Aprile 2019 n. 4 Anno IV Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri per un importo pari ad euro 23.084,48 e del MiBACT per un importo pari ad euro 4.522.099. Indice I molti volti del denaro Gli speziali nel medioevo Fernanda Wittgens: l'anima di Brera I molti volti del denaro (di Claudio Widmann, "Psicologia contemporanea" n. 216/09) - Vicende economiche di portata collettiva, come il "boom" degli anni Sessanta, la "congiuntura" degli anni Settanta, l'"inflazione galoppante" degli anni Ottanta o l'attuale "crisi globale" evidenziano l'assoluta centralit� del denaro nella cultura contemporanea. - Denaro economico e simbolico Come molti oggetti che appartengono alle consuetudini pi� consolidate, il denaro sembra assoluto e atemporale; stupisce constatare che la carta moneta risale appena al Settecento o che dal 1971 nessuna banca centrale garantisce con riserve di oro la valuta in corso. Perfino l'essenza economica del denaro non � certa: Mauss (1925) lo fa discendere non dalle primitive attivit� mercantili, ma da codici arcaici che, regolando lo scambio di doni, regolavano i rapporti sociali; e Schacht (1967) lo riconduce non a primordiali pratiche commerciali, ma a pi� antiche pratiche religiose. Il denaro, dunque, � un indiscusso fenomeno psicologico oltre che economico. Coloro che ne indagano da vicino la natura giungono per diverse vie alla conclusione che non � un oggetto solamente reale, ma anche simbolico. Su questa posizione convergono le analisi dell'economia (Keynes, 1931), della filosofia (Simmel, 1900), dell'antropologia (Polany, 1977), della psicologia (Katona, 1951). Gi� sul finire dell'Ottocento Georg Simmel scriveva che esso possiede un "superadditum psicologico di ricchezza", grazie al quale, oltre a se stesso, rappresenta sempre anche altro. Il denaro, quindi, � simbolo nella classica accezione di "qualcosa che sta per qualcos'altro" (aliquid pro aliquo) e la psicologia si occupa di indagare cosa esso rappresenti, quali valori compongano il superadditum che gli conferisce importanza non soltanto economica. Il denaro motivazionale Il denaro costituisce uno dei maggiori agenti motivazionali e accentra su di s� i fattori stimolanti pi� forti per un individuo. Questa osservazione empirica trova conferma nella ricerca psicologica (Bustreo e Zatti, 2007), ma trova espressioni anche pi� significative nelle narrazioni archetipiche. Non si contano le fiabe e i telefilm che narrano peripezie indicibili per raggiungere un tesoro; ancora pi� numerose sono le storie di uomini che gli dedicano tutta la vita e le loro migliori energie. Essendo simbolo, esso sta al posto di motivazioni disparate (avere una casa o andare in discoteca, accumulare risparmi o aumentare i consumi) e le convoglia tutte verso comportamenti consequenziali. L'adagio secondo cui "sono i soldi a muovere il mondo" coglie appieno la potenza motivazionale del denaro. In questa accezione esso rivela un'essenza energetica: ha il potere di ravvivare, rianimare, dinamizzare la vita. Nei termini di Jung (1928), � simbolo della libido ovvero dell'energia psichica generica, che si diversifica per alimentare le singole, specifiche attivit� della psiche. Sono coerenti con la qualit� energetica del denaro le rappresentazioni mitologiche in cui esso assume l'aspetto di entit� sovrannaturali come il dio Pluto dei Greci o il demone Mammone del Paradiso perduto di Milton. Anche gli studi sulle biografie di alcuni "conquistatori di miliardi" evidenziano una correlazione positiva fra la qualit� energetica del denaro e tratti di personalit� che comprendono attivit�, indipendenza e altre caratteristiche dell'achievement (di Diodoro, 1999). Il denaro quantitativo Per quanto nella nostra societ� il denaro costituisca un cardine motivazionale, n� storicamente n� intrinsecamente � stato un oggetto di desiderio assoluto e irrinunciabile; se � divenuto tale, � in forza di meccanismi che appartengono tanto all'economia quanto alla psicologia. Dal punto di vista economico, Marx (1944) ricostru� dettagliatamente il processo attraverso cui un oggetto non solo viene usato per le sue propriet�, ma anche per essere scambiato. Evidenzi� anche che alcuni oggetti (ad esempio l'oro) perdono quasi del tutto il loro "valore d'uso" e specializzano il loro "valore di scambio", fino a diventare degli equivalenti universali di valore: hanno la propriet� di essere convertiti in qualunque altro oggetto. Questo processo sta alla base dello sviluppo economico, ma anche di singolari e talvolta distorti processi psicologici. Fra tutti primeggia la possibilit� di convertire fra di loro valori di natura incomparabile: per mezzo del denaro non si scambiano solo beni patrimoniali come gli immobili, ma anche beni morali come la libert�; si convertono in denaro beni immateriali come la forza lavoro, ma anche beni impropri come il corpo. Cos�, nella civilt� del denaro, si possono acquistare organi e vendere bambini; si pu� vendere l'onore e si pu� comperare il silenzio; si pu� svendere il proprio corpo sulle strade e si pu� comperare una moglie extracomunitaria; si pu� fare commercio della propria integrit�, facendo scempio della propria dignit�. In quanto equivalente universale, il denaro agisce come mezzo di scambio indipendentemente dalla qualit�. "La sua qualit�", scrisse Simmel (1900), "consiste esclusivamente nella sua quantit�". L'essenza quantitativa del denaro � sinergica con i criteri di misurazione e oggettivazione consolidati dall'Illuminismo e forse non � un caso che proprio nel secolo dei Lumi la moneta abbia iniziato il percorso che l'ha portata alla sua massima diffusione. Nella dimensione individuale, il denaro � simbolo che facilmente raccoglie le proiezioni quantitative dell'avidit�. Dipendenze da lavoro e cleptomanie, overspending e maxing out, appropriazioni indiscriminate e molte forme di sociopatia sono patologie alimentate da un'inestinguibile avidit� e gravitano attorno alla simbologia quantitativa del denaro. Sono volti attuali di un'antica auri sacra fames. Il denaro sporco Il denaro � mezzo ineludibile per saziare non solo l'avidit�, ma anche pi� temperati desideri. La necessit� e le modalit� di acquisirlo fanno di esso un simbolo operante del principio di realt�; "fare i conti" con i soldi significa fare i conti con il reale. Contrapponendo principio di piacere e principio di realt�, Freud prospett� il quadro di un contrasto irriducibile fra la spinta interna del desiderio e l'opposizione esterna della realt�. Nella sua concezione, l'educazione al controllo degli sfinteri costituisce il passaggio paradigmatico in cui il principio di piacere si confronta con quello di realt�: il bambino apprende a differire l'appagamento, struttura capacit� di autocontrollo, impara a reggere la frustrazione e ad adeguarsi al dettato esterno. Non � privo di interesse che, per Freud, nella fase anale si improntino sia le funzioni di adattamento alla realt�, sia gli atteggiamenti nei confronti del denaro. In Carattere ed erotismo anale (1908) Freud postula una celebre identificazione fra l'originario grumus merdae trattenuto dal bambino e il pi� tardivo denaro risparmiato dall'adulto. Questa identificazione non � propriamente una scoperta freudiana; � una simbologia che corre attraverso i secoli, da quando lo scarabeo stercorario veniva impresso sulla pre-moneta degli egizi a quando Lutero stigmatizz� il denaro come "sterco del demonio". Sull'equivalenza simbolica fra feci e denaro la psicoanalisi fonda la psicodinamica sia dell'avarizia, sia della prodigalit�. Si tratta di comportamenti opposti, che gi� Dante aveva accomunato in uno stesso cerchio dell'inferno e che rimanderebbero entrambi alle capacit� di trattenere e di rilasciare improntate durante la fase anale. L'origine anale del denaro, inoltre, renderebbe ragione della singolare aura di pudore che lo avvolge. In quanto oggetto che simbolizza le feci, si carica dello stesso alone di sporcizia-vergogna-pudore che in origine avvolge gli escrementi. Nella concezione psicoanalitica, la genesi anale del denaro si intreccia con la nascita del principio di realt�, ma anche con le inclinazioni eversive. Nei termini della psicologia junghiana, il denaro attiene all'Ombra, alle sue spinte amorali, agli impulsi che calpestano gli ideali dell'Io e che spregiano la morale sociale. Gli aspetti sporchi del denaro rimandano all'opposizione ai codici collettivi; furto e rapina sono le forme pi� tradizionali, ma ad esse si aggiunge una molteplicit� pressoch� innumerabile di espedienti che fruttano "denaro sporco". Il denaro potente Nel contrasto fra principio di piacere e di realt�, fra Io e Ombra, fra individuo e mondo, si rende manifesta una sproporzione: l'individuo sperimenta la propria insicurezza e l'Io la propria fragilit�. Il denaro si fa, quindi, simbolo di un'autopercezione sbilanciata e debole e diventa strumento di auto-affermazione. Attraverso meccanismi di identificazione e appropriazione, la ricchezza simbolica del denaro si trasferisce al soggetto e gli conferisce un'immagine pi� solida; un fondamentale meccanismo di identificazione si potrebbe condensare nell'espressione: "Io sono il mio denaro". La ricerca sperimentale ha ripetutamente confermato che possedere denaro influenza ampiamente la percezione di s� e degli altri (Belk, 1988). La percezione di avere maggiore consistenza e spessore grazie al denaro posseduto si accompagna a vissuti di potere personale. L'affinit� fra denaro e potere � un dato dell'esperienza e interessanti affinit� linguistiche fanno coincidere il potere economico con quello personale; il termine "facolt�", ad esempio, indica sia l'ammontare dei beni, sia le possibilit� di una persona. Ma � stato accertato anche statisticamente che il possesso di denaro procede in parallelo con maggiori possibilit� pratiche e con maggiore potere sociale (Ferrari e Romano, 1999). Se la relazione fra denaro e pulsioni di potere � chiara, merita per� di essere chiarita l'essenza psicologica di questa pulsione. Gi� agli albori della psicoanalisi Adler (1912) puntualizz� che "volont� di potenza" significa determinazione dell'Io a superare gli ostacoli interni, � volont� di singolarizzarsi. Il dominio sull'altro costituisce una deviazione del dominio su di s�; il potere sul mondo esterno � una degenerazione del potere su quello interno. Volont� di potenza e volont� di denaro operano spesso in stretta sinergia. L'energetica del denaro � funzionale alle prove di forza, alle ostentazioni di potenza, alle corse al potere sociale e alle molte forme in cui degenera l'istinto di potenza. Ma costituisce una risorsa dinamica anche quando la volont� di potenza � orientata alla maturazione personale e all'attuazione di ideali e valori dell'Io. Il valore del denaro � tautologico che il denaro sia un valore. La lettura simbolica suggerisce, per�, che esso non possiede solo l'intrinseco valore economico, ma che sia anche una rappresentazione mentale dei valori introiettati dal singolo e delle gerarchie valoriali che egli struttura. L'annotazione � rilevante, perch� la psicologia esistenziale ha ampiamente illustrato l'importanza dei valori nella rappresentazione ideale di s� e nella percezione appagante dell'esistenza (Frankl, 1946; Maslow, 1954). L'esperienza dei valori, cio�, � determinante al fine di esprimere il meglio di s� e di avvertire che la vita � dotata di senso. Spesso la ricerca di denaro motiva le persone a esprimere il meglio di s�. Schitowsky (1977) configura il denaro tra i "beni ardui", oggetti che offrono appagamento non solo per l'uso che se ne fa, ma soprattutto per gli sforzi necessari a raggiungerli e per le abilit� personali che occorre mettere in campo per ottenerli (la pesca subacquea a grandi profondit� o la raccolta di stelle alpine a grandi altezze ne sono esempi). In quanto bene arduo, il denaro induce spesso l'uomo a tradurre in atto le sue capacit� latenti per raggiungere obiettivi monetari. Lo stesso Maslow (1954) annovera certe esperienze finalizzate alla produttivit� economica fra le peack experiences ovvero fra quei vissuti di grande intensit� esistenziale in cui il soggetto ha la percezione di dare il meglio di s�. Il denaro non � solo simbolo dell'ombra che avvolge i lati inferiori di un individuo, ma anche dell'aura che circonda le sue potenzialit� pi� elevate. La parola "talento" nacque per indicare un'antica moneta greca, ma fin� per significare dote naturale, attitudine particolarmente spiccata. � esplicativa la storia di Pinocchio che, dopo aver sepolto le monete d'oro nel Campo dei Miracoli, venne condannato dal giudice per essersi fatto imbrogliare dalla coppia Gatto e Volpe. Sul piano letterale, la sentenza aggiunge ingiustizia a ingiustizia; ma in un'ottica simbolica suggerisce che seppellire i propri talenti � omissione colposa, � tradimento della propria soggettivit�. In conclusione, dall'indagine psicologica il denaro emerge come simbolo di ampio spettro. Investe la psiche individuale, ma si sviluppa in quella collettiva; sollecita le funzioni dell'io, ma smuove le potenze dell'inconscio; promuove l'adattamento al reale, ma attenta alle strutture morali. Attiva indistintamente tutte le funzioni e intercetta tutti i piani dell'individuazione, quelli "inferiori" oscurati dall'inconscio e quelli "superiori" rischiarati dal conscio. Soprattutto, ha sempre una natura operante: la sua importanza concreta � anche la sua maggiore qualit� simbolica. Gli speziali nel medioevo (di Maria Paola Zanoboni, "Prometeo" n. 143/18) - La loro attivit� si basava su conoscenze riguardanti la preparazione e la confezione dei farmaci. - La pratica farmaceutica rappresentava soltanto l'aspetto pi� importante delle svariate occupazioni dello speziale, la cui attivit� costituiva un vero e proprio universo dalle molteplici sfaccettature, molto pi� articolato e complesso di qualsiasi altra attivit� artigianale o commerciale. Imprenditore, artigiano e mercante contemporaneamente, lo speziale praticava la compravendita dei pi� diversi prodotti e materie prime, affiancando alla cultura e all'esperienza tecnica nella preparazione dei farmaci la conoscenza delle altrettanto complesse pratiche mercantili. La sua figura era il tramite tra la scienza popolare, basata su nozioni pratiche, ma infarcita anche di credenze e superstizioni, e i saperi della scienza medica. Sul piano del prestigio sociale la professione dello speziale pu� essere considerata intermedia tra occupazioni intellettuali come quella del medico o del notaio, e attivit� appartenenti invece ai settori del commercio e dell'artigianato. Pur non richiedendo, infatti, un elitario corso di studi universitari, ma soltanto alcuni anni di apprendistato in bottega, l'esercizio dell'attivit� implicava un grosso patrimonio di conoscenze e una professionalit� che godeva ovunque di un notevole riconoscimento sia sociale che giuridico. Dal punto di vista deontologico gli speziali erano equiparati ai medici: a Firenze, in particolare, facevano parte della stessa corporazione che rappresentava anche una delle Arti Maggiori della citt�. L'accesso alla professione e l'esame I precedenti storici in materia di legislazione farmaceutica trovano una matrice comune nell'Ordinanza medicinale emanata da Federico II intorno al 1240, che stabiliva il numero e la sede delle farmacie; un giuramento per poter esercitare e ottenere un regolare permesso da parte dell'autorit� regia, abolendo in questo modo la libert� di esercizio prima esistente; il controllo delle preparazioni da parte di un medico; l'ispezione di due funzionari a garanzia del regolare svolgersi dell'attivit�; la proibizione ai medici di esercitare l'arte dello speziale e di costituire societ� con i farmacisti; il diritto per questi ultimi di guadagnare 3 tar� per ogni oncia di medicina che non si potesse conservare pi� di un anno, e 6 tar� per quelle che si potevano conservare pi� a lungo; l'equo prezzo di vendita di ogni medicinale. L'ordinanza di Federico II non fu in ogni caso il primo testo legislativo in proposito: l'imperatore infatti si rifece probabilmente agli Statuti di Arles, compilati fra il 1162 e il 1202. Conformandosi in misura maggiore o minore a queste disposizioni, dalla seconda met� del XIII secolo gli statuti degli speziali di tutte le citt� della Penisola prescrivevano l'obbligo di iscrizione alla corporazione per tutti coloro che maneggiassero spezie e confezionassero medicinali, proibendo al tempo stesso a chiunque di tenere in casa materie prime idonee a realizzare medicamenti, a eccezione dei mercanti che importavano e rivendevano all'ingrosso le singole materie prime. Della corporazione degli speziali potevano far parte, in modo diverso a seconda della citt�, anche artefici minori come i ceraioli e i fabbricanti di candele, i droghieri, i produttori di dolciumi e confetti. L'iscrizione all'albo professionale comportava sempre alcuni anni di tirocinio, variabili a seconda della citt�; l'approvazione dei maestri dell'Arte, che a volte diventava un vero e proprio esame; il giuramento di esercitare la professione bene e lealmente; il pagamento della tassa alla corporazione. Ottenuta l'idoneit� a esercitare, il nuovo farmacista veniva dotato di un marchio con cui sigillare i prodotti che uscivano dalla sua bottega, in modo che ne fosse facilmente rintracciabile la provenienza e accertabile la responsabilit� in caso di problemi. Norme di questo tipo erano contenute, ad esempio, negli statuti trecenteschi di Milano e di Siena, e in quelli cinquecenteschi di Verona. Organizzazione dell'attivit�. La produzione L'esercizio della pratica farmaceutica richiedeva un cospicuo bagaglio di conoscenze tecniche, dal momento che spesso lo speziale coltivava e raccoglieva in prima persona gli ingredienti necessari alla composizione dei medicamenti, intervenendo poi nelle molteplici operazioni di lavorazione, che andavano dall'essiccazione delle erbe medicinali alla loro triturazione, alla distillazione e decantazione dei succhi estratti, tutte operazioni che presupponevano l'organizzazione di vere e proprie piccole officine farmaceutiche. Nella raccolta delle erbe i farmacisti avevano come validi collaboratori in primo luogo gli erbolai, che cercavano i vegetali particolarmente ricchi di principi attivi, oppure li coltivavano in appositi orti; in secondo luogo i serpari, che procuravano agli speziali le vipere utilizzate nella preparazione di ricostituenti e impiastri. I farmacisti particolarmente benestanti coltivavano nei propri poderi le erbe medicamentose, e talvolta si dedicavano persino all'apicoltura, in modo da avere direttamente a disposizione sia il miele, ingrediente importante di molte medicine, sia la cera, utilizzata per i "cerotti" (forme farmaceutiche per uso esterno costituite da olio e da cera), e anche per la fabbricazione di candele e fiaccole, della cui produzione detenevano il monopolio. Per questo motivo, appunto, nella maggior parte delle citt� i "ceraioli" facevano parte della corporazione degli speziali, che si assumevano la responsabilit� per eventuali torce e candele mal confezionate, con i rischi d'incendio che ne potevano derivare. Per gli speziali romani, naturalmente, la lavorazione della cera era un vero e proprio business, pi� che in altre citt�, dato il gran numero di cerimonie solenni, feste religiose e banchetti che richiedevano un'imponente illuminazione. Accanto alla produzione diretta da parte di alcuni farmacisti, altre volte, in occasione di particolari cerimonie, era la spezieria pontificia a fare incetta di cera e a distribuirla poi alle altre botteghe perch� la lavorassero. Solo nelle farmacie pi� importanti, situate nei rioni cittadini pi� ricchi, veniva effettuata la lavorazione e la vendita delle spezie, prodotti di grande valore, importate dall'Oriente dai grandi mercanti, e che solo i professionisti pi� affermati e abbienti erano in grado di acquistare. La maggior parte delle spezierie si dedicava invece a un commercio di minore entit�, trattando generi di tipologia svariata. Farmacie/pasticcerie Soprattutto tra la fine del Quattrocento e il secolo successivo le farmacie potevano trasformarsi in laboratori di pasticceria per la preparazione di confetti, panpepati, mostarde e marzapani, in occasione di nozze, battesimi o banchetti: a Siena la revisione statutaria del 1509 consentiva appunto agli speziali di lavorare nei giorni festivi per "servire a baptesimi, noze o collationi". E ugualmente a Roma, le svariate occasioni offerte dai banchetti ufficiali del papa procuravano continuamente ai maggiori farmacisti cittadini commissioni di questo tipo, per ottemperare alle quali erano dotati di un'attrezzatura specifica costituita da stampi per confetti di varia tipologia, marmo per pinolata, forme di piombo per cotognata, oltre agli strumenti per lavorare la cera e confezionare torce di varie forme e dimensioni. A Pisa gli statuti del 1496 prevedevano che gli speziali potessero produrre anche dolciumi come il panpepato, la cotognata di mele e dolcetti vari a base di noci, ma proibivano severamente di venderli nei mesi pi� caldi, dalla met� di aprile alla met� di ottobre, per non rischiare di far ammalare la gente anzich� curarla. Anche i farmacisti fiorentini nei secoli XIV-XV realizzavano confetti, canditi di ogni genere, conserve delle qualit� pi� varie e appetitose, anzi erano tra i pi� abili a confezionare dolciumi. Non solo frutta e fiori canditi, paste, torte e schiacciate, ma persino enormi statue di zucchero: rappresentazioni mitologiche, trionfi, scene campestri, statue simboliche. Preparavano lo zucchero in scatole, in polveri o in pani, e lavoravano magistralmente gelatine, focacce, biscotti, offelle, zucche candite, zenzero, e alcuni di loro si specializzavano in particolari tipi di confetture. Non erano solo gli speziali privati a confezionare i dolci, ma anche quelli di ospedali, conventi e monasteri. I fiorentini infatti ne erano particolarmente ghiotti: oltre alle ricorrenze solenni come matrimoni e battesimi, ne consumavano in abbondanza anche durante viaggi di penitenza e pellegrinaggi, e il Comune stesso faceva talvolta omaggi in dolciumi e confetti a papi e imperatori o grandi personaggi. La domanda in questo settore era tale, nella citt� di Dante, che i Rucellai, importante famiglia di grandi banchieri, arrivarono a spendere in occasione di un matrimonio ben 2000 fiorini per confetture, melarance, confetti, canditi e dolci speziati. I cosmetici Lo speziale poteva avere capitali propri, derivanti magari dalla gestione di propriet� terriere, oppure farsi finanziare da un socio che svolgeva la stessa o un'altra attivit�. Aveva alle dipendenze alcuni aiutanti (apprendisti o salariati), il cui numero variava a seconda delle dimensioni dell'esercizio commerciale, e si preoccupava in prima persona di aggiornarsi, assumendo maestri, spesso stranieri, che gli insegnassero le novit� farmaceutiche pi� esotiche. � il caso di uno speziale romano che nel 1480 prese alle proprie dipendenze un maestro spagnolo (di Valenza) perch� gli tenesse un corso di perfezionamento, insegnandogli le tecniche produttive della "polvere di Cipro" e di altri prodotti di bellezza. Si trattava infatti di un settore in espansione, soprattutto nella Roma del XIV-XV secolo, al punto che l'autorit� pontificia dovette emanare delle disposizioni per porre un freno all'uso sempre pi� dilagante di questi prodotti fra l'alto clero. Nell'ambito della cosmesi lavoravano anche esperte operatrici donne: ancora a Roma, ad esempio, nel 1508 Caterina Sforza, moglie di Girolamo Riario (nipote di papa Sisto IV), ricorse a un'esperta farmacista ebrea perch� le mandasse delle creme per il viso. Anche nei ricettari fiorentini trecenteschi, quattrocenteschi e cinquecenteschi, accanto a medicamenti di ogni tipo, si incontrano di frequente indicazioni per preparare acque profumate e polvere di Cipro, per tingere, lavare o far crescere i capelli, sbiancare i denti, ammorbidire le mani, "luminare" gli occhi, per fare "bello lavamento di viso", profumarsi, ingrassare o dimagrire, o per "chacciar la humidit� della testa". Nel Cinquecento, ai gi� numerosi artifici di questo tipo se ne aggiunsero molti altri, fino all'esagerazione, e i ricettari si ampliarono e rinnovarono, arrivando a comprendere per la cura del viso componenti come nitro, biacca, verderame, sale ammoniaco, cannella, noce moscata e persino alcune pietre preziose. A questo scopo si utilizzavano, ad esempio, lapislazzuli sciolti nei colliri, a cui era attribuita la propriet� di far crescere le ciglia, mentre il corallo e le perle venivano impiegati per sbiancare i denti e la polvere di granato per rendere splendenti e fortificare gli occhi. Data la loro composizione, molti di questi belletti erano altamente nocivi, e il loro risultato pi� immediato era quello di far invecchiare precocemente la pelle. Nel XV secolo Leon Battista Alberti condannava le "pazze femine" che amavano truccarsi facendo "marcire il viso" con "calcine e veleni". Solo all'epoca di Cosimo I in Toscana venne finalmente proibita la preparazione di belletti nelle botteghe degli speziali, perch� il sublimato e l'arsenico che li componevano potevano facilmente avvelenare con le loro polveri i medicinali. Il commercio e l'attivit� creditizia Gli speziali pi� importanti si occupavano anche del commercio all'ingrosso di materie prime molto pregiate e costose: spezie vere e proprie (pepe, zenzero, cannella, chiodi di garofano, zafferano, anice, zucchero, rabarbaro, legno di sandalo, aloe, ambra, incenso), altri ingredienti per le medicine (ammoniaca, arsenico), coloranti (robbia, gomma arabica, "sangue di drago") con i loro fissativi (allume), pietre e metalli preziosi. Nel 1456, quando venne allestita la flotta per la crociata contro i turchi che avevano conquistato Costantinopoli, furono alcuni speziali romani a rifornire l'Arsenale di spugna, pece, sapone e zolfo. Ugualmente nel 1460 furono ancora due aromatari a procurare la foglia d'oro e i colori necessari ad affrescare il Palazzo Apostolico. Negli anni Sessanta-Settanta del Quattrocento uno speziale aretino trapiantato a Venezia esportava nel Levante vetrerie di Murano prodotte nella celebre manifattura dei Barovier (canne colorate, specchietti, calici dorati, smalti, cristalli), stoffe lombarde e venete, metalli e oggetti di basso costo provenienti da Oltralpe (aghi, ditali, fibbie). In direzione opposta, importava dalla Siria spezie, pietre preziose, articoli esotici e cotone per vendere queste merci al dettaglio o riesportarle in Catalogna. Vendeva partite di cotone ai mercanti tedeschi, dai quali acquistava occhiali in legno o in osso che esportava a Damasco. Molti farmacisti gi� nel Trecento, e ancor pi� nel Quattrocento, svolgevano anche l'attivit� creditizia, sia in modo "informale", con prestiti dissimulati dietro l'apparente acquisto di un immobile, sia in modo palese, come attivit� collaterale, tenendo banchi di prestito e arrivando ad accedere alle massime cariche della corporazione dei "campsores", i cambiatori, come avvenne a Roma per uno speziale-banchiere di met� Quattrocento. Concedevano poi piccole sovvenzioni per le necessit� quotidiane e anticipavano le medicine ai clienti ritenuti solvibili, anche se la cosa non era poi cos� scontata, soprattutto nel caso della nobilt� e delle corti principesche. Le spese per il medico e le medicine, del resto, gravavano in modo pesantissimo soprattutto sui ceti medio-bassi, come viene spesso ricordato nei testamenti, e l'aiuto di un parente stretto si rivelava in questi casi indispensabile a onorare il debito con il farmacista. Proprio per l'elevato costo delle cure, i contratti di apprendistato prevedevano quasi sempre che le spese per il medico e le medicine fossero a carico del padre del discepolo, anzich� del maestro, che si limitava ad accollarsi vitto e alloggio. Problemi di riscossione Se la difficolt� per ottenere il denaro dovuto per le medicine rappresentava per i farmacisti un problema diffuso ovunque, a Roma in particolare costituiva una piaga dilagante e un malcostume diffuso non tanto tra i meno abbienti, che avevano oggettive difficolt� a pagare, quanto piuttosto tra i nobili e l'alto clero. Gli statuti di fine Quattrocento degli speziali romani (1473 e 1487), diversamente e molto pi� di quelli di altre citt�, erano rivolti infatti a tutelare gli aderenti alla corporazione nelle controversie che potevano sorgere con i clienti. Quelli del 1473, in particolare, cercavano di tutelare gli interessi dei farmacisti nei confronti dei debitori che erano fuggiti o in procinto di fuggire, e decretavano inoltre che se un convento, un nobile o chiunque altro avesse contratto un debito con uno speziale rifiutandosi poi di onorarlo, i maggiorenti della corporazione avrebbero imposto a tutti i farmacisti della citt� di non vendere altri medicinali al debitore insolvente finch� non avesse pagato il dovuto. Se poi il cliente moroso fosse passato a miglior vita senza onorare il debito, nessuno degli speziali romani avrebbe dovuto fornire ai parenti le candele e la cera per le esequie del defunto. Le controversie, peraltro, a Roma dovevano essere all'ordine del giorno anche all'interno dell'Arte, dal momento che i medesimi statuti proibivano espressamente di insultarne o malmenarne i consoli e l'amministratore. Il rischio di insolvenza era, in ogni caso, frequente ovunque, sia per gli speziali che per i medici, che appunto per questo spesso cercavano di tutelarsi pretendendo di essere retribuiti prima di aver scritto la ricetta. A Firenze e a Pisa gli statuti dell'Arte consentivano a queste categorie di chiedere dei pegni a garanzia del successivo pagamento, e riconoscevano ufficialmente come documenti legalmente validi le scritture private o i libri contabili dei farmacisti in cui fossero annotate vendite a credito di medicine. La condizione economica degli speziali Si trattava dunque di un'attivit� alquanto articolata, comprendente un'ampia gamma di operatori commerciali, che andava dai rivenditori pi� modesti ai grandi mercanti importatori di materie prime ed erogatori di prestiti. A Firenze, nel Tre-Quattrocento, gli speziali rappresentavano una categoria moderatamente abbiente, con un tenore di vita superiore a quello della maggior parte della popolazione, anche se lontano da quello dell'�lite mercantile e bancaria che dominava l'economia della citt�. La situazione poteva naturalmente variare a seconda della congiuntura e del luogo: sempre a Firenze, negli anni Ottanta del Quattrocento, l'attivit� sub� una crisi tanto grave che alcuni speziali, progrediti da lavoratori sottoposti alla condizione di soci, rimpiangevano amaramente il proprio status precedente. La situazione era dunque tale che un salario sicuro, anche se modesto, era preferibile a una quota di utili incerti, con il rischio di un bilancio passivo. A Roma invece, come gi� accennato, negli stessi anni numerosi speziali collegati alla curia pontificia erano anche banchieri, prestatori, commercianti all'ingrosso di preziose materie prime. Nel XIV e XV secolo investivano i profitti sia in terre, sia in una svariata gamma di attivit� collaterali: l'acquisto di taverne, botteghe, macelli; la stipulazione di societ� per il commercio dei pellami e la lavorazione del cuoio; la stipulazione di contratti di soccida; la gestione di mulini idraulici; l'attivit� estrattiva, esercitata mediante l'acquisto di quote di miniere. Ben diverso il quadro delineato alla fine del Cinquecento da Shakespeare in Romeo e Giulietta: "Mi viene in mente uno speziale... egli sta qui nei dintorni, che io ho visto ultimamente, con un vestito a brandelli e fronte aggrottata, intento a cercare erbe medicinali. Era allampanato; una miseria atroce l'aveva spolpato fino all'osso; e nella sua squallida bottega stavano appesi una tartaruga, un coccodrillo imbalsamato, ed altre pelli di pesci mostruosi. Qua e l� per gli scaffali una misera accozzaglia di scatole vuote, di pentole di coccio tinte di verde, di vesciche e di semi ammuffiti, di pezzi di spago e pasticche di fior di rosa stantie, era sparsa alla meglio per fare un po' di apparenza. Notando tanta miseria dissi fra me: se uno avesse bisogno di qualche veleno ecco uno sciagurato che glielo venderebbe" (Atto V, scena I). Tutela della qualit� e dei consumatori La pratica farmaceutica non esauriva dunque l'ambito di attivit� degli speziali, che era affiancato dal commercio di svariate mercanzie non sempre inerenti la sfera terapeutica: spezie ed erbe aromatiche, ma anche profumi, vernici, coloranti, frutta secca, dolci, cera, pece, colla, sapone, carta. La maggior parte degli statuti corporativi cittadini, a partire dal Trecento in poi, si preoccupava perci� di definire dettagliatamente quali fossero gli ambiti di competenza degli speziali e i prodotti sui quali avevano l'esclusiva di vendita, e quali erano invece le merci che potevano essere trattate anche da altri commercianti (definiti "pizzicagnoli" in Toscana e "droghieri" in Lombardia). La corporazione degli speziali di Milano, i cui primi statuti risalgono al 1389, comprendeva ad esempio, accanto ai farmacisti veri e propri, anche coloro che lavoravano la cera e i droghieri (che trattavano, tra l'altro, frutta secca, canditi e confetti). Agli speziali spettava la produzione e la vendita in esclusiva non solo di medicine, unguenti, lassativi, acqua distillata, ma anche di cera, candele, confetti, datteri, cannella, pepe, mandorle, riso, liquirizia, zafferano, noce moscata. Analogamente, nel 1423, venne stilato a Siena un elenco delle merci che potevano essere trattate esclusivamente dai farmacisti: oltre che spezie, erbe, pillole, medicine e cose destinate agli infermi, anche semi, confetture e composte, colori per dipingere, sapone, zolfo, riso. I "pizzicagnoli" a loro volta potevano adoperare, ma non vendere, trementina, pece nera, cinabro e verde rame, con cui coloravano la cera e lo zolfo. Entrambe le categorie potevano tenere in bottega e vendere al minuto carta per scrivere, carta da imballo, filo, "bossoli da spezie". Naturalmente le disposizioni corporative di ogni citt� erano particolarmente preoccupate di tutelare la qualit� dei prodotti, sia che si trattasse di medicinali, sia di altre merci vendute dai farmacisti. Cos� si proibiva di vendere zafferano adulterato "alla maniera genovese" (statuti di Milano 1389), cera di cattiva qualit�, mescolata a grassi, oli e trementina (statuti di Milano 1389 e di Pisa 1496), confetture contenenti amido o riso, e soprattutto medicinali - teriache, lattovari, unguenti, impiastri, cerotti, lassativi - contraffatti (statuti di Siena 1356, di Milano e di Pisa), pena ingenti multe e il sequestro dei beni. Particolarmente dettagliati a tale riguardo sono i trecenteschi statuti della corporazione senese (1356) con le successive revisioni quattrocentesche. Dopo aver proclamato l'importanza della professione per la salute umana, e la necessit� quindi di svolgerla con il massimo del rigore e della precisione che solo il costante controllo dell'organismo corporativo poteva garantire, stabilivano in primo luogo l'obbligo tassativo di iscrizione all'Arte (accompagnato da un giuramento solenne) per chi confezionasse e maneggiasse medicinali, comminando aspre sanzioni a quei farmacisti o garzoni che, abbandonata la corporazione e non pi� in possesso di una bottega propria o di riferimento, andavano a confezionare medicinali nelle case e nelle botteghe altrui, con grave pregiudizio per la qualit� del prodotto, e rendendo impossibile rintracciarne il responsabile. Dopo aver ribadito a pi� riprese la necessit� di una divisione delle competenze con i "pizzicagnoli", sia per motivi di igiene, sia per la necessit� di rispettare la scienza medica, prescrivevano poi di controllare ogni mese le botteghe di questi ultimi, per accertarsi che non tenessero alcun medicinale o merce di cui non fosse consentita loro la vendita. Un controllo mensile non meno rigoroso da parte di tre ufficiali della corporazione era previsto anche per le botteghe degli speziali, per accertarsi che tutto funzionasse secondo le regole. I medicinali (e soprattutto teriache, unguenti, lattovari, cerotti, sciroppi) dovevano essere confezionati secondo quanto disposto dal collegio dei fisici (cio� dei medici), o secondo quanto prescritto dai consoli degli speziali, e venire sigillati con il marchio della bottega che li aveva prodotti, in modo da poter identificare facilmente chi avesse venduto medicamenti adulterati e nocivi. Per lo stesso motivo, gli statuti pisani (1496), in particolare, proibivano severamente di vendere teriaca che non fosse prodotta in citt�, davanti ai consoli dell'Arte e con tutte le buone regole che la complessa confezione di questo medicinale richiedeva. I farmacisti pisani, come anche quelli milanesi (1389), aborrivano soprattutto la teriaca e i prodotti (cera, candele, zafferano) provenienti da Genova, considerandoli di qualit� scadente. A Firenze e a Pistoia (secoli XIV-XV) la corporazione esercitava un rigido controllo sulla qualit� dei medicinali, prevedendo che "veditori" e "saggiatori" appositamente designati facessero ispezioni periodiche testandoli e verificando la condizione dei locali e delle scaffalature della farmacia. Le merci non confezionate secondo i dettati statutari venivano bruciate in pubblico, e i colpevoli condannati a pagare ingenti multe. Persino le pere cotogne, utilizzate per confezionare la cotognata, dovevano essere pesate e schiacciate in presenza degli ispettori, e la lavorazione veniva rigorosamente controllata. E naturalmente precauzioni particolarissime venivano imposte per la produzione, l'esposizione e la vendita dei veleni, che non potevano assolutamente essere consegnati a schiavi, servitori o ragazzi di et� inferiore ai 20 anni, n� a prostitute. Potevano essere venduti soltanto dal maestro speziale o dal capo dell'officina e sempre dietro prescrizione medica. Ancora la corporazione fiorentina stabiliva che i praticanti farmacisti potessero vendere soltanto determinati rimedi medicamentosi. Vigeva poi un po' dovunque il divieto assoluto di confezionare i medicinali in casa dello speziale o del malato, salvo che in situazioni di assoluta necessit�. Per garantire la buona qualit� delle materie prime, e consentire a tutti i farmacisti di potersene rifornire a un prezzo equo, a Roma (1487) si prevedeva che uno staff di quattro mediatori esperti controllasse le merci che giungevano in citt� e diffondesse la notizia fra tutti gli speziali romani, in modo che potessero acquistare ci� di cui avevano bisogno. Erano vietate le trattative private con i mediatori, per evitare che gli esercenti pi� facoltosi potessero avvantaggiarsi nei rifornimenti. Altro principio fondamentale era quello di poter identificare facilmente chi aveva confezionato un determinato medicinale, per potergliene attribuire la responsabilit� in caso di danni ai pazienti. Per questo motivo gli statuti degli speziali di molte citt� (Siena, ad esempio) vietavano espressamente la rivendita di prodotti confezionati in un'altra bottega, preoccupati di evitare il passaggio di mano in mano, che avrebbe fatto perdere le tracce del produttore e aumentato il rischio di adulterazione. Tale concetto non valeva a Roma, dove invece nel XV secolo le farmacie pi� attrezzate e specializzate rifornivano dei propri prodotti quelle pi� piccole. Ancora a evitare frodi miravano le norme su pesi e misure e sulla precisione delle bilance, controllate dalla corporazione ogni tre mesi, e adeguate alle bilance di riferimento della corporazione, sincronizzate a loro volta con quelle del comune (statuti di Milano 1389). A Pisa (1496) l'Arte era dotata di funzionari appositi, i "taratori", incaricati di verificare la purezza e la buona qualit� delle materie prime che i farmacisti avrebbero acquistato dai mercanti, e con cui dovevano essere confezionati i medicamenti, mentre a Roma (1473 e 1487) era prevista una periodica taratura delle bilance, e a Firenze il compito di controllarle era demandato ai revisori incaricati delle periodiche ispezioni. L'ubicazione dei locali che costituivano la farmacia (di solito almeno due, uno per il laboratorio e uno per la vendita) aveva poi un'importanza notevole nel garantire la buona riuscita dei prodotti e la loro corretta conservazione. Il delicato processo di preparazione di unguenti, sciroppi, medicinali, creme di bellezza richiedeva infatti una particolare attenzione sia alla pulizia dei locali, sia alla loro ampiezza, luminosit� e aerazione, nonch� al fatto che non vi fossero nelle vicinanze esercizi commerciali inquinanti (tintorie, macellerie, concerie). Perci� alcuni statuti (tra cui quelli romani di fine Quattrocento) prescrivevano che le botteghe fossero ubicate in ambienti adatti. Societ� tra medici e speziali Sempre alla tutela dei consumatori erano rivolte le disposizioni riguardanti i mediatori, che dovevano iscriversi all'Arte e seguire le regole da essa imposte, e la stessa preoccupazione motivava il divieto assoluto per gli speziali di accordarsi con i medici per farsi mandare i clienti, dando loro una percentuale sulla vendita dei farmaci. Quest'abitudine doveva essere piuttosto diffusa, soprattutto nell'area piemontese, dove molti contratti tra medici e pazienti sottolineavano come a questi ultimi dovesse essere lasciata la pi� ampia libert� di scegliere la farmacia che avessero preferito, evitando cos� che potessero essere indirizzati verso botteghe "convenzionate". � anche vero per� che l'accordo medico-speziale, a prescindere dalle motivazioni di lucro, biasimate in genere dall'opinione pubblica per queste pi� che per altre professioni, poteva avere anche motivazioni molto pi� nobili che andavano a vantaggio del paziente: un medico, cio�, aveva in genere maggiore fiducia in un determinato speziale e nella sua capacit� di confezionare alla perfezione i prodotti prescritti. La facolt� per i medici di gestire in proprio una farmacia, e le societ� tra medici e speziali, gi� vietate da Federico II e proibite durante il Trecento dai governi di molte citt� (Napoli, Parma, Cremona, Verona, Venezia, Pisa), vennero invece consentite a Firenze, dove sia gli statuti cittadini che quelli corporativi ne permettevano la costituzione, autorizzando i farmacisti a tenere nelle loro botteghe medici per curare gli ammalati che vi si recavano, e consentendo ai medici di gestire in proprio le spezierie. Era per� vietato l'accordo tra farmacista e medico per vendere i medicinali dividendo gli incassi. Il pi� antico accordo di questo tipo a Firenze risale al 1279, quando un fisico e un chirurgo si associarono per curare gli ammalati in una bottega comune e vendere le medicine. Societ� di questo genere erano in ogni caso ammesse di buon grado anche in molte altre citt� della Toscana (Siena, Pistoia, Lucca) e dell'Emilia (Bologna, Ferrara). Gli speziali associati con un medico non potevano per� curare i feriti, n� somministrare farmaci senza l'autorizzazione del medico stesso. Era consentito anche agli stranieri aprire una bottega di speziale, purch� si iscrivessero alla corporazione versando una tassa doppia rispetto a quella pagata dai cittadini (Milano, Siena, Pisa) e a Roma addirittura tripla (1473). Farmacie di turno Una regolamentazione particolarmente precisa e puntuale caratterizzava gli statuti delle citt� toscane, sensibili molto pi� delle altre alle esigenze degli ammalati. Il pi� completo in proposito � il trecentesco Breve degli speziali di Siena (1356), con le successive modifiche quattrocentesche e d'inizio Cinquecento, in cui, pur nel rispetto della chiusura nei giorni festivi, era prevista una serie di deroghe per garantire ugualmente la fornitura delle medicine agli ammalati, fino all'istituzione, nel 1452, di tre farmacie di turno, una per ogni terziere della citt� (la ripartizione territoriale in cui era suddivisa Siena), estratte a sorte di volta in volta. La legislazione senese non si ferm� qui, divenendo sempre pi� articolata nella seconda met� del Quattrocento e all'inizio del Cinquecento, non tanto per volont� della corporazione degli speziali, ma soprattutto per imposizione dei consoli dei mercanti e delle autorit� che detenevano il governo cittadino. Si stabil� dunque che, dato che le farmacie di turno spesso non avevano i medicamenti adatti a curare una determinata affezione, era lecito a qualunque speziale, su presentazione di ricetta medica (e in seguito anche semplicemente su richiesta di chiunque ne avesse bisogno), aprire e fornire le medicine nei casi urgenti. Una serie di norme tutelava anche gli stranieri di passaggio che non conoscevano la citt� e l'ubicazione delle botteghe, ai quali fu dunque consentito, in caso di necessit�, di rifornirsi da chiunque anche nei giorni di festa. Naturalmente queste aperture straordinarie dovevano avvenire soltanto per la vendita di medicinali, facendo entrare unicamente il cliente che ne aveva bisogno, e richiudendo subito la porta. A Firenze gli statuti del 1349, che prevedevano la chiusura delle botteghe nei giorni festivi, concedendo per� di fornire medicinali agli ammalati gravi, vennero aggiornati nel 1481 con l'istituzione di quattro farmacie di turno. Lo stesso avveniva a Pontremoli (1481), dove era prevista l'estrazione a sorte di quattro botteghe di speziale (una per quartiere) aperte nei giorni festivi. Anche gli statuti degli speziali pisani (1496) prevedevano nei giorni festivi due farmacie di turno, una su ciascuna riva dell'Arno, estratte a sorte di volta in volta. Regole come queste non si trovano minimamente, invece, nei regolamenti degli speziali di Milano (1389), n� in quelli di Roma (1473 e 1487), che si limitavano a prescrivere la chiusura festiva e la vendita, a bottega chiusa, dei soli medicinali indispensabili, ma soltanto fino a mezzogiorno (statuti di Roma 1473). Quelli, pi� tardi, di Verona (1596) non prevedevano neppure una normativa in proposito. Fernanda Wittgens: l'anima di Brera (di Silvia B�chi, "Focus Storia" n. 149/19) - Difese la Pinacoteca milanese dalle bombe alleate e dalle razzie naziste. E la ricostru� sulle macerie. - Nell'Italia devastata della Seconda guerra mondiale, un piccolo esercito di Monuments Men senza divisa riusc� a mettere in salvo migliaia di capolavori. Erano direttori di musei, ispettori, giovani funzionari delle Belle Arti che si trovarono a fronteggiare una situazione di grande emergenza in un Paese, come disse il generale Clark, comandante delle Forze alleate in Italia, in cui era come combattere in "un maledetto museo". In questo contesto si distinse per coraggio e determinazione Fernanda Wittgens, una storica dell'arte che a Milano, con un piccolo ma formidabile team, si diede una missione: salvare il meglio del patrimonio artistico del capoluogo lombardo. Nata sotto la Madonnina nel 1903, Fernanda si appassion� fin da piccola all'arte, spinta dal padre Adolfo, un professore di lettere del Liceo Parini che la domenica amava accompagnare i figli nei musei della citt�. A 22 anni Fernanda era gi� laureata, a 25 attir� l'attenzione di Ettore Modigliani (1873-1947), direttore della Pinacoteca di Brera e sovrintendente alle Gallerie, ai Musei medievali e moderni, agli Oggetti d'arte e ai Monumenti della Lombardia. Modigliani volle accanto a s� la brillante studiosa, attivissima e instancabile, inaugurando cos� un lungo sodalizio che non si interruppe neppure quando, nel 1938, Modigliani, ebreo, fu espulso dall'amministrazione statale per le leggi razziali. Fernanda prese il suo posto: nel 1940 divent� direttrice della Pinacoteca di Brera, prima donna in Italia a ricoprire l'incarico. La sua fu veramente una vita per Brera, come recita il sottotitolo del libro Sono Fernanda Wittgens di Giovanna Ginex (Skira), nel quale emerge la grande personalit� di questa donna emancipata, come si definiva lei stessa, che si trov� a svolgere compiti da uomo in un periodo in cui quasi nessuna donna osava farlo. Fernanda Wittgens era una donna dal temperamento forte e determinato, ma anche una femminista ante litteram che scelse di non sposarsi. Fernanda "Possedeva una chiarezza e una lucidit� di giudizio eccezionali, una grande comprensione e una grande bont�", disse di lei Giorgio Castelfranco, anche lui un Monuments Man in terra di Toscana. A Milano era amata e stimata negli ambienti pi� colti e fattivi, perch� sapevano che le sue decisioni erano giuste e che sarebbe andata sempre fino in fondo. Nel mondo dell'arte, invece, c'era chi la criticava per il carattere militaresco e gli scatti d'ira proverbiali. Cos� scriveva in una lettera del 1955 all'amica Clara Valenti: "Non escludo l'impetuosit� nella discussione e l'eccesso nella lealt�. Ho una lettera-testamento di Modigliani che mi scongiurava di tener conto degli esseri mediocri e incapaci di generosit�, degli esseri che vivono di risentimento. Io non so cosa siano le posizioni negative, e la mia vitalit� � qualche volta, per se stessa, un'offesa per chi ama vivere pigramente, o peggio per chi non sa altra affermazione all'infuori del compromesso". L'Italia entr� in guerra il 10 giugno 1940. La priorit� era mettere in sicurezza il patrimonio artistico milanese e lombardo, e la piccola task force di Brera non si fece trovare impreparata: i capolavori vennero imballati, nascosti nei sotterranei della banca Cariplo e in altre localit� ritenute sicure. Ma dopo il bombardamento della notte tra il 14 e il 15 febbraio 1943 fu necessario fare nuovi trasferimenti. Tra grandi difficolt�, Wittgens accompagn� le opere sui camion, rimanendo sempre a fianco dei guidatori. Quadri come lo Sposalizio della Vergine di Raffaello e altri capolavori della Pinacoteca vennero trasferiti in alcune ville della provincia di Perugia e di Orvieto. "Dopo qualche settimana", scrive Giovanna Ginex, "� ancora Wittgens a riprendere in carico le preziose casse per ricoverarle in un ultimo rifugio considerato pi� sicuro: il palazzo dei principi di Carpegna, una vera e propria fortezza del XVII secolo nel capoluogo del Montefeltro". L� Pasquale Rotondi, sovrintendente delle Marche e instancabile salvatore di tesori, coordinava l'afflusso delle opere d'arte provenienti dalle varie regioni. Ma l'emergenza non era ancora finita: tra il 7 e l'8 agosto 1943, bombe britanniche colpirono molti obiettivi "eccellenti" di Milano, distruggendo anche ventisei sale di Brera. Dopo l'armistizio, nella totale assenza di un potere centrale, tocc� ancora alla Wittgens il compito di salvare dalle razzie tedesche le opere dei musei milanesi. All'alba del 14 luglio 1944, Fernanda fu arrestata, consegnata alle celle di San Vittore dalla soffiata di un giovane ebreo tedesco collaborazionista, a cui aveva procurato una carta d'identit� falsa per fuggire in Svizzera. Wittgens, antifascista fin dagli inizi, non si limitava infatti a salvare le opere d'arte: affiancata da amiche fidate e dal cugino collezionista d'arte Gianni Mattioli, mise in salvo perseguitati politici ed ebrei, procurando loro rifugio e assistenza. A questo scopo, strinse contatti con la rete di solidariet� femminile della San Vincenzo e la Pro Orfani che, sotto la facciata ufficiale della beneficenza, operavano con gruppi clandestini di oltreconfine. Dal carcere, Fernanda scrisse a sua madre e alle sue sorelle, a cui era legatissima: "Quando crolla una civilt� e l'uomo diventa belva, chi ha il compito di difendere gli ideali della civilt�, di continuare ad affermare che gli uomini sono fratelli, anche se per questo dovr�... pagare? Sarebbe troppo bello essere intellettuali in tempi pacifici, e diventare codardi, o anche semplicemente neutri, quando c'� un pericolo". La storica dell'arte rimase a San Vittore fino al febbraio 1945, poi fu trasferita in una clinica milanese fino alla Liberazione. Milano usc� dalla guerra distrutta, moralmente devastata e ferita nei suoi simboli pi� cari: la Scala, il Castello, Brera, la Galleria Vittorio Emanuele, Santa Maria delle Grazie, il Cenacolo, Sant'Ambrogio... E Wittgens, tornata subito al suo posto a Brera dopo la detenzione, dedic� ogni energia alla rinascita della sua citt�. Con la solita irruenza si present� ad Antonio Greppi, sindaco dal 27 aprile 1945, lasciando in lui un vivo ricordo: "Non dette quasi all'usciere il tempo di annunziarla. E mi vidi davanti una donna diversa da tutte le altre... Mi accorsi che per Fernanda Wittgens non esisteva la vita, ma l'arte, e l'anima di Milano era Brera. "Bisogna ricostruire Brera", mi disse, "e poi il Castello, il Museo Poldi Pezzoli e molte cose ancora. Era irresistibile. Le promisi che avrei fatto di tutto per accontentarla". Da quel giorno Greppi la soprannomin� la Valchiria, per la sua forza e determinazione. E la tenacissima Wittgens riusc� nel suo intento: procedette al restauro e alla riapertura dei musei, uno dopo l'altro, nonostante le amarezze e le difficolt� poste dagli altri funzionari museali e dall'amministrazione pubblica. Il 9 giugno 1950, dopo quattro anni di studio e durissimo lavoro, Fernanda Wittgens restitu� a Milano la Pinacoteca di Brera. Volle un museo moderno, propositivo, vivo, per avvicinare il pubblico all'arte. In quest'ottica organizzava visite guidate per i bambini delle scuole elementari, corsi, visite domenicali e serali per i Cral, i pensionati e invalidi. Ma ospitava anche concerti, congressi e mostre. Nella primavera del 1956 organizz� "Fiori a Brera", un'iniziativa che ebbe un enorme successo. Grazie al sostegno economico della Rinascente, le stanze del museo si riempirono di decorazioni floreali che richiamavano quelle dei quadri appesi alle pareti. Non tutti sanno che fu grazie a Fernanda e alla sua lungimiranza se la Piet� Rondanini, ultimo capolavoro di Michelangelo, nel 1952 divenne milanese. Quando infatti la scultura fu messa in vendita dagli eredi del proprietario, cerc� di convincere il Comune ad acquistarla, anche per evitarne l'espatrio. Non fu ascoltata. Decise allora di organizzare una campagna per raccogliere i fondi necessari, coinvolgendo i milanesi. Aderirono in molti, di ogni estrazione sociale, e con generosit�. E la Piet� Rondanini entr� a far parte delle collezioni d'arte del Castello Sforzesco. E se possiamo ancora ammirare l'Ultima cena di Leonardo, lo dobbiamo sempre a questa donna. Fu lei infatti a insistere per tentare il recupero dell'affresco dopo il bombardamento che lo danneggi� gravemente. Cesare Brandi, direttore dell'Istituto Centrale del Restauro, era contrario: riteneva che fosse ormai irrimediabilmente perduto. Invece il 30 maggio 1954, dopo 4 anni di lavoro, tra critiche e polemiche, il Cenacolo venne aperto al pubblico, riscuotendo un grandissimo successo. Ma per la storica dell'arte si avvicinava la fine. Fernanda Wittgens mor� infatti, l'11 luglio 1957, a 54 anni, per una malattia incurabile. Lavor� fino all'ultimo: complet�, quando era gi� ricoverata, un libro sui dipinti dell'Accademia Carrara di Bergamo. Al suo funerale parteciparono migliaia di milanesi: l'ultimo saluto a una donna che non si risparmi� mai.