Maggio 2019 n. 5 Anno IV Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri per un importo pari ad euro 23.084,48 e del MiBACT per un importo pari ad euro 4.522.099. Indice Dieci anni di crisi. O quaranta? Prima parte Tecnofobia: un lato negativo del progresso tecnologico Tutti all'opera Dieci anni di crisi. O quaranta? Prima parte (di Francesco Saraceno, "il Mulino" n. 501/19) Il 2018, apertosi in Italia con la vittoria di Movimento 5 Stelle e Lega alle elezioni politiche, in Francia si � chiuso con le proteste dei gilet gialli che, sia pur in modo confuso e a volte contraddittorio, hanno tentato, almeno in un primo momento, di portare avanti rivendicazioni di maggiore giustizia sociale e di uno Stato che torni a proteggere le classi pi� sfavorite. L'avanzata dei populisti in Italia e in altri Paesi, il successo di partiti di estrema destra, le proteste di piazza francesi, ma anche la Brexit e il successo di Donald Trump negli Stati Uniti, sono tutti fenomeni fortemente radicati nei rispettivi contesti storici e istituzionali. Tuttavia, al di l� delle ovvie differenze, hanno un filo rosso che li lega, rappresentato dalla crisi dei partiti moderati, siano essi una socialdemocrazia ormai ridotta ai minimi termini, o una destra sociale che sopravvive solo dove rincorre i populisti di destra. � l'onda lunga della crisi che ha scosso l'economia mondiale e che proprio nel 2018 marca un anniversario importante: nel settembre 2008 falliva infatti Lehman Brothers, il simbolo di quelle banche d'affari onnipotenti che avevano fatto il bello e il cattivo tempo per un ventennio, durante il quale alcuni parlavano di "fine della storia" e di trionfo definitivo del modello di organizzazione sociale ed economica rappresentato dalle grandi democrazie liberali. Sono proprio le grandi democrazie liberali, e la loro incarnazione nei partiti moderati, ad essere messe oggi in crisi da una contestazione che con forme diverse non risparmia alcun Paese occidentale. Qui prover� a legare le origini profonde della crisi economica, e il disagio sociale che la crisi ha aggravato ma non creato, a una stessa causa: l'aumento vertiginoso della disuguaglianza in gran parte dei Paesi avanzati ed emergenti. Un aumento che vede un chiaro vincitore, il ristretto gruppo di "plutocrati globali" che si appropriano di una parte sempre pi� grande della torta; e anche un chiaro perdente, quella classe media e inferiore dei Paesi avanzati che si trova schiacciata tra l'1% pi� ricco (quasi tutto localizzato nelle grandi democrazie occidentali) e una rampante nuova borghesia dei Paesi emergenti. Vedremo come le cause profonde della crisi finanziaria, con l'accumulazione di squilibri globali sempre pi� marcati, possano essere ricondotte all'aumento della disuguaglianza che ha imposto forti distorsioni nei comportamenti di consumo e risparmio, e condotto all'accumulazione di debito eccessivo in alcuni Paesi. La crisi ha provocato un'ulteriore divaricazione di redditi e ricchezza, e un aumento della fragilit� delle nostre economie, oltre a strappare definitivamente un tessuto sociale che aveva iniziato a sfilacciarsi ben prima del 2007-2008. Alla fine, arriveremo alla logica implicazione secondo cui la riduzione della disuguaglianza dovrebbe essere la priorit� numero uno per una politica che desideri preservare il modello sociale delle democrazie liberali avanzate (e in particolare dei Paesi europei), e sulla base di questa considerazione suggeriremo qualche possibile linea di intervento all'alba di una nuova legislatura europea. Una crisi finanziaria? L'individuazione precisa dei fattori che hanno portato alla peggior recessione dagli anni Trenta del secolo scorso � fondamentale per orientare il dibattito sulle scelte di politica economica necessarie per evitare che si ripeta. Capire con esattezza come e perch� si sia giunti a una crisi sistemica di queste proporzioni � condizione preliminare per discutere in modo coerente delle prospettive future in termini di politica economica e di riforma istituzionale. Val la pena ricordare brevemente quali sono le cause contingenti della crisi. L'elemento scatenante � la combinazione letale di due fattori: il primo � la deregolamentazione progressiva del sistema finanziario (in particolare statunitense), cominciata negli anni Ottanta e culminata nel 1999 con l'abolizione da parte dell'amministrazione Clinton del Glass-Steagal Act. La deregolamentazione ha consentito il proliferare di innovazioni finanziarie sempre pi� sofisticate e opache, il cui obiettivo teorico era di distribuire e minimizzare il rischio, ma che in realt� hanno avuto come risultato la sempre maggiore divaricazione tra la presa di rischio e il rendimento atteso degli investimenti finanziari. Questo ha indotto gli investitori, a tutti i livelli, ad assumere (a volte senza esserne pienamente consapevoli) rischi eccessivi, e ad aumentare in maniera eccessiva il rapporto tra indebitamento e fondi propri (leverage). Il secondo fattore che ha contribuito alla crisi � l'eccesso di liquidit� causato in parte da fasi di politica monetaria (soprattutto negli Stati Uniti) troppo accomodanti, ma soprattutto dagli eccessi di risparmio di intere regioni del pianeta, come l'Asia orientale e alcuni Paesi europei (in particolare la Germania). I mercati finanziari assai fluidi e la massa di risparmio in cerca di collocazione hanno spinto al ribasso i tassi di interesse, contribuendo all'esplosione dell'indebitamento di famiglie e imprese americane. Tuttavia, dieci anni dopo il fallimento di Lehman Brothers, sono in molti a non vedere pi� negli eccessi del settore finanziario la ragione principale della crisi. La crisi finanziaria � solo un sintomo, che certamente va trattato (in particolare, � lampante la necessit� di una migliore regolamentazione dei mercati finanziari), ma senza dimenticare di diagnosticare, e curare, la malattia sottostante. Le cause profonde della crisi vanno ricercate negli elementi che, fin dai primi anni Ottanta, hanno alimentato la progressiva accumulazione di "squilibri globali". Quando nell'estate del 2007 i primi fondi speculativi falliscono, l'economia mondiale � in una situazione di fragilit� strutturale, causata dal progressivo cumularsi di squilibri di segno opposto in aree diverse. Gli Stati Uniti hanno un eccesso di domanda sulla produzione interna, compensato da un deficit commerciale sempre pi� importante (che nel 2006 arriva a sfiorare il 6% del Pil). Questo deficit � finanziato dagli eccessi di risparmio che, con cause diverse, caratterizzano altre regioni. In Cina e negli altri Paesi dell'Est asiatico, l'assenza di protezione sociale adeguata e di un sistema finanziario affidabile spiega alti livelli di risparmio precauzionale di imprese e famiglie. A questo si aggiunga che, dopo la crisi del 1997, le autorit� di quei Paesi hanno iniziato una politica di accumulazione di riserve per far fronte a eventuali nuove crisi valutarie o finanziarie. In Europa, l'eccesso di risparmio � causato dall'inerzia della politica economica e da tassi di investimento insufficienti, che hanno depresso la domanda e il reddito, legando la crescita dell'area alle sole esportazioni. Questi opposti squilibri si sono compensati per quasi un ventennio, dando luogo a un equilibrio globale rivelatosi fragile al momento della crisi. Perch� l'economia mondiale ritorni a crescere in modo stabile e durevole, quindi, occorre che questi squilibri a livello domestico siano riassorbiti. Per quanto possa apparire paradossale, sia nei Paesi con eccesso di risparmio sia in quelli con eccesso di domanda gli squilibri possono essere ricondotti al notevole aumento della disuguaglianza osservato a partire dalla fine degli anni Settanta. Il trasferimento di risorse da poveri e classi medie ai ceti pi� agiati, vale a dire da chi spende in consumi la quasi totalit� del proprio reddito a chi invece ne risparmia una parte consistente, ha provocato una riduzione della propensione media al consumo, e un aumento della massa di risparmio. Questo ha avuto due effetti che ritroviamo entrambi nella crisi attuale. Il primo � un'enorme massa di liquidit� che ha alimentato fiammate speculative e bolle (borsistiche, immobiliari) in serie. Il secondo, pi� rilevante, � una cronica carenza di domanda aggregata. Ma come � cambiata la distribuzione del reddito negli ultimi quarant'anni? E, in particolare, chi sono i vincenti e i perdenti di questo processo di ridistribuzione? L'impoverimento della classe media: non tutti, non da ieri Dopo anni di oblio, i temi della distribuzione del reddito e dell'impatto della disuguaglianza su crescita e benessere sono tornati prepotentemente alla ribalta con la crisi. Il processo di ridistribuzione che si � avviato a partire dai primi anni Ottanta � stato analizzato concentrandosi innanzitutto sugli estremi: da un lato "l'uno per cento" (o anche lo zero virgola uno), quella che Dew-Becker e Gordon hanno definito la "Superstar Economy"; dall'altro poveri e poverissimi. Meno lavoro (per lo meno quantitativo) � stato fatto sull'evoluzione del reddito delle classi medie, e sulla mobilit� sociale, verso l'alto e verso il basso, che questa comporta. Questo � sorprendente, visto il ruolo che storicamente la classe media svolge nel garantire la stabilit� economica e, per questa via, quella sociale e politica. Per fortuna esistono alcune eccezioni di peso. Nel suo Ingiustizia globale, Branko Milanovic presenta la famosa "curva dell'elefante", che traccia l'aumento dei redditi globali dal 1980 ad oggi. La storia raccontata dal grafico dell'elefante � ben nota: se si guarda alla crescita dei redditi durante il periodo che va dal 1988 al 2008, si ha un quadro molto preciso degli effetti distributivi della globalizzazione. I maggiori aumenti percentuali di reddito si osservano per i ricchissimi (l'1% magistralmente analizzato nei lavori di Piketty), quelli che Milanovic chiama i "plutocrati globali", e per la "classe media globale", quella parte della distribuzione che va all'incirca dal quarantesimo al settantesimo percentile, che in gran parte racchiude le classi medie e medie-superiori dei Paesi emergenti (soprattutto asiatici) e in via di sviluppo. I poverissimi (il primo decile), vedono il proprio reddito reale aumentare, ma sono in parte vittime dell'aumento della disuguaglianza nei Paesi emergenti. I veri perdenti della globalizzazione tuttavia sono gli individui tra il settantacinquesimo e il novantesimo percentile, la classe medio-superiore della distribuzione globale del reddito, che aveva nel 2008 lo stesso reddito pro capite del 1988. � su questo gruppo in particolare che conviene concentrarsi, perch� esso si compone principalmente delle classi medio-inferiori dei Paesi avanzati. I cittadini dei Paesi europei, degli Stati Uniti e del Giappone il cui reddito si stabilisce al di sotto della mediana (i primi cinque decili) sono, � vero, ancora pi� benestanti delle classi medio-superiori dei Paesi emergenti; ma hanno visto la loro situazione relativa degradarsi brutalmente sia rispetto a questi ultimi sia, e soprattutto, rispetto alle �lite dei loro Paesi, che costituiscono la maggioranza dei plutocrati globali. � utile notare ancora una volta che l'elefante appare prima del 2008 ed � quindi indipendente dalla crisi che, come vedremo pi� avanti, ha ulteriormente ridotto il tenore di vita della classe media dei Paesi avanzati. � utile, prima di concentrarci sui Paesi avanzati, rimarcare ancora una volta che lo scorso quarantennio ha nel suo complesso portato a uno straordinario aumento di benessere per le classi medie globali, grazie alla crescita galoppante dei Paesi emergenti. Tuttavia, come accennato in precedenza, la situazione � molto diversa per la classe media dei Paesi avanzati, che quasi ovunque ha visto il suo reddito stagnare mentre i pi� ricchi si appropriavano di una quota crescente della torta. Questo � vero in particolare negli Stati Uniti, dove il 50% delle famiglie pi� povere ha visto la propria parte di reddito detta "di mercato" (vale a dire al lordo di imposte e trasferimenti) ridursi dal 20% al 14%. Anche la classe media superiore ha perduto terreno (dal 56% al 41%). La parte che va al 10% pi� ricco � invece aumentata dal 34% al 45%. Con l'1% pi� ricco che fin dal 1995 si appropria di una quota del reddito superiore al 50% inferiore della distribuzioneio. Le cose non sono invece cos� drammatiche in Europa, dove l'1% pi� ricco ha ancora meno del 15% del reddito nazionale e dove i cinque decili inferiori, pur avendo visto un calo, rimangono quasi al 20%. A grandi linee, la letteratura ha evidenziato due forze, legate tra loro, che hanno spinto verso una distribuzione pi� diseguale, penalizzando in particolare la classe medio-inferiore. La prima � la distorsione nella domanda di "competenze" introdotta dalle recenti ondate di progresso tecnologico (il termine inglese � skill bias). La diffusione delle tecnologie dell'informazione ha migliorato la produttivit� dei lavoratori altamente qualificati pi� di quella di coloro che hanno poca o nessuna istruzione. Gli scarti di salario crescenti rifletterebbero quindi l'allargamento del divario di produttivit�. Il secondo fenomeno che ha inciso sulla disuguaglianza crescente � la globalizzazione. I lavoratori poco qualificati che sono entrati nel mercato del lavoro globale dalle economie emergenti e in via di sviluppo hanno abbassato la produttivit� marginale media del lavoro, riducendo cos� la sua quota di reddito nazionale rispetto al capitale. Inoltre, l'aumento della concorrenza sui mercati del lavoro ha ridotto il potere contrattuale dei sindacati e dei lavoratori nei Paesi emergenti. Nel loro insieme, il progresso tecnico skill biased e la maggiore concorrenza nei mercati del lavoro globali potrebbero spiegare l'aumento della disuguaglianza sia tra lavoro e capitale che tra i lavoratori con competenze diverse. Tuttavia, mi sembra importante evidenziare un aspetto meno discusso della questione. L'aumento della disuguaglianza � avvenuto in un contesto intellettuale dominato da quello che si pu� definire il "Nuovo Consenso". Semplificando all'osso, in questo quadro teorico i mercati allocano le risorse sulla base della produttivit� dei singoli fattori, che ne determina le remunerazioni. Per quanto possa essere iniqua socialmente e politicamente, quindi, l'allocazione operata dal mercato � quella "giusta" in quanto ogni fattore � remunerato in base al suo contributo al prodotto; la distribuzione pu� quindi essere trascurata fin tanto che si crede all'efficienza del processo allocativo dei mercati. Anzi, in sottofondo persiste l'idea che efficienza e equit� siano alternative, perch� la ridistribuzione di fatto introdurrebbe delle distorsioni nello scambio di mercato. � questo quadro teorico che fa da sottofondo alla teoria detta dello "sgocciolamento" (trickle down), per cui ridistribuire in favore dei pi� ricchi favorisce la crescita perch� remunerando chi � pi� produttivo da un lato aumenta risparmi e investimenti e dall'altro fornisce i giusti incentivi per l'accumulazione di capitale fisico e umano. La teoria dello sgocciolamento ha tuttavia pochissimo supporto empirico. Molti hanno mostrato in modo convincente come molto pi� dei fattori "fondamentali", come la globalizzazione e il progresso tecnico, sia l'incremento dei comportamenti predatori delle �lite a spiegare l'aumentata disuguaglianza nel corso degli ultimi decenni. Di fatto, negli ultimi trent'anni si � messo in moto un circolo vizioso per cui l'eccessivo peso del settore finanziario ha causato disuguaglianza crescente e accumulazione di rendite nelle mani delle �lite; a loro volta queste risorse sono state reinvestite nella finanza sottraendo ossigeno all'economia reale. In ossequio alla teoria dello sgocciolamento i sistemi fiscali dei Paesi avanzati sono gradualmente divenuti meno progressivi. Un recentissimo lavoro lega la riduzione della progressivit� dell'imposta al cambiamento di natura della globalizzazione, intorno alla met� degli anni Novanta. Prima del 1994, una maggiore apertura agli scambi con l'estero era generalmente associata a una maggiore progressivit�. Dopo tale data, la globalizzazione sembra invece indurre un significativo aumento del carico fiscale sul reddito da lavoro della classe media, mentre l'1% pi� ricco ha tratto benefici sostanziali dalla rimodulazione dei sistemi fiscali. L'enfasi del Nuovo Consenso sull'efficienza dei mercati ha insomma avuto un ruolo importante nel creare la curva dell'elefante, e allo stesso tempo ha fatto un'altra vittima importante, lo Stato sociale, e il suo ruolo di stabilizzatore dell'economia. Un lavoro recente dell'Ocse mostra come nella maggior parte dei Paesi avanzati il ruolo di redistribuzione del settore pubblico si sia fortemente ridotto. In particolare, nella stragrande maggioranza dei Paesi il ruolo assicurativo del Welfare State (tramite, ad esempio, i sussidi di disoccupazione) � stato ridimensionato, senza essere compensato dall'aumento, peraltro non osservato ovunque, dell'assistenza alle categorie pi� disagiate. L'aumento della disuguaglianza nei Paesi avanzati sembra essere quindi il risultato da un lato dell'emergere di una classe media globale, che si � trovata a competere con i lavoratori meno qualificati dei Paesi avanzati; dall'altro dalla vasta (e ingiustificata) appropriazione di risorse da parte della "plutocrazia globale", sostenuta da un paradigma economico dominante che ha gradualmente ridimensionato il ruolo di quello Stato regolatore che era stato un pilastro dello sviluppo e del benessere diffuso del secondo dopoguerra. (continua) Tecnofobia: un lato negativo del progresso tecnologico (di Franco Amicucci, "Prometeo" n. 145/19) - Quel fenomeno di "ansia tecnologica" che si genera di fronte all'introduzione di un cambiamento che modifica la routine. - La societ� odierna � contraddistinta da un continuo progresso tecnologico: lo sviluppo digitale ha portato alla creazione di un susseguirsi di dispositivi innovativi, i quali si rivelano caratterizzati da una complessit� sempre maggiore. Questi strumenti non sono utili solo in ambito lavorativo, dove la loro conoscenza �, oggi, indispensabile, ma sono diventati anche parte integrante della nostra vita privata. La loro introduzione ha facilitato lo svolgimento dei pi� banali compiti giornalieri, rendendone indispensabile la comprensione e l'utilizzo: chi decide, per varie motivazioni, di evitarli, corre il rischio di rimanere isolato. La tecnologia presenta numerosi aspetti positivi; in ambito lavorativo ha permesso la semplificazione e velocizzazione di processi complessi, oltre ad aver permesso l'accesso a orizzonti che mai ci si sarebbe sognati di poter raggiungere prima. La digitalizzazione ha anche contribuito a ridurre le distanze, portando a una nuova visione di relazione e rapporto, basato ora anche sull'utilizzo del medium tecnologico in ambito comunicativo. Il nuovo stile di vita a cui il progresso tecnologico ci ha condotti, per�, non viene considerato da tutti come un'evoluzione positiva. Come ogni fenomeno porta con s� una serie di "contro", che variano dalla sfera etico-morale alla necessit� di cambiare la propria forma mentis per imparare ogni volta a utilizzare il nuovo dispositivo che esce sul mercato. Una parte della popolazione � talmente ammaliata dai vantaggi introdotti dallo sviluppo della tecnica da meritare l'appartenenza alla categoria dei tecnofili. Un tecnofilo altro non � che un individuo che considera positivamente la maggior parte delle forme di tecnologia, accogliendone in maniera entusiastica le evoluzioni e le novit�; per il tecnofilo la tecnologia non � solo un modo per migliorare le proprie condizioni di vita, ma anche un utile strumento da sfruttare nelle battaglie sociali. Un'altra parte, di contro, si concentra sul rovescio della medaglia. La protagonista di questo articolo �, infatti, la tecnofobia, la cui etimologia ci d� un primo livello di analisi rispetto al fenomeno: dal greco techne, "arte, abilit�, destrezza", e phobos, "paura". Non si � ancora giunti a una definizione di tecnofobia definitiva: il fenomeno, non ancora studiato in tutte le sue sfaccettature e conseguenze, � stato descritto in molti modi; si cercher� qui di fare una sintesi e dare una definizione che possa essere abbastanza ampia da comprendere tutte le implicazioni del caso. La tecnofobia pu� essere definita come la paura, il disprezzo e il malessere che derivano dall'idea di utilizzare moderne tecnologie e complessi strumenti tecnici; queste paure e ansie, di natura irrazionale, sono causate dal timore degli effetti collaterali connessi all'uso di tecnologie avanzate. La tecnofobia non ha una natura totalmente unitaria; sotto il suo nome, infatti, possono raggrupparsi pi� forme di "ansia tecnologica". Possiamo identificarne due principali: la prima comprende le reazioni emotive negative derivanti dal timore degli effetti disastrosi che il progresso tecnologico potrebbe avere sulla societ� e sull'ambiente; la seconda, invece, riguarda pi� il disagio nell'utilizzo di strumenti digitali che possono variare dai computer ai fax fino ad arrivare all'ultimo modello di smartphone o tablet. L'ansia o la paura sono una fisiologica reazione all'introduzione di nuovi stimoli che arrivano sotto forme tecnologiche e che modificano la routine codificata dagli individui. L'ansia pu� derivare anche dalla sensazione di non essere in grado di riuscire a comprendere il funzionamento di questi nuovi dispositivi e, conseguentemente, dal timore di non essere capaci di usarli nel migliore dei modi: questo timore � legato anche alla possibilit� di perdere il proprio posto di lavoro, perch� si � incapaci di adattarsi al cambiamento richiesto. Le nostre capacit� cerebrali e le nostre abilit� cognitive si sviluppano ed evolvono seguendo dei tempi e hanno bisogno di concludere il percorso alla velocit� che la propria natura richiede per far s� che giungano alla totale maturazione. La tecnologia, invece, si sviluppa sempre pi� in fretta, dando vita a dispositivi sempre pi� complessi che entrano nel nostro mondo in pochissimo tempo. Questo gap fra i due processi crea un mancato allineamento fra lo sviluppo delle capacit� umane e lo sviluppo tecnologico e questo porta, inevitabilmente, a un rallentamento nell'adozione delle nuove tecnologie. A variare � anche la sintomatologia, che pu� manifestarsi semplicemente attraverso la percezione di sensazioni negative come l'apprensione o l'angoscia, o che pu� tradursi in reazioni fisiche come accelerazione del battito cardiaco o iperidrosi. Nonostante si tenda a concentrarsi sugli aspetti patologici e portati all'estremo di questo timore del nuovo, in parte potrebbe essere considerato giustificabile e radicato nella realt�; l'ansia che le radiazioni possano nuocere alla salute, ad esempio, � sensata e provata dalla scienza. L'idea di una tecnologia pericolosa che possa creare problemi o, addirittura, possa arrivare a sostituire l'umanit� non � di certo nuova: l'argomento � stato affrontato anche da varie forme d'arte pi� o meno recenti. Possiamo citare come esempio letterario 1984 di George Orwell, mentre in ambito cinematografico si passa da Tempi moderni di Charlie Chaplin al pi� recente Blade runner di Ridley Scott. La tecnofobia viene idealmente considerata come strettamente legata all'et� contemporanea, un prodotto dell'introduzione della digitalizzazione. In realt� il fenomeno ha radici tutt'altro che recenti: c'� chi sostiene che le prime forme di tecnofobia possano essere collocate nell'Inghilterra del XIX secolo, all'epoca da poco investita dalla rivoluzione industriale. Il timore che i nuovi macchinari introdotti potessero essere una minaccia per gli operai del tempo fece nascere un movimento insurrezionale chiamato luddismo. I luddisti, per manifestare la loro rabbia e il loro disprezzo, erano soliti distruggere i nuovi macchinari industriali, ritenendoli responsabili degli stipendi bassi e della disoccupazione. Gli studi sul tema, nonostante le varie incertezze, sono numerosi. La maggior parte di essi vede un'imprecisione di fondo: la tecnofobia viene confusa con l'ansia da computer (o computer fobia), mentre quest'ultima pu� essere definita un sottoinsieme di essa. I due termini sono stati erroneamente considerati interscambiabili per anni: questo poteva considerarsi accettabile nel ventennio tra gli anni Settanta e Novanta, che corrisponde al periodo in cui effettivamente i computer potevano essere considerati il massimo picco tecnologico, ma oggi risulta anacronistico. Queste ricerche hanno dunque tentato di studiare la tecnofobia attraverso l'analisi dell'avversione nei confronti del computer e poche altre forme di progresso tecnologico, come l'e-mail, i fax e gli ATM. Nel circoscrivere questo contesto, i ricercatori hanno cercato di fornire strumenti metodologici che potessero aiutare a misurare, predire e trattare la fobia dei computer, ma non la tecnofobia. Questi studi non possono essere considerati esaustivi, perch� escludono una serie di variabili notevoli e si dimostrano insufficienti a spiegare l'ampiezza del fenomeno; anche gli studi pi� moderni, che prendono in esame le ultime uscite digitali, tendono a utilizzare delle scale create dagli studiosi sulla computer fobia applicandole ad altre tecnologie. Il problema, a volte, � la non adattabilit� delle scale create all'ecosistema tecnologico odierno. Ma � possibile definire la tecnofobia una reale psicopatologia? Gli studiosi sono incerti, il dibattito � ancora aperto. Dalla ricerca condotta da Maria Elena Osiceanu, ad esempio, emerge come la tecnofobia non possa essere definita una fobia nel senso classico del termine, come potrebbe essere, ad esempio, l'agorafobia, ma la studiosa sottolinea come presenti molti aspetti simili a queste patologie, a partire dall'eziologia fino ad arrivare al trattamento. La tecnofobia non � relativa solo al timore di non essere all'altezza nell'uso di strumenti tecnologici o alla paura di effetti negativi per la salute, ma � anche e soprattutto una forma mentis che conduce a un responso emozionale negativo connesso al pensiero della tecnologia; il tecnofobo riconosce la sua irrazionalit�. Un altro contributo sull'argomento viene dato nel 1985 da Meier [ma chi � Meier? Nome di battesimo e dati biliografici...], il quale sosteneva che la paura dei computer difficilmente potesse raggiungere il livello di debilitazione che � associato all'agorafobia o a fobie simili. Nel tentativo di diagnosticare e classificare la tecnofobia come fobia vera e propria, fondamentale � lo studio di Thorpe e Brosnan del 2007 [Does computer anxiety reach levels which conform to DSM IV criteria for specific phobia?, in "Computers in Human Behavior", 23, 2007, pp. 1258-1272], che ragiona sulla computer fobia come psicopatologia. Per dimostrare la veridicit� della loro ipotesi, gli studiosi hanno preso in esame l'aracnofobia (fobia dei ragni), cos� come viene definita dalla quinta edizione del DSM (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), per poi paragonarla alla computer fobia allo scopo di sottolineare i punti condivisi; sono arrivati alla conclusione che "l'ansia da computer" possa essere annoverata nel mosaico delle paure problematiche. Gli studi condotti sulla tecnofobia ci hanno fornito una serie di classificazioni e schematizzazioni che possono aiutarci a inquadrare meglio il fenomeno; inoltre ci permettono di studiarlo anche filtrandolo attraverso una lente di natura teorica che affonda le sue radici in varie scienze, da quelle psicologiche a quelle sociologiche passando per quelle biologiche. Alcune di queste classificazioni ci permettono di operare una distinzione fra individui tecnofobi basata non solo su un diverso grado di intensit�, ma anche sulla natura delle cause che conducono a essa e sulle sue diverse manifestazioni. Larry Rosen, nel 1990, ha condotto uno studio in questo senso, i cui risultati hanno condotto a una suddivisione degli appartenenti alla categoria dei tecnofobi in tre grandi gruppi: Gli uncomfortable users: questa categoria � caratterizzata da un'ignoranza di fondo che porta l'individuo a vivere uno stato di ansia basato sulla credenza di non essere in grado di capire come approcciarsi alle nuove tecnologie; si tratta di coloro che non hanno abbastanza informazioni relative al modo d'uso dei dispositivi tecnologici; I cognitive computerphobes: gli appartenenti a questo gruppo vengono investiti da un approccio cognitivo negativo che li porta a vivere uno stato di fastidio inconscio, che non si traduce, per�, in rappresentazioni visibili di malessere o preoccupazione; Gli anxious computerphobes: questi individui, nell'utilizzo del computer, presentano una serie di sintomi che sono classicamente connessi all'ansia: la tachicardia o l'iperidrosi possono essere considerate esempi validi di queste manifestazioni. Secondo Rosen, le vittime di tecnofobia non riescono a comprendere coscientemente la causa della loro ansia in tutte le implicazioni che ne conseguono e in tutte le motivazioni da cui dipende. Un'altra schematizzazione che si � dimostrata utilissima per gli studi sul campo � quella che nasce dallo studio condotto da Yashar Salamzadeh nel 2013, che si concentra sull'individuazione di quei fattori che possono portare un individuo a essere affetto da tecnofobia. Questa ricerca � dotata di un valore aggiunto, essendo incentrata sulla tecnofobia come fenomeno generale e dunque non legato a un dispositivo tecnologico specifico. Salamzadeh ha scelto come base di partenza del suo studio la definizione di tecnofobia coniata da Huges, che descrive il problema come "la paura, lo sconforto o l'ansia nei confronti di varie forme di tecnologia". Come principale fonte di ricerca utilizza delle interviste semi-strutturate e come campione sceglie, senza seguire nessun criterio specifico, studenti e lettori che frequentano un'universit� iraniana. Lo studioso e i suoi collaboratori, analizzando i dati, giungono alla conclusione che ci siano 14 diversi fattori alla base della tecnofobia e che possano essere suddivisi in quattro gruppi: Fattori individuali, al cui interno possiamo trovare: - Mancanza di abilit� individuali: la mancanza di quelle abilit� e capacit� che impedisce all'individuo di poter compiere al meglio il proprio lavoro; - Mancanza di abilit� comunicative: a mancare, qui, � la capacit� di un individuo di condividere informazioni, non essendo in grado di comunicarle nello stesso modo in cui vengono da lui recepite e comprese; - Personalit�: la refrattariet� all'uso della tecnologia � strettamente legata a schemi cognitivi, emozionali e di condotta che appartengono all'individuo; - Complessit� di uso percepita: a fronte dell'avvento di una nuova tecnologia, l'individuo fa una serie di considerazioni relative al quantitativo di problemi che da essa deriveranno: � una valutazione personale, incentrata sulle sfide che personalmente si trover� a dover affrontare; - Utilit� percepita: � il momento in cui la nuova tecnologia arriva effettivamente ad accrescere il livello di problematicit� nella vita di un individuo. Fattori sociali, che comprendono: - Problemi etici: valutazione mentale delle conseguenze spiacevoli che seguiranno all'applicazione di una tecnologia; - Influenze culturali: un aumento individuale dell'ansia in seguito all'ingresso di una diversa cultura, i cui risultati nel cambio culturale sono dovuti all'applicazione di nuove tecnologie; - Norma: l'impatto delle regole abituali, che possono creare riluttanza nell'eseguire un compito; - Cambio d'habitat: quanto una persona preferisce mantenere la situazione corrente ed evitare di affrontare nuove condizioni che risultano poco familiari. Fattori infrastrutturali: - Generale cambio delle tendenze tecnologiche: la rapida trasformazione della tecnologia crea nell'individuo uno stato di turbamento dovuto all'incapacit� di seguire l'evolversi della sua complessit� in perenne aumento; - Leggi e regolamenti: la mancanza di una regolamentazione adeguata crea degli effetti sulla riluttanza dell'individuo nel provare una nuova tecnologia. Fattori moderanti: - Mancanza di allenamento: per essere in grado di sviluppare le abilit� necessarie all'uso di una nuova tecnologia � importante prepararsi attraverso l'esercizio, la cui mancanza conduce a uno stallo; - Esperienza: l'osservazione e l'allenamento permettono di accrescere il proprio livello di esperienza nell'uso pratico di una tecnologia; - Et�: la refrattariet� all'uso di moderni strumenti tecnologici dipende anche dall'et� dell'individuo che ad essi si approccia. Nonostante questo studio sia fondamentale per la comprensione dell'entit� del problema, gli sono state mosse alcune critiche; a essere prese di mira sono alcune scelte compiute con superficialit�. La scelta del campione, ad esempio, manca di criterio; non tiene oltretutto in considerazione il fatto che alcune delle variabili descritte possano dipendere dallo specifico contesto del Paese di provenienza. Semplicistica viene considerata anche la definizione di tecnofobia su cui lo studio si basa, tratta da Huges: � troppo legata alla ricerca di questo autore sul rapporto fra tecnologia e persone in et� avanzata. Interessante da analizzare � anche il modificarsi del fenomeno tecnofobico in relazione a quelle che sono le variabili personali degli individui, come il sesso, l'et� o l'ambiente in cui si � immersi. Questi studi non sempre danno risultati che si possano definire unitari; qui ci limiteremo a presentare una sintesi delle varie linee di pensiero, esclusivamente al fine di comprendere quanto influenzino l'approccio al fenomeno. Per quanto riguarda la differenza di genere, sono stati compiuti numerosi studi; la maggior parte di essi sembra concordare sul fatto che esista una differenza di approccio alla tecnologia fra uomini e donne e che questa differenza veda il sesso femminile pi� restio all'utilizzo di questi strumenti. Questi studi si basano sull'analisi dell'attitudine all'adozione di nuove tecnologie; la motivazione per cui se ne riscontrerebbe un livello pi� basso nel sesso femminile � legata alla differenza di genere nello stile di pensiero cognitivo. Nel 2009 uno studio di Sahin Kesici, Ahmet Oguz Akturk e Ismail Sahin: Analysis of cognitive learning strategies and computer attitudes, according to college students' gender and locus of control, in "Computers in Human Behavior", 25, 2009, pp. 529-534, ha dimostrato come queste differenze di pensiero siano fondamentali per lo studio del consumo di beni tecnologici. Le donne, tendenzialmente, sono mentalmente pi� inclini alla memorizzazione e a processi di pensiero di tipo analitico rispetto agli uomini, il che le rende pi� esposte al rischio di sovraccarico informativo. I prodotti tecnologici sono dotati di una complessit� maggiore rispetto al resto dei prodotti di consumo e questo porta gli individui ad approcciarsi ad essi con un certo livello di ansia, dubbi e timore. Questo fa supporre che le donne siano pi� restie a provare nuovi strumenti tecnologici rispetto agli uomini che, invece, adottano stili decisionali pi� semplici. La deduzione � supportata da studi che concludono che le donne, generalmente, sono meno propense a utilizzare Internet rispetto agli uomini come conseguenza della differenza di pensiero. Un altro studio a supporto di questa tesi � quello di Nelson O' Ndubisi 2006 [Effect of gender on customer loyalty: a relationship marketing approach, in "Marketing Intelligence & Planning", 24, 2006, pp. 48-61], il quale dimostra che quando un nuovo prodotto o servizio entra nel mercato, gli uomini sono pi� felici di essere i primi nel loro circolo sociale a utilizzarlo; le donne, invece, preferiscono usare il prodotto solo una volta testato da altri. Queste scoperte sono supportate anche dallo studio del 2009 di Adam Booij e Bernard van Praag, i quali sostengono che pi� grande � il rischio d'acquisto percepito di un prodotto, pi� le donne avranno difficolt� a utilizzarlo. Anche le altre variabili umane hanno una grande influenza sui risultati di queste analisi. Numerosi studi tentano di dimostrare che a essere affetti da tecnofobia siano solo le fasce pi� anziane della popolazione; utile a riassumere le varie linee di pensiero � una ricerca del 2008 condotta da Mair�ad Hogan, che mostra differenze significative fra adulti e studenti nei livelli complessivi di tecnofobia nell'approccio ai computer. Il suo studio, sostiene, concorda con i risultati di una serie di altri studi, come Ellis et al. del 1999, o Anthony et al., 2000-2005, che sostengono che l'ansia da computer vada aumentando con l'et�; ma, allo stesso tempo, si rivela in contrasto con altri studi, come Dyck et al., 1994, e Bozionelos, 2001, che dimostrano come persone di et� pi� avanzata mostrino livelli di ansia tecnologica pi� bassi rispetto ai giovani adulti. La bibliografia esistente sulla tecnofobia � piuttosto ampia negli Stati Uniti; in Italia, invece, il fenomeno non viene studiato in maniera esaustiva: esistono poche ricerche scientifiche che spiegano e descrivono il problema. Pi� in generale, nonostante gli studi esistenti, c'� una tendenza a minimizzare l'incidenza della tecnofobia sulla societ� e, pi� specificamente, in ambito lavorativo. La tendenza a evitare l'utilizzo di dispositivi tecnologici rappresenta un grave problema per le aziende. Lo sviluppo digitale ha portato a un susseguirsi di innovazioni tecnologiche che vengono sempre pi� sfruttate in ambito lavorativo e che corrispondono a un risparmio economico e temporale, oltre a essere un motore propulsivo per lo sviluppo aziendale: se i dipendenti tecnofobi non riescono a utilizzarle (o se non vogliono farlo), arrecano un danno all'azienda. La tecnologia, oltretutto, cambia molto rapidamente e i lavoratori hanno poco tempo per abituarsi a questo nuovo stato. C'� una mancanza di ricerca riguardo al ruolo della tecnofobia e dell'adozione della tecnologia. Questa scarsa attenzione sfocia in un'assenza di sostegno rivolto ai dipendenti: se le aziende trovassero un modo per fornire un sistema di supporto al problema, potrebbero riuscire a influenzare positivamente il rapporto dei lavoratori con la tecnologia, riuscendo a ridurne le ansie e permettendo loro di accogliere pienamente i benefici che la tecnologia porta con s�. Le paure e le ansie legate alla tecnologia non si basano unicamente sulla paura di perdere il proprio posto di lavoro e, conseguentemente, la propria appartenenza sociale, ma rappresentano un timore di fondo radicato nella natura umana che riguarda l'eterna contrapposizione fra umanit� e artificialit�, che ci fa credere che non si possa convivere pacificamente con le macchine, sfruttandole a proprio vantaggio, ma che si possa unicamente essere sostituiti da loro. Il progresso tecnologico, si teme, escluder� sempre pi� l'essere umano, relegandolo ai margini della societ�. Ma se invece fosse possibile trarre vantaggi dal progresso? Se le "macchine" non venissero pi� considerate l'opposto dell'umano, ma una sorta di suo potenziamento? Probabilmente riusciremmo a vivere in una societ� che non ha timore di sapere, di studiare, di crescere e di progredire; probabilmente sarebbe proprio questo a renderci pi� umani. Tutti all'opera (di Andrea Milanesi, "Ulisse" n. 410/19) - Dalla Scala di Milano fino alla ROH di Muscat l'amore per la lirica passa per struttire affascinanti dove si � scritta la storia della musica. - In un'epoca altamente tecnologica e digitale come la nostra, dominata da file mp3, streaming e dirette video sui social network, non sembra mai tramontare il fascino di assistere dal vivo all'esibizione unica e irripetibile di un celebre artista o alla messinscena di un'opera. Come testimoniano le centinaia di migliaia di appassionati che ogni anno si muovono per assistere ai numerosi eventi disseminati nelle pi� disparate localit� del globo; un rito collettivo che trova nei grandi teatri d'opera le mete privilegiate di pellegrinaggi musicali all'insegna del melodramma e del belcanto. A partire dall'immancabile Teatro alla Scala di Milano, che domina la ribalta internazionale dal lontano 1778, quando la sala progettata dall'architetto Giuseppe Piermarini venne inaugurata con L'Europa riconosciuta di Salieri. Tutto qui � destinato a fare spettacolo, e non solo per ci� che accade sulla scena: dall'enorme lampadario centrale con le sue 400 lampadine ai quattro ordini di palchi e ai due di gallerie che costituiscono il famoso "loggione", dove tradizionalmente si d� appuntamento il pubblico pi� competente ed esigente della lirica, che nei secoli ha potuto assistere alle prime assolute di opere come La gazza ladra di Rossini e Norma di Bellini, Nabucco, Otello e Falstaff di Verdi o Madama Butterfly e Turandot di Puccini. Ma il glorioso patrimonio della tradizione culturale italiana annovera splendide "case della musica" praticamente in ogni citt�, da Torino a Bologna, da Genova a Firenze, da Roma a Palermo. A Venezia il Gran Teatro La Fenice, inaugurato nel 1792 e risorto dopo i terribili incendi che lo hanno completamente distrutto due volte (nel 1836 e nel 1996), vanta una storia musicale di primissimo piano ed � oggi una delle istituzioni pi� attive artisticamente e virtuose finanziariamente. Un soggiorno a Napoli non pu� invece prescindere da una visita al San Carlo, il Teatro d'Opera pi� antico del mondo; qui si sono celebrati i fasti della grande Scuola partenopea a cavallo tra XVII e XVIII secolo, mentre nell'Ottocento ha tenuto a battesimo ben 17 opere di Donizetti (Lucia di Lammermoor compresa). E poi ci sono i piccoli e splendenti gioielli di provincia, veri e propri capolavori d'arte e di architettura come il Teatro Olimpico di Vicenza disegnato nel 1580 dal Palladio, con le sue scene fisse e gli spettacolari giochi di prospettiva, o come il Teatro Bibiena di Mantova, progettato appunto da Antonio Galli Bibiena nel XVIII secolo, caratterizzato da una particolare pianta a forma di campana e disposto su pi� ordini di palchetti lignei "a balconcino". E se a Bayreuth, in Germania, la Festspielhaus voluta da Richard Wagner per ospitare unicamente le sue opere pu� soddisfare solo una minima percentuale delle richieste di biglietti, i melomani pi� raffinati del Vecchio continente sono comunque di casa nei tradizionali templi della lirica delle grandi capitali europee, come la Staatsoper di Vienna, l'Op�ra di Parigi, il Covent Garden di Londra e la Staatsoper Unter den Linden a Berlino, mentre in Russia si contendono il primato due istituzioni storiche e blasonate come il Teatro Mariinskij a San Pietroburgo e il Bolshoi a Mosca. Oltreoceano le sirene del belcanto si esibiscono sul palcoscenico della Metropolitan Opera House di New York - il famoso "Met", il teatro lirico pi� grande del mondo con i suoi 3.800 posti a sedere e le monumentali decorazioni di Marc Chagall - ma il gps dei celebri divi della lirica si sintonizza sempre pi� di frequente su mete esotiche che arrivano fino ai Paesi del Medio Oriente, tra la Royal Opera House di Muscat in Oman - inaugurata nel 2011 da una Turandot di Puccini diretta da Pl�cido Domingo con l'Orchestra e il Coro dell'Arena di Verona - e l'Opera di Dubai, spettacolare e avveniristica struttura da 2.000 posti aperta al pubblico nel 2016. E magari capita anche che un teatro moderno diventi una vera e propria icona della citt� che lo ospita, tanto da renderne subito riconoscibile lo skyline: � accaduto a Sidney e alla sua Opera House, inaugurata dalla regina Elisabetta II nel 1973 e oggi Patrimonio dell'Unesco.