ardue degli Stati nazionali a perseguire adeguate politiche redistributive e di sostegno, attraverso il Welfare, delle fasce di popolazione pi� vulnerabili. Di qui una presa di coscienza del fatto che non � pi� possibile far conto sugli eccessi di una finanziarizzazione dell'economia che aveva consentito agli azionisti e ai supermanager del Big Business guadagni da capogiro (sino a oltre 600 volte il salario mediano di un lavoratore), tra dividendi e bonus, a scapito degli stakeholder e delle opportunit� di crescita tanto dell'economia che della societ� americana. Ma come e in quale misura la consapevolezza di questo stato di cose potrebbe determinare un mutamento concreto di scenario e di prospettiva? In sostanza, il capitalismo � riformabile? Innanzitutto, per comprendere quali siano i motivi che hanno portato la Business Roundtable a mettere nero su bianco la questione di un cambio di paradigma e di percorso della corporate governance, occorre tener presente il contesto in cui ci� � avvenuto, col passaggio dal fordismo all'economia della conoscenza. Ci� che ha visto, da un lato, un aumento delle diseguaglianze e un declino di status della middle class e, dall'altro, una crescita delle imprese innovative e la formazione di una fascia di classe media emergente, in quanto s'� avvantaggiata delle nuove cognizioni e competenze determinate dalla quarta rivoluzione industriale e ha perci� avuto modo di acquisire un reddito soddisfacente. Il contesto americano � quindi ben diverso da quello dei Paesi europei pi� avanzati, caratterizzati dall'economia sociale di mercato e da varie forme di interventismo pubblico ancorch� circoscritte dopo la sequenza di privatizzazioni e le liberalizzazioni avvenute dagli anni Novanta nell'ambito dell'Unione europea. Non � perci� un caso se nel documento della Business Roundtable non compaia alcun cenno allo Stato. Tanto da chiedersi se ci� sia dovuto al fatto che le maggiori imprese statunitensi si sentano comunque cos� grandi e dotate di tali risorse da poter fare tutto da sole nel cambiare le cose in merito a un mutamento delle proprie finalit� rispetto alla centralit� assoluta del profitto per gli azionisti; oppure al timore che finiscano col prevalere, in vista delle prossime elezioni presidenziali americane, le tesi pi� radicali di candidati del Partito democratico come quelle di George Sanders o di Elizabeth Warren, fautori di un intervento regolatore del Congresso e del governo federale per la creazione di una societ� inclusiva o comunque pi� sensibile alla promozione degli interessi dei lavoratori. Esiste, insomma, pi� di un dubbio a proposito della possibilit� che le enunciazioni dei vertici della Business Roundtable si traducano in scelte e misure precise. E quindi tali da modificare sul serio il catechismo ultraliberista della deregulation, che ha consentito di massimizzare i profitti sottostando al minimo possibile di norme e monitoraggi da parte dei pubblici poteri. Pur ammettendo che per un motivo o per l'altro la "svolta etica" del capitalismo, auspicata dai massimi rappresentanti della Corporate America, corrisponda realmente all'obiettivo di migliorare le condizioni dei lavoratori e di arricchire la societ�, c'� tuttavia da chiedersi in che cosa consista in pratica un capitalismo inclusivo, con pi� attori e partecipanti, rispetto a quello degli azionisti come unici protagonisti e percettori dei proventi dell'impresa. Tanto pi� in considerazione non solo del ruolo degli stakeholder, ma pure della tutela dei consumatori (in merito alla qualit� dei prodotti e dei servizi) e della comunit� (dai problemi ambientali a quelli dell'uguaglianza di genere). Alcuni esponenti politici americani hanno espresso il loro scetticismo nei riguardi dei proclami della Business Roundtable. A cominciare dall'ex segretario al Tesoro di Bill Clinton, Larry Summers, che ha detto al New York Times: "Sono diffidente, temo che la retorica sia una strategia per evitare una necessaria riforma fiscale e normativa. Ci� che, insieme a un nodo come quello del monopolio del Big Tech, non basterebbe sicuramente una dichiarazione d'intenti a sciogliere". Inoltre va considerato, a suo giudizio, il trauma sociale, dovuto alla perdita di posti di lavoro per via dei progressi della tecnoscienza, di cui i detentori del capitale sono i principali beneficiari. A questo proposito un insigne economista statunitense come Jeffrey Sachs, che dirige il Centro per lo sviluppo sostenibile presso la Columbia University di New York, ha messo in evidenza quale impatto sul lavoro umano e sulla dignit� della persona abbia generato in gran parte la quarta rivoluzione industriale, e pertanto come s'imponga, alla fin fine, una redistribuzione del reddito dai "vincitori" (ossia i proprietari delle imprese tecnologiche avanzate) verso gli "sconfitti" (ossia quanti sono rimasti indietro). In pratica ci� comporterebbe l'istituzione di un sistema sanitario pubblico e universale, un accesso generalizzato all'istruzione e alla riqualificazione, e a un complesso di abitazioni popolari a modici prezzi, nonch� l'assegnazione di determinate integrazioni di reddito per i lavoratori meno remunerati: il tutto finanziato tramite una serie di prelievi fiscali a carico delle imprese pi� robuste e dei patrimoni delle persone pi� facoltose. D'altro canto, proprio le crescenti disparit� di reddito fra un'esigua schiera di grandi rentier e la gran massa dei lavoratori ha alimentato le fortune politiche del populismo e agito da incentivo alla contestazione della politica. Serve allora "pi� socialismo"? O meglio il ripristino di alcuni elementi di maggior protezione sociale e di programmazione economica pubblica, per ritornare a un capitalismo regolato ed evitare cos� il rischio di moti di ribellione di stampo populista che mettono in pericolo anche la democrazia? A questo proposito un autorevole economista francese come Jean-Paul Fitoussi ha osservato che dovrebbe tornare d'attualit� l'insegnamento di Keynes, in quanto la sua teoria risulta "tanto semplice quanto vincente", poich� lo Stato deve intervenire nell'economia quando i cittadini sono a rischio, acquisire determinate quote nelle aziende, investire direttamente nelle infrastrutture, migliorare le garanzie sociali tramite i sussidi di disoccupazione. Ma un economista anglo-americano come Haj Patel, che ha lavorato per la Banca Mondiale e per la Wto, e insegnato a Yale e Berkeley, sostiene che l'economia di mercato � capace di risolvere la crisi del capitalismo, qualora venga aiutata a farlo in base a una visione delle cose, patrocinata da politici lungimiranti e condivisa da un'opinione pubblica consapevole, che abbia per obiettivo non pi� l'espansione ad oltranza dei consumi; in quanto essa implica la massimizzazione dei profitti. Di qui l'importanza della "green economy", di una sorta di New Deal ecologista, tinto di verde, d'altronde essenziale per salvaguardare, insieme a Madre Terra, le future generazioni. In conclusione, occorre comunque tener presente, per fare il punto sull'approdo in corso del capitalismo, la diversit� di connotazioni esistente fra quello di marca statunitense e quello di conio europeo. Poich� nel caso del primo si ha a che fare, dopo quanto � avvenuto negli ultimi trent'anni all'insegna di un neoliberismo senza vincoli di sorta, con uno strapotere delle corporation e una casta di azionisti e manager al vertice della piramide sociale; mentre, nel secondo caso, lo Stato ha continuato a esercitare, sia pur in forme pi� limitate rispetto al passato, funzioni di regolatore, investitore o redistributore delle risorse. Perci�, "riaggiustare il capitalismo" (per dirla con Stiglitz), in modo da giungere a un "capitalismo progressivo", implica negli Usa una riforma da cima a fondo sia del sistema fiscale sia delle misure sulle transazioni finanziarie, e non solo un impegno concreto degli azionisti e degli amministratori delegati delle grandi imprese a intrattenere rapporti corretti ed etici con gli stakeholder (come si legge nel manifesto della Business Roundtable). In Europa abbiamo un capitalismo temperato dall'intervento dello Stato o comunque non esente da determinate regole. Tuttavia oggi s'� sdrucita quella sorta di "contratto sociale" che coniugava crescita economica e diffusione del benessere, economia di mercato e welfare state, e ci� sta alimentando non solo il risentimento populista contro le �lite politiche ma pure la contestazione dei valori del sapere e del merito, da parte di quanti sono rimasti indietro, per un motivo o per l'altro, rispetto ai mutamenti determinati dalla rivoluzione tecnologica ma pure dalle politiche d'austerit�. Potrebbe quindi trovare riscontro una prospettiva come quella indicata da Giuliano Amato e Marco Morganti, di un'"economia generativa", basata su un'armonizzazione del profitto con lo sviluppo sociale e la sostenibilit� ambientale. Allargando il mercato a fasce progressivamente pi� ampie di soggetti che ora ne sono esclusi, questa direttrice di marcia, mentre agevolerebbe un processo di crescita e terrebbe conto degli interessi dei consumatori, ridurrebbe le diseguaglianze e salvaguarderebbe l'ambiente, assumendo perci� una valenza sociale positiva. In fondo, la storia del capitalismo � una vicenda in cui non si � mai smesso di progettare e di cercare, di sperimentare e di cambiare. Tanto pi� � d'obbligo oggi che siamo in presenza di mutazioni di carattere epocale, quali mai si erano manifestate in passato con tanta intensit� e pervasivit�. Il costo dei batteri (di Alessandro Cassini, "Le Scienze" n. 618/20) - La resistenza agli antibiotici causa un numero di decessi record in Italia e pesa sempre di pi� sulle casse del sistema sanitario. - Paolo si stava godendo la giornata di sole a bordo della sua barca, in navigazione verso l'isola di Ponza, al largo del Lazio. Arrivato a destinazione cominci� a sentire fastidio e dolore alle vie urinarie. "Non ho bevuto abbastanza, il sole, il caldo... Insomma, sar� disidratato. Adesso bevo e passa tutto". Invece cominci� ad avere febbre e brividi, e il cognato medico, in vacanza anche lui, gli prescrisse un antibiotico usato per le infezioni delle vie urinarie, la ciprofloxacina. Inaspettatamente, dopo tre giorni Paolo aveva ancora febbre e dolori. Di ritorno a Roma si fece visitare in un grande ospedale della citt�, dove un laboratorio analizz� l'urina per verificare la presenza di batteri. Si scopr� che Paolo era infettato da un batterio che si trova comunemente nel corpo: Escherichia coli. L'antibiogramma, un esame che valuta la sensibilit� di un batterio a un determinato antibiotico, indicava che quel tipo di E. coli produceva beta-lattamasi ad ampio spettro ("extended-spectrum beta-lactamase", o ESBL), enzimi che rendevano questi batteri resistenti a molti antibiotici, compresa la ciprofloxacina. Paolo per� era allergico ad alcuni antibiotici efficaci contro E. coli ESBL, cos� dovette sottoporsi a quattro settimane di una combinazione di altri antibiotici (amoxicillina-acido clavulanico) non priva di effetti collaterali. Paolo � stato fortunato, � una persona altrimenti sana e la sua infezione � stata diagnosticata e contenuta prima che potesse diventare pericolosa. Ma molte persone che contraggono infezioni resistenti agli antibiotici sono bambini e anziani ospedalizzati per malattie croniche, ai quali a volte viene dato tardi il giusto antibiotico, visti i tempi necessari per effettuare gli antibiogrammi. Come misurare gli effetti La resistenza agli antibiotici � la capacit� dei batteri di contrastare l'azione di uno o pi� di questi farmaci. � importante capire che esseri umani e altri animali non sviluppano resistenza agli antibiotiei, sono i batteri trasportati da esseri umani e animali che possono svilupparla. I batteri sono organismi unicellulari con un DNA solitamente semplice, che ne assicura la riproduzione. Come succede spesso, il DNA pu� subire mutazioni oppure acquisire nuovi geni da altri microrganismi tramite plasmidi (piccole frazioni di DNA contenenti uno o pi� geni). Quando vengono messi sotto pressione selettiva dovuta alla presenza di antibiotici, i batteri che hanno acquisito una maggiore capacit� di resistenza (per mutazione o per trasferimento genetico) avranno una maggiore possibilit� di sopravvivere e occuperanno l'ambiente lasciato libero dai batteri che invece sono stati eliminati dalla terapia. Quindi, per curare infezioni provocate da quei batteri resistenti bisogner� somministrare altri antibiotici a cui sono sensibili. Se acquisiscono resistenza anche alla nuova classe di antibiotici (in questo caso si parla di organismi multi-resistenti), bisogner� passare a una nuova classe ancora di antibiotici, e cos� via fino ad arrivare a batteri resistenti a tutti gli antibiotici (organismi pan-resistenti). Gli antibiotici indicati devono essere somministrati correttamente, con la dose prescritta e in ogni caso seguendo le indicazioni del medico su tempi e modalit� d'impiego. Dunque, la caratteristica principale della resistenza agli antibiotici � che non si tratta di una malattia, ma di un fenomeno correlato all'abuso e alla prescrizione eccessiva di questi farmaci. Altre caratteristiche dell'antibiotico-resistenza vanno sotto il nome di "One Health". Il termine indica il fatto che molti di questi batteri infettano anche gli animali o si trovano comunemente nell'ambiente o, ancora, che si verificano entrambi gli scenari precedenti. Quando si somministrano antibiotici in modo inappropriato ad animali da compagnia e ad animali dell'industria agroalimentare, i batteri possono diventare resistenti e infettare le persone che sono in contatto con quell'ambiente, con quegli animali o con la loro carne. Per questo motivo nei paesi dell'Unione Europea, ma anche in Islanda, Liechtenstein e Norvegia (membri dello Spazio economico europeo, o SEE), dal gennaio 2006 � vietato l'uso di antibiotici come fattori di crescita per gli animali ed � in vigore una lista ristretta di antibiotici che possono essere prescritti dai veterinari. Oltretutto le malattie infettive hanno la capacit� di viaggiare insieme ai loro ospiti, spesso senza provocare alcun sintomo. Per esempio, batteri resistenti che hanno colonizzato il colon di un individuo, nel corso di una visita in ospedale possono infettare il parente ricoverato dello stesso individuo che si presenta in visita. Per il paziente quell'infezione potrebbe dunque rappresentare una durissima battaglia da combattere, oltre alla causa originaria del ricovero. Ricapitolando, diversi organismi possono sviluppare differenti tipi di resistenze a diversi antibiotici, provocare differenti tipi di malattie, a seconda delle condizioni dell'ospite. Quando si pianifica uno studio epidemiologico su questo fenomeno, bisogna considerare caratteristiche complesse, diversi contesti e differenti combinazioni possibili che causano problemi e anche la morte di persone infettate da batteri resistenti agli antibiotici. Quando al Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (European Centre for Disease Prevention and Control, ECDC) abbiamo deciso di misurare gli effetti della resistenza agli antibiotici su salute ed economia delle popolazioni UE/SEE, abbiamo stabilito i seguenti obiettivi: che cosa vogliamo misurare (decessi, casi, costi per il sistema sanitario?) e per quali combinazioni di batteri e antibiotico-resistenza? Dopo aver mappato le fonti di dati disponibili, era chiaro che la sorveglianza pi� completa e coerente a livello continentale era quella messa in atto dall'European Antimicrobial Resistance Surveillance Network (EARS-Net), una rete gestita da esperti in ognuno dei 30 paesi (sia della UE sia della SEE) che ne fanno parte e dallo stesso ECDC. Vorremmo incidentalmente ricordare che la nostra � un'agenzia indipendente dell'Unione Europea, istituita nel 2005 con lo scopo di rafforzare le difese dei paesi membri dell'unione nei confronti delle malattie infettive. I criteri di inclusione del nostro studio erano basati sulla disponibilit� di dati (quindi combinazioni tra microrganismo e resistenza monitorate da EARS-Net) e sulla nostra conoscenza a priori delle infezioni che sapevamo essere quelle con il maggior impatto sulla salute. Oltre al numero di casi e di decessi abbiamo voluto misurare l'impatto della disabilit� causata dalle infezioni resistenti agli antibiotici servendoci di un indicatore composito: i Disability-Adjusted Life Years, o DALYs. Questo indicatore � composto dal numero di anni non vissuti a causa di decessi prematuri, ovvero in anticipo rispetto alla speranza di vita all'et� del decesso, e dal numero di anni vissuti con disabilit�, che sono una funzione di quanto sia debilitante la malattia in questione. Grazie a questo indicatore � possibile paragonare l'impatto delle infezioni antibiotico-resistenti con quello di altre malattie infettive. Per calcolare i DALYs sono necessarie informazioni su et� e sesso delle persone colpite dalle infezioni, ed EARS-Net raccoglie questi dati. Un limite di EARS-Net, per�, � che rileva solo il numero di persone affette da infezioni gravi da batteri nel sangue, le cosiddette "batteriemie", analizzate da laboratori scelti, che variano in numero e rappresentativit� a seconda del paese e sono scelti dall'istituto di sanit� pubblica di quel paese. Quando uno dei laboratori che fa parte di EARS-Net diagnostica un'infezione nel sangue provocata da uno specifico organismo, le caratteristiche biologiche di quest'ultimo sono comunicate alla rete europea di sorveglianza insieme a quelle anagrafiche del paziente. Tuttavia l'impatto delle infezioni resistenti agli antibiotici � un problema che riguarda anche persone che contraggono infezioni respiratorie, delle vie urinarie, del sito chirurgico o in altre parti del corpo, non solo per chi ha un'infezione del sangue. Abbiamo quindi incluso le informazioni fornite da uno studio sulle infezioni ospedaliere. Per ogni combinazione microrganismo-resistenza, lo studio ci ha fornito i fattori di conversione da batteriemie ad altre infezioni, cio� quante infezioni non-batteremiche si osservano per ogni batteriemia. Tramite questa combinazione di misure dirette delle infezioni del sangue e di misure di infezioni in altre parti del corpo dovute agli stessi batteri abbiamo dedotto il numero totale di infezioni con batteri antibiotico-resistenti. Per stimare l'incidenza annuale delle infezioni con batteri antibiotico-resistenti mancava l'analisi delle criticit� locali del sistema di sorveglianza e la popolazione coperta da EARS-Net in ognuno dei 30 paesi membri. Epidemiologi di ogni paese hanno contribuito al nostro lavoro fornendo, per esempio, il fattore di moltiplicazione nazionale: questo fattore permette di convertire la sorveglianza offerta da una selezione di laboratori in un quadro epidemiologico nazionale. A questo punto eravamo fiduciosi dei nostri modelli di incidenza per i microrganismi pi� rilevanti sotto il profilo della resistenza agli antibiotici. Mancava solo l'aspetto dell'impatto sulla salute delle persone colpite: quanto uccidono queste infezioni? Di quanto aumenta il periodo di degenza delle persone ospedalizzate? Le infezioni con organismi resistenti aumentano il rischio di complicazioni a breve e lungo termine? Non esiste un sistema di sorveglianza diffuso e comprensivo che permetta di rispondere a queste domande. Quindi, come a volte si fa in casi del genere, ci siamo rivolti alla letteratura scientifica. Abbiamo creato un sistema di criteri di valutazione per l'estrazione dei dati a cui abbiamo sottoposto oltre 360 articoli scientifici. Con le informazioni estratte abbiamo creato 80 modelli, uno per ogni combinazione microrganismo-resistenza e per ogni possibile sito di infezione. Risultati inquietanti Una celebre affermazione dello statistico britannico George P.E. Box recitava che "tutti i modelli sono sbagliati, ma alcuni sono utili". In pratica significa che � inutile elaborare eccessivamente i modelli nel tentativo utopistico di riprodurre la realt�: dobbiamo ambire a essere semplici ed evocativi. Quando si creano modelli per descrivere fenomeni epidemiologici, � naturale avere un certo numero di incertezze da considerare. In media ogni nostro modello comprendeva pi� di 30 variabili e, considerando 80 modelli per paese e 30 paesi, dovevamo considerare le incertezze per oltre 72.000 variabili. Per questo motivo i modelli sono stati inseriti in un computer che li ha sottoposti a iterazioni di simulazioni, ottenendo cos� il 95 per cento dei possibili risultati. In particolare, a partire dai dati di EARS-Net del 2015 abbiamo stimato 671.689 casi di infezione con batteri resistenti agli antibiotici nei paesi UE/SEE (da un minimo di 583.148 a un massimo di 736.966), di cui 201.584 in Italia (da un minimo di 167.809 a un massimo di 237.207). Le infezioni sono state associate a 33.110 decessi (da 28.480 a 38.430), di cui sorprendentemente quasi un terzo, ovvero 10.762, in Italia (da un minimo di 8951 a un massimo di 12.817). Quando abbiamo considerato i DALYs, la media per i paesi UE/SEE si � attestata intorno ai 170 DALYs per 100.000 abitanti, pi� o meno lo stesso valore ottenuto per l'impatto annuale cumulativo di influenza, tubercolosi e HIV/AIDS. In Italia l'impatto sulla salute delle infezioni con batteri resistenti agli antibiotici � di 448 DALYs per 100.000 abitanti, il pi� alto in Europa insieme a quello stimato per la Grecia. Le stime indicano anche che in Italia il 43 per cento dei decessi (il 33 per cento in paesi UE/SEE) � associato a infezioni con batteri resistenti ai cosiddetti antibiotici di ultima linea come i carbapenemi e la colistina: se questi antibiotici non funzionano pi�, per le terapie rimangono solo tentativi poco efficaci con combinazioni di altri antibiotici, spesso tossiche per il corpo. Inoltre i risultati del nostro studio mostrano che il 75 per cento dell'impatto delle infezioni con batteri resistenti agli antibiotici nei paesi UE/SEE avviene negli ospedali; in Italia questo dato arriva all'80 per cento. Negli ospedali, quindi, gli interventi mirati alla prevenzione delle infezioni correlate all'assistenza e alla cosiddetta stewardship antibiotica (cio� migliorare l'appropriatezza della prescrizione di questi farmaci tramite interventi di leadership, responsabilizzazione, formazione e approccio multidisciplinare) sono opportunit� importanti per contrastare il fenomeno dell'antibiotico-resistenza. � interessante notare anche che dal 2007 al 2015 il numero stimato di decessi associati alle infezioni resistenti � aumentato drammaticamente di 3,6 volte in Italia (2,5 in media nei paesi UE/SEE), soprattutto a causa dell'aumento di quelle resistenti ai carbapenemi, che di solito sono infezioni correlate all'assistenza. Un esempio sono le infezioni da Klebsiella pneumoniae resistenti ai carbapenemi e/o alla colistina, che sono aumentate 88 volte in Italia dal 2007 (sei volte nei paesi UE/SEE). � importante sottolineare che nel nostro paese e nel resto dei paesi UE/SEE il numero di infezioni da E. coli resistente alle cefalosporine di terza generazione, in genere associate all'uso comunitario (non ospedaliero) degli antibiotici, � aumentato di oltre quattro volte dal 2007 al 2015. Quindi la stewardship antibiotica dovrebbe essere estesa alla medicina di comunit� e a quella generale. In aggiunta a un considerevole impatto negativo sulla salute umana, l'antibiotico-resistenza pone una minaccia significativa alla sostenibilit� dei sistemi sanitari nazionali. A causa della maggiore aggressivit� della malattia e del rischio pi� elevato di complicazioni, i pazienti che sviluppano infezioni con batteri antibiotico-resistenti necessitano di cure pi� intensive ed esami e procedure mediche aggiuntive che prolungano la degenza ospedaliera e, di conseguenza, aumentano i costi sanitari. L'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), un'organizzazione intergovernativa che conduce studi economici in paesi prevalentemente ad alto reddito, ha calcolato che ogni paziente ospedalizzato che sviluppa un'infezione da batteri resistenti agli antibiotici costa ai sistemi sanitari nazionali dei suoi paesi membri, Italia inclusa, fra 9000 e 35.000 euro aggiuntivi rispetto a un paziente con la stessa malattia che tuttavia non ha sviluppato un'infezione antibiotico-resistente. Il 55 per cento circa di queste spese addizionali copre il costo delle cure aggiuntive di medici e infermieri, un altro 15 per cento circa � necessario per gli esami diagnostici aggiuntivi e per la terapia farmacologica. L'OCSE ha anche calcolato che nei paesi dell'Unione Europea, del Nord America e in Australia l'antibiotico-resistenza � responsabile ogni anno di circa 700 milioni di giorni di ospedalizzazione, corrispondenti a una spesa di oltre 3 miliardi di euro. In pratica in questi paesi la resistenza agli antibiotici � responsabile di circa il 10 per cento di tutta la spesa sanitaria per le malattie infettive: in altre parole, � una delle maggiori voci di spesa per questo tipo di malattie. In Italia i dati sono ancora pi� allarmanti, considerata l'incidenza elevata delle infezioni antibiotico-resistenti. La spesa per trattare le conseguenze di questo fenomeno si attesta su quasi 5 euro per abitante per anno, pi� del doppio rispetto alla media dei paesi UE, i cui sistemi sanitari devono pagare mediamente 1,8 euro per abitante. Se l'attuale scenario dovesse essere confermato per il prossimo futuro, l'antibiotico-resistenza coster� all'Italia quasi 13 miliardi di euro da qui al 2050. Secondo l'OCSE, se non saranno subito adottate azioni efficaci per contrastare questa minaccia, l'incidenza di nuove infezioni con batteri antibiotico-resistenti continuer� ad aumentare, soprattutto per le infezioni pi� difficili da trattare. In Italia la proporzione di infezioni con batteri resistenti � quasi raddoppiata nell'arco degli ultimi dieci anni, passando da un valore di circa 17 per cento nel 2005 - ogni 100 infezioni, 17 erano resistenti agli antibiotici - al 30 per cento nel 2015. Le analisi dell'OCSE concludono che nel nostro paese le infezioni con batteri antibiotico-resistenti continueranno a crescere fino al 2030, quando rappresenteranno il 32 per cento di tutte le infezioni. Sebbene il tasso di aumento della resistenza media sembri ridursi, rimangono seri motivi di preoccupazione. Se da un lato si stima che in Europa la resistenza agli antibiotici di prima linea (quelli di primo uso per il trattamento di infezioni) rimarr� sostanzialmente stabile nel 2030 rispetto ai livelli del 2005, dall'altro si prevede anche che nello stesso periodo la resistenza agli antibiotici di seconda linea (da usare quando quelli di prima linea risultano inefficaci, come ha dovuto fare Paolo per trattare la sua infezione alle vie urinarie) sia destinata ad aumentare del 75 per cento; per gli antibiotici di terza linea (quelli di ultima istanza) si prevede un raddoppio rispetto ai livelli del 2005. La resistenza ad alcune terapie con farmaci di seconda linea, come cefalosporine di terza generazione e fluorochinoloni, � particolarmente problematica, perch� � prevista in aumento nella maggioranza dei paesi europei. Questo fenomeno far� crescere il ricorso ai carbapenemi, promuovendo potenzialmente la resistenza a questa categoria di antibiotici di scorta. In alcuni paesi sta gi� emergendo una resistenza all'ultima linea di terapia - le polimixine - con conseguenze che potrebbero essere catastrofiche, perch� ci troveremmo senza pi� nessun antibiotico efficace. Agire contro la resistenza I dati illustrati dimostrano chiaramente che � necessaria una strategia efficace per contrastare lo tsunami di superbatteri che sta lentamente ma inesorabilmente arrivando. L'OCSE ritiene necessario agire su due punti critici. Innanzitutto si deve tornare a investire sullo sviluppo di nuovi antibiotici in grado di sostituire le opzioni terapeutiche che hanno perso efficacia. A questo scopo, la messa in campo di appropriati incentivi - economici, snellimenti procedurali e azioni legislative - pu� far ripartire un circolo virtuoso che permetta di rivitalizzare gli investimenti e la produzione di nuovi antibiotici. Questa linea d'azione � fondamentale, ma bisogna riconoscere che la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci richiede svariati anni, in alcuni casi anche pi� di una decina per molecole nelle prime fasi di sviluppo, prima che un nuovo prodotto possa raggiungere il mercato. Allo stesso tempo, quindi, occorre investire in una strategia di salute pubblica mirata a contrastare la diffusione e l'ulteriore sviluppo dell'antibiotico-resistenza. In Italia un "pacchetto" di provvedimenti dal costo inferiore a 4 euro all'anno per persona potrebbe evitare quasi 9000 decessi e far risparmiare al sistema sanitario circa 464 milioni di euro ogni anno. Questo pacchetto dovrebbe essere centrato su tre assi. Primo, miglioramento delle condizioni igieniche nelle strutture sanitarie, come ospedali e case di cura, per minimizzare la trasmissione delle infezioni tra pazienti. Secondo, abbandono della prassi di prescrizione eccessiva e inutile degli antibiotici nell'ambito ospedaliero e sul territorio. L'uso pi� frequente di test diagnostici rapidi da parte dei medici di famiglia per determinare la natura virale (che non richiede uso di antibiotici) o batterica di un'infezione e programmi di stewardship antibiotica negli ospedali hanno dimostrato di aumentare in maniera significativa l'appropriatezza prescrittiva con conseguente riduzione dell'antibiotico-resistenza. Terzo, lancio di campagne informative per comunicare alla popolazione rischi e danni legati all'uso improprio di una risorsa terapeutica preziosa, come appunto gli antibiotici. Le analisi dell'OCSE concludono che un investimento simile si ripagherebbe in meno di un anno grazie alla conseguente diminuzione della spesa sanitaria, inoltre porterebbe a risparmi netti sulla spesa sanitaria negli anni successivi e, ancora pi� importante, salverebbe migliaia di vite umane.