Giugno 2018 n. 6 Anno III Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri per un importo pari ad euro 23.084,48 e del MiBACT per un importo pari ad euro 4.522.099. Indice La spirale del rumore. Il discredito della politica e la sfiducia nei media I Mondiali della vergogna Plagi geniali Ma in musica il '68 � mai esistito? La spirale del rumore. Il discredito della politica e la sfiducia nei media (di Carlo Sorrentino, "il Mulino" n. 496/18) Si � parlato a lungo della bruttezza della campagna elettorale per il voto del 4 marzo scorso. C'� chi l'ha definita addirittura surreale per la preferenza a soffermarsi su promesse impossibili, piuttosto che riflettere su programmi e progetti plausibili. � parso un segno d'impotenza e inconcludenza di una politica che gira in tondo, sempre alla ricerca del colpo a effetto. Ma forse � opportuno interrogarsi se questa sgradevole impressione non derivi anche da un racconto della politica che non funziona pi�; se non debbano - media e politica - fare entrambe un passo indietro e ragionare su nuove formule narrative che attenuino la seria delegittimazione della politica a cui assistiamo ormai da tempo. Ma come si � arrivati a questo punto? E, soprattutto, quanta consapevolezza si ha di questo slittamento e delle conseguenze che provoca? Una prima risposta superficiale ci potrebbe portare ai tempi di Tangentopoli, ai processi arrembanti di Di Pietro, alla bava che colava dalla bocca tremante di Forlani (P.P. Giglioli, S. Cavicchioli e G. Fele, Rituali di degradazione, Il Mulino, 1997). Ma non sarebbe del tutto corretto. A quella classe politica sono state tirate finanche le monetine; ma era rabbia, livore nei confronti di personalit� da cui ci si sentiva traditi. Un tradimento tanto pi� insopportabile quanto pi� rilievo si attribuiva alle funzioni che svolgevano. � dopo che ci siamo avvitati in una spirale che conduce verso il discredito della politica. Una spirale del rumore, in cui si � determinato un rapporto inversamente proporzionale: cresce la chiacchiera politica mentre diminuisce il rispetto per la politica. Perch� questo � il punto: il passaggio dal discredito dei politici al discredito della politica. Cerchiamo di ricostruirne il percorso in tre tappe: 1) l'editore televisivo che diventa politico; 2) il giornalismo che denuncia per inseguire il pubblico; 3) i politici che stanno al gioco. (Il discredito della politica � attribuibile a tantissime cause spesso sintetizzate con la locuzione "crisi della democrazia", negli ultimi anni al centro di molte riflessioni e ricerche. Qui considero soltanto quelle relative al rapporto fra media e politica in Italia). La prima tappa - obbligata - � la "discesa in campo" di Silvio Berlusconi. Una mossa che contiene in s� 3 sovvertimenti: di linguaggio, di competenze, di contestualizzazione. Gi� la frase usata - diventata un classico - scendere in campo sottolinea la volont� di attingere a un linguaggio non politico. Ora non lo ricordiamo pi�, ma la scelta del nome del suo movimento - Forza Italia - suscit� all'inizio soprattutto ilarit� fra gli addetti ai lavori. Sembrava una boutade di un personaggio eccentrico, di un parvenu che stava disperatamente cercando di salvare s� stesso e le sue aziende dalla scomparsa dei suoi protettori politici. Inizia un percorso verso un linguaggio aspecifico, che possa essere compreso dai non addetti ai lavori. Anzi, che parli esclusivamente a loro e comunichi la seconda rivoluzione: "il candidato che vi parla � credibile perch� non � un politico e non sar� mai un politico". L'incompetenza diventa un valore. E non si tratta di una curvatura insensata della storia; ma addirittura di un'evoluzione logica. Il tradimento di Tangentopoli aveva segnato un punto di non ritorno: l'inaffidabilit� dei "professionisti della politica". Espressione che assumer� un significato negativo, come a segnalare che l'unica direzione in cui si sviluppava la professionalit� fosse il proprio tornaconto e quello del proprio partito. L'incompetenza, cio� provenire da altri ambienti, appare la cartina di tornasole della propria onest�, requisito prediletto della societ� civile. Infatti, il Cavaliere non sar� l'unico politico atipico, lo accompagneranno tanti altri - presenti in differenti schieramenti - che, soprattutto a livello locale, conosceranno immediati successi e andranno a governare diverse citt� italiane. Grazie a un linguaggio e a un apparato simbolico del tutto nuovi, Silvio Berlusconi sposta la politica dai classici contesti istituzionali del confronto e della decisione ai media e segnatamente alla televisione: la sua casa. Beninteso, non � una mossa rivoluzionaria. L'Italia arriva ben ultima nel processo di mediatizzazione della politica. La scelta di Berlusconi � una scelta obbligata. Deve tirare su dal nulla una forza politica in pochi mesi. Non pu� fare altro che sfruttare quello che ha. I canali televisivi per far conoscere il brand; le professionalit� della sua concessionaria di pubblicit� - Publitalia - per strutturare Forza Italia nei collegi. Mentre cerca di costruire una nuova classe politica, non pu� che far leva su s� stesso, introducendo in Italia quella personalizzazione della politica altrove gi� in auge, anche a causa di sistemi elettorali e caratteristiche istituzionali che la favorivano. Dietro l'invenzione berlusconiana non c'� nessuno specifico ragionamento di comunicazione politica, ma soltanto l'adattamento dei suoi contenitori televisivi al nuovo messaggio. Gli altri partiti lo rincorrono. Smarriti da fenomeni sociali che stentano a comprendere, si rifugiano sui media, sedotti dall'aura di modernit� che emanano, ma senza capire perch� farlo e come farlo. Cambia improvvisamente il racconto della politica, per decenni ingessato, confinato in contenitori e linguaggi specialistici, caratterizzato da quello che � stato definito parallelismo politico fra classe politica e giornalisti, con una netta e perdurante subalternit� dei media alla politica. In altri Paesi, soprattutto quelli anglosassoni, il rapporto fra media e politica ha una lunga storia, caratterizzata da una progressiva centralit� dei primi, coltivata anche attraverso la rivendicazione della propria indipendenza e della propria funzione di controllo del potere. Nel caso italiano, questo rapporto vede una tardiva quanto improvvisa inversione di tendenza: dalla secolare dipendenza dei media dalla politica allo scarto realizzato con Tangentopoli; possibile anche grazie alla repentina crescita economica delle aziende editoriali negli anni Ottanta, che consolida il sistema dei media. Qual � la principale conseguenza di questa differente evoluzione? In altri contesti i media sono diventati - da molto pi� tempo e progressivamente - uno dei luoghi in cui si � articolata la rappresentazione della politica, insieme ad altri pi� tradizionali, costituiti dalle istituzioni, i collegi elettorali, i luoghi della ricerca e dell'innovazione delle proposte come i think tank. In Italia la centralit� dei media si � affermata soltanto quando � declinata la capacit� dei partiti di abitare i territori, le piazze, la variegata vitalit� degli ambienti politici, culturali, associativi e religiosi di cui a lungo � stata permeata la realt� italiana. Al ripiegamento della politica corrisponde una centralit� di media diventati pi� baldanzosi per la ricordata autonomia economica. Centralit� - come si � detto - ricercata dal leader di Forza Italia; accettata, forse sarebbe meglio dire subita, dagli altri, che - pur potendo contare su di un pi� radicato insediamento territoriale - scambiano il ricorso ai media come ineluttabile segno dei tempi, lasciando il lavoro sul campo a un'altra caratteristica della politica mediatizzata: i sondaggi, che diventeranno in pochi anni il principale anello di congiunzione con l'opinione pubblica e i suoi umori. I media diventano - se non l'unico - di gran lunga il principale luogo del discorso pubblico. Ma quale sistema dei media assume questa funzione? La televisione in Italia ha avuto (e continua ad avere) una centralit� maggiore rispetto a quanto non sia avvenuto negli altri Paesi. I motivi sono da ricercare nello storico ritardo culturale del nostro Paese. L'analfabetismo ha impedito un'ampia diffusione della carta stampata; quando � stato superato, gi� c'era la tv. Negli anni Novanta la centralit� televisiva si consolida con la definitiva affermazione dell'emittenza privata, a cui si contrappone la Rai, chiamata a una competizione insolita, avendo vissuto per tanti anni in regime di monopolio. L'aspetto paradossale, conseguente all'ingresso di Berlusconi in politica, � che la concorrenza, anzich� produrre un allontanamento dell'emittenza pubblica dall'intreccio con la politica, "politicizza" anche il polo privato, fino ad allora strategicamente tenutosi a distanza, grazie a una linea editoriale incentrata sulla cronaca e sulle soft news. Continua il parallelismo fra politica e informazione, ma l'intreccio registra un'inversione nei rapporti di forza, con i media che iniziano a dettare l'agenda, a definire i frame, le cornici interpretative attraverso cui si raccontano i principali fenomeni ed eventi. Introducono un nuovo linguaggio, spesso mutuato proprio dalla leggerezza dell'emittenza privata. I politici iniziano a cantare, cucinare, parlare della propria famiglia (G. Mazzoleni e A. Sfardini, Politica pop, Il Mulino, 2009). Anche nella carta stampata le linee editoriali si discostano dalla stretta adesione a specifici progetti politici. Anzi, ne elaborano di propri, incalzando partiti e istituzioni. Si pensi, ad esempio, al ruolo svolto da "la Repubblica" nel dibattito che si apre sul centrosinistra. Gli editori continuano a essere "impuri", cio� a sviluppare prevalentemente le loro attivit� in altri settori dell'economia; ma adesso fanno profitti anche attraverso i mezzi di comunicazione. Un aspetto che d� loro un potere contrattuale maggiore rispetto al passato. Partiti e istituzioni politiche arrivano a questo passaggio storico indeboliti da Tangentopoli e dalle incertezze proprie della cosiddetta "Seconda Repubblica". Ma in quest'evoluzione nei rapporti fra classe politica ed editori qual � il ruolo dei giornalisti? Certamente, un'informazione meno ingessata politicamente e pi� legata al mercato offre loro la possibilit� di ampliare i temi trattati e di raccontare la realt� anche attraverso nuove soggettivit� sociali. Tuttavia, i giornalisti scontano la fragilit� di un'identit� professionale non costruitasi storicamente intorno alla centralit� del valore informativo, quanto piuttosto definita da una funzione pedagogica, che trova nell'adesione a specifiche culture politiche il proprio ubi consistam. Si trovano cos� sbalzati dalla centralit� della politica alla centralit� del mercato senza avere avuto il tempo di riflettere adeguatamente su cosa voglia dire fare giornalismo. Basti pensare all'irrilevanza del dibattito su obiettivit� e etica professionale, centrale, invece, in altre realt�. Sia ben chiaro, come spiega una vasta letteratura (fra gli altri M. Schudson, La scoperta della notizia, trad. it. Liguori, 1988), in tali dibattiti si � addensata tantissima ideologia professionale, che � comunque servita per ragionare sulla funzione giornalistica e sui rischi propri di dover ricostruire la realt� attingendo a fonti tutte interessate a fornire una propria prospettiva. Quando nei journalism studies si afferma che l'obiettivit� � una strategia operativa per contenere le sollecitazioni interessate - quando non i depistaggi - delle fonti, si fa riferimento proprio alla complessa ma opportuna definizione da parte dei giornalisti di una comunit� interpretativa (B. Zelizer, Journalists as interpretative communities, "Critical Studies in Mass Communication", 10 (3), 1993, pp. 219-237) - la loro - tesa a ripararsi dalle letture preferenziali degli interlocutori. In Italia queste considerazioni non hanno mai goduto di grande attenzione. All'affrancamento dalla subalternit� politica non si accompagnano adeguate analisi che permettano al giornalismo di cogliere la rilevanza della propria funzione. Anche il lungo indugiare sul termine mestiere, preferito a quello di professione, dietro l'aura dell'artigianalit�, di un "saper fare" acquisito sul campo tradisce la predilezione per una competenza prevalentemente tecnica, che ha difficolt� a fare i conti con una professionalit� culturale in grado di misurarsi con i cambiamenti sociali, con le continue trasformazioni del contesto. Anche per questo motivo, pur liberato dalla subalternit� alla politica, il giornalismo italiano vi resta contiguo. La politica rimane una dimensione rilevante, come confermano i dati sulla copertura informativa, ben superiore a quella presente in altri Paesi. Tuttavia, nell'epoca della concorrenza di mercato, resa ora ancora pi� stringente dalle logiche del digitale, non ci si pu� permettere i tempi lunghi delle inchieste e, quindi, si sposa la facile denuncia. Non siamo all'advocate journalism, alla difesa degli interessi dei meno tutelati; piuttosto, al non funziona, gi� contestato da Patterson al giornalismo americano quale sintomo di una critica di maniera, piatta e non approfondita (T.E. Patterson, Out of Order, Knopf, 1993). Una presa di distanza dalla politica e dal potere adeguata sia ai tempi sincopati, ormai richiesti all'informazione, sia all'esigenza di rispondere a "quello che chiede la gente", in un cortocircuito attraverso cui si costruisce l'agenda dei temi e poi con i sondaggi si inseguono le conferme indagando l'umore dell'opinione pubblica. Ma cos� progressivamente si cede il passo al primato delle opinioni e delle emozioni; mentre passano in secondo piano la presentazione dei fatti e la capacit� d'interpretare una realt� sempre pi� articolata. "L'unico candidato che non ha bisogno di mentire". Potrebbe essere stato un efficace slogan della recente campagna elettorale italiana. In realt� era quello scelto dal comico Coluche nella sua candidatura alle presidenziali politiche francesi del 1980. Come si vede, Grillo non � stato il primo comico a impegnarsi in politica. Ma ci sono due significative differenze. Innanzitutto, la candidatura del comico francese durer� soltanto qualche mese, poi si ritirer�; mentre il Movimento 5 Stelle � diventato il primo partito in Parlamento. In secondo luogo, Grillo ha creato tutti i presupposti per il successo dei 5 Stelle, costruendo nel tempo il clima d'opinione opportuno e, poi, la strutturazione del movimento, ma non si � mai direttamente candidato. Analogamente, altri personaggi del mondo dei media hanno avuto fortuna politica, da Reagan allo stesso Trump, ma nessuno � stato per un quarto di secolo il leader di un polo politico come Berlusconi. Dunque, in tutto il mondo la visibilit� offerta dai media rende pi� evidente la permeabilit� fra questo mondo e la politica. Ma in Italia tale permeabilit� sembra produrre risultati pi� duraturi e significativi. I media sono diventati non soltanto il luogo principale attraverso cui comunicare le proprie idee, ma anche quello da cui attingere personaggi e competenze. Non soltanto Berlusconi e Grillo, ma anche i tanti giornalisti e conduttori che in questi anni si sono candidati, per non dire di personaggi "inventati" dalla televisione o che attraverso essa hanno acquisito enorme notoriet� e, quindi, l'ingresso in politica. La politica si � adattata alle logiche dei media, basate sull'immediatezza, la velocit� e la sintesi. La comunicazione politica si fonda sempre pi� su dichiarazioni, interviste, soundbite di politici che alle mediazioni nelle sedi istituzionali e partitiche sostituiscono quella diretta con il pubblico. Con l'arrivo dei social, poi, tutto si contrae ancor pi� in slogan. La fortuna politica si costruisce attraverso l'abilit� a "stare sui media". Per questa via, per�, la comunicazione politica si trasforma nell'abilit� a cavalcare l'onda, piuttosto che a indicare la strada, in una visione del marketing politico molto gretta, che si limita a inseguire un facile consenso. Tradisce cos� la sua funzione, che dovrebbe essere quella di spiegare, motivare, render conto, coinvolgere, che i media - soprattutto i nuovi media - potrebbero assicurare attraverso la continua visibilit� e la capacit� di controllo. Condizioni che, per�, se non soddisfatte producono un effetto boomerang: la mediatizzazione della politica produce una nuova politicizzazione dei media. Non pi� quella tradizionale della subalternit� delle testate a un preciso disegno politico; quanto, piuttosto, la creazione di un legame a doppio filo in cui i rappresentanti dei due ambienti si reggono il gioco reciprocamente, fino ad apparire agli occhi dell'opinione pubblica indistinguibili. Si inizia a suddividere i rappresentanti di questi due mondi in precise fazioni politiche, a prescindere dal fatto che il loro ruolo sia quello di attori politici o di professionisti dei media. Una sovrapposizione conseguente a una perdurante contiguit� che determina l'assimilazione del linguaggio, dei riferimenti culturali, delle modalit� argomentative. Un chiaro indicatore di questa tendenza � il successo delle testate maggiormente schierate, che realizzano un giornalismo fortemente valutativo, in cui il punto di vista prevale nettamente sulla completezza informativa. Tuttavia, per questa via cresce la perdita di fiducia in tutti gli attori protagonisti di questo racconto. Il primo ad accorgersene � stato non a caso proprio un uomo di spettacolo di lungo corso come Beppe Grillo. La sua predilezione per la rete � sicuramente dovuta alla consapevolezza di un logoramento dei media tradizionali, oltre che ai minori costi e alla maggiore immediatezza del web; inoltre, l'alterit� della proposta politica e pi� complessivamente al sistema criticato doveva simbolicamente, ma anche sostanzialmente, trovare un diverso canale di comunicazione, individuato nella rete, nella sua maggiore orizzontalit�, non a caso fin da subito sottolineata da Grillo con la rilevanza affidata alla democrazia diretta e all'eguaglianza fra rappresentati e rappresentanti: uno vale uno. Ma attraverso questa scelta Grillo ribadisce anche la distanza verso un'�lite rappresentata non soltanto dalla classe politica, ma anche dal mondo dei media. Negli anni seguenti Grillo e il suo movimento si sono aperti al mainstream, perch� un movimento colpito da improvviso successo non pu� escludersi da una visibilit� generalizzata, assicurata soltanto dalla tv e dai principali media. Ma lo fanno attraverso continue "prese di distanza", tese a rassicurare s� stessi e gli elettori circa l'eccentricit� della loro proposta politica. Sar� interessante vedere se ora - con la rilevanza politica acquisita - riusciranno a mantenere il riconoscimento di tale diversit� da parte dei cittadini. In definitiva, i media hanno maggiore centralit� e sono inseguiti affannosamente dai politici. Ma l'effetto complessivo � una spirale rumorosa e inconcludente, che conduce a una progressiva comune perdita di reputazione. Entrambi - media e politica - centrali ma poco credibili. Centrali ma non vitali. I Mondiali della vergogna (di Riccardo Michelucci, "Focus Storia" n. 140/18) - Nel 1978 in Argentina si svolsero i Mondiali di calcio. E mentre sui campi si giocava, il regime dittatoriale al potere continuava con la sua politica di violenze e repressione. - Stadio Monumental di Buenos Aires, 25 giugno di 40 anni fa: le nazionali di Argentina e Olanda giocano una partita importante, davanti a 80-mila tifosi. � la finale dei Mondiali di Argentina '78, quelli che successivamente saranno definiti i "Mondiali della vergogna". Da due anni, infatti, l'Argentina era sottoposta a una dittatura feroce: il 24 marzo 1976 un colpo di Stato aveva portato al potere i militari, rappresentati dal generale, e presidente, Jorge Rafael Videla. Durante il regime il Paese visse un lungo periodo (fino al 1983) di violenze e repressione. E nei mesi in cui si svolse il Campionalto mondiale di calcio la dittatura non fu meno spietata. Alcuni superstiti raccontarono in seguito che durante le partite venivano sospese le torture e i "voli della morte" (gli oppositori arrestati venivano buttati ancora vivi dagli aerei in volo sull'oceano), ma al fischio di fine gare tutto riprendeva come prima. Mentre gli occhi del mondo erano dunque puntati sui campi, la macchina della repressione continuava a lavorare: secondo le stime, nei 25 giorni di campionato (dall'1 al 25 giugno) vi furono 63 desaparecidos ("scomparsi" in spagnolo), ossia persone fermate per attivit� antigovernativa di cui non si ebbe pi� nessuna notizia. A poche centinaia di metri di distanza dallo stadio si trovava la Scuola di meccanica della Marina (Esma), nella quale furono rinchiuse durante il regime 5-mila persone (di cui solo 500 uscirono vive), definita "l'Auschwitz argentino" dallo scrittore Eduardo Galeano nel libro Splendori e miserie del gioco del calcio. Tutto questo mentre il regime usava il gioco del calcio (popolarissimo in Argentina) come straordinario, quanto inaspettato, strumento di consenso. I Mondiali erano stati infatti assegnati all'Argentina anni prima, in base alla regola - in vigore allora - dell'alternanza tra continente europeo e continente americano. All'inizio Videla era contrario ai giochi nel Paese, ma ben presto si convinse che non vi era palcoscenico migliore per mostrare al popolo e al mondo intero il lato "buono" del suo governo. A questo scopo furono impiegati fiumi di denaro pubblico, senza curarsi della crisi economica che attanagliava il Paese sudamericano in quegli anni. Basti pensare che interi quartieri malfamati di Buenos Aires e di Rosario vennero abbattuti prima dell'inaugurazione del campionato. Per la manifestazione il governo argentino spese quattro volte di pi� di quello spagnolo per i successivi Mondiali del 1982. Per impedire, inoltre, contatti tra dissidenti e stampa estera venne intensificata in quel mese la repressione, arrivando a circa 200 arresti al giorno. Ai giornalisti stranieri fu imposto di scrivere solo di calcio, evitando riferimenti alla societ�, all'economia e alla politica. La stampa di casa invece aveva l'obbligo di descrivere una nazione tranquilla, ordinata e pacificata, grazie alla "pulizia" dei sovversivi, tacciati di essere antiargentini. Persino nelle telecronache veniva esaltato il regime: il giornalista Jos� Maria Mu�oz diceva spesso che gli argentini erano derechos y humanos ("giusti e umani"). L'unica forma di opposizione fu quella felpata, ma determinata, delle Madri di Plaza de Mayo, che ogni gioved� sera si trovavano davanti al palazzo del Presidente a Buenos Aires, per reclamare la verit� sui loro figli scomparsi. Queste manifestazioni tuttavia furono ignorate dalla maggior parte dei mezzi di informazione internazionali, eccezion fatta solo per la televisione olandese, che mise in onda un servizio sui cortei proprio il giorno dell'inaugurazione dei giochi. Ma cosa ne pensava davvero il resto del mondo del governo argentino? Le federazioni sportive non presero mai posizione rispetto a quello che succedeva nel Paese ospite, e men che meno fu considerata da qualcuno la possibilit� di non giocare quel torneo. Nessun giocatore inoltre, nonostante l'asfissiante presenza dei militari nei campi e nei ritiri, critic� mai il regime argentino o fece dichiarazioni sulle vittime della repressione, anzi, qualcuno come il capitano della nazionale tedesca, Berti Vogts, disse: "L'Argentina � un Paese dove regna l'ordine. Io non ho visto nessun prigioniero politico". Altri si nascosero dietro al fatto che il calcio sarebbe dovuto rimanere estraneo alla politica. In un primo momento l'assenza del grande giocatore olandese, Johann Cruijff, fu interpretato come un gesto di protesta. Ma successivamente lo stesso Cruijff spieg� che non aveva partecipato a quel Mondiale per motivi di sicurezza: mesi prima aveva sub�to un tentativo di rapimento a Barcellona, che lo aveva convinto a limitare gli spostamenti. Per dare maggior lustro al regime era necessario tuttavia che l'Argentina vincesse la coppa, in modo anche da distrarre il popolo, con la vittoria e i festeggiamenti. Per questo motivo fu scelto un allenatore, politicamente distante dal regime, ma tecnicamente molto preparato, C�sar Luis Menotti detto El Flaco ("il magro"), ritenuto l'unico in grado di far vincere ai biancoceleste il primo titolo della loro storia. La nazionale argentina, dopo un inizio poco convincente (perse anche contro l'Italia di Bearzot), arriv� in finale con l'aiuto di qualche arbitraggio favorevole, ma soprattutto grazie a una partita truccata. La gara era contro il Per� e si concluse con un 6 a 0 per gli argentini. Per effetto dei numerosi gol segnati nel match, i padroni di casa guadagnarono la finale a discapito del Brasile. Anni dopo, l'inchiesta di Tim Pears, giornalista statunitense, prov� che il regime aveva regalato un milione di tonnellate di grano al Per� per "ammorbidire" i suoi giocatori. Il giorno della finale, poco prima di scendere in campo, l'allenatore Menotti chiese ai suoi uomini di giocare per alleviare il dolore del popolo e non per i generali seduti nella tribuna d'onore. L'Argentina sconfisse gli olandesi per 3 a 1 ai tempi supplementari, aggiudicandosi la Coppa del mondo e facendo esplodere la festa in tutto il Paese. Per i militari il trionfo consacr� il regime agli occhi del mondo e contribu� a rinsaldare il potere dei generali, potere che mantennero per altri 5 anni nel silenzio generale e nella pi� totale impunit�. Plagi geniali (di Massimo Manzo, "Focus" n. 306/19) - Un software progettato per gli studenti copioni ha rivelato che perfino Shakespeare non utilizzava solo "farina del suo sacco". E non fu certo l'unico. - I poeti immaturi imitano, quelli maturi rubano, affermava con ironia lo scrittore americano Thomas S' Eliot (1888-1965). Ne sapeva qualcosa perfino William Shakespeare, che da vero fuoriclasse della "copiata" ha saputo coprire le proprie tracce per pi� di quattrocento anni. Fino a oggi, quando i miracoli della tecnologia hanno finalmente svelato una delle fonti pi� importanti di alcuni suoi capolavori. A smascherare il celebre drammaturgo � stata una coppia di ricercatori americani di nome Dennis McCarthy e June Schlueter. Durante i loro studi, i due si sono imbattuti in un manoscritto semisconosciuto conservato tra gli scaffali della British Library di Londra e intitolato A Brief Discourse of Rebellion and Rebels, scritto nel 1576 da un tale George North. Insospettiti dal fatto che alcuni personaggi del libro assomigliassero molto a certi caratteri shakespeariani, i ricercatori hanno deciso di confrontarlo con le opere del maestro inglese usando un banale software. "Il programma (scaricabile gratuitamente da Internet) si chiama WCopyfind ed � stato sviluppato dall'Universit� della Virginia per scovare eventuali plagi degli studenti", spiega McCarthy. "Abbiamo quindi incrociato i dati risultati dal programma con quelli della banca dati digitale della libreria, la Early English Books Online (Eebo), che contiene quasi 60.000 testi inglesi della prima et� moderna". Detto fatto, si � scoperto che il testo di North aveva chiaramente influenzato ben undici drammi shakespeariani, composti alcuni anni dopo. In alcuni monologhi e passaggi descrittivi di tragedie come Riccardo III (1597), Enrico V (1599) e Macbeth (1606), erano infatti ripetute particolari frasi o parole presenti nel manoscritto, per di pi� in contesti simili. La scientificit� del metodo di ricerca escludeva tra l'altro che si potesse trattare di semplice casualit�. "Dimostrare che questi paralleli sono coincidenze � quasi impossibile, ancor pi� che vincere la lotteria da 450 milioni di dollari negli Stati Uniti", taglia corto McCarthy. Quello del menestrello di Stratford non � certo l'unico caso in cui artisti, letterati, scienziati e inventori famosi hanno tratto ispirazione da opere altrui saccheggiandole talvolta a piene mani. Ognuno ebbe i suoi motivi e qualcuno, forse pentito, arriv� persino a confessare. Come Rudyard Kipling (1865-1936), divenuto popolare in tutto il mondo per la raccolta di racconti Il libro della giungla (1894), che dodici anni prima di ricevere il premio Nobel per la letteratura (nel 1907) confid� di non essere il solo padre della saga di Mowgli. "Stando al contenuto di una lettera che Kipling scrisse nel 1895 a una signora misteriosa (messa all'asta nel 2013 per 2.500 sterline), Il libro della giungla fu, nell'idea e in alcuni passaggi, un clamoroso furto, che regal� a Kipling una fortuna immensa", afferma il giornalista Luigi Mascheroni nel libro Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte del copiare (Nino Aragno Editore). Chi sia il vero genitore del "cucciolo d'uomo" rimane per� uno dei misteri della letteratura. A proposito di premi Nobel, ben prima della nascita del computer anche il nostro Luigi Pirandello (1867-1936) seppe sfruttare al meglio il "copia incolla". Il caso pi� eclatante risale al 1908 e fu dettato, in un periodo di particolari ristrettezze economiche, dalla necessit� di garantirsi una cattedra di professore ordinario all'istituto superiore di magistero. A tal fine, il maestro siciliano pubblic� in tutta fretta il noto saggio L'Umorismo, nel quale, come si scoprir� decenni dopo, erano incollate per intero numerose pagine di intellettuali italiani e stranieri (senza ovviamente le dovute citazioni). E se Pirandello copi� per necessit�, il prolifico Gabriele d'Annunzio (1863-1938) lo fece sfoggiando il suo innato talento artistico, tanto da guadagnarsi l'eloquente soprannome di "sublime plagiatore". Tra gli altri, il "poeta soldato" rapin� illustri colleghi come Maupassant, Baudelaire, Verlaine, �mile Zola e Gustave Flaubert. "Nel romanzo La tentazione di Sant'Antonio (1874), proprio Flaubert scrive: "Le secret que tu voudrais tenir est gard� par les sages... au air chaud les nourrit, des l�opards tout � l'entour marchent sur les gazons...". E D'Annunzio, nelle Elegie romane (1892) traduce e copia: "L'hanno in custodia i saggi... un'aria calda li nutre... su l'erba d'intorno rapidi i leopardi..."", riporta Mascheroni nel suo saggio. Ironia della sorte, lo stile dannunziano sar� a sua volta imitato (e plagiato) da folte schiere di poeti e scrittori. Ma il Vate non fu il solo copiatore compulsivo. A fargli buona compagnia troviamo Emilio Salgari (1862-1911), creatore di leggendari personaggi come Sandokan e Il corsaro nero, che avrebbe copiato per intero ben due romanzi (Le caverne dei diamanti e Avventure fra le pellirosse) da oscuri autori di lingua inglese. Per sua fortuna, per�, la verit� � venuta a galla solo nel 2000, a quasi un secolo dalla sua morte. Lo sterminato elenco dei "plagiatori letterari" potrebbe continuare con altri nomi eccellenti. Qualche esempio? Alexandre Dumas (1802-1870), Arthur Conan Doyle (1859-1930) ed Edmondo de Amicis (1846-1908), tanto per citarne alcuni. Nella lista spuntano personaggi insospettabili, come l'icona dei diritti civili Martin Luther King (1929-1968). Nel 1985 Clayborne Carson dell'Universit� di Stanford, mentre dirigeva un progetto per la pubblicazione postuma dei suoi scritti, si accorse con imbarazzo che molti di questi, compresa la tesi di dottorato in teologia, contenevano ampi stralci scopiazzati. La figura del reverendo era per� cos� autorevole che tali scivoloni gli furono perdonati. In alcune circostanze, poi, i plagi possono essere causati da autentiche patologie. Come la cosiddetta criptomnesia, definita come "un disturbo della memoria in base al quale i ricordi appaiono come creazioni originali". Quando il noto psicanalista Carl Gustav Jung (1875-1961) se ne occup�, cit� proprio un esempio letterario: quello di un passaggio (evidentemente copiato) del capolavoro di Friedrich Nietzsche Cos� parl� Zarathustra (1883). Stando a Jung, il grande filosofo tedesco l'avrebbe "rubato" per effetto di tale disturbo. Episodi medici a parte, in generale il confine tra plagio e imitazione non � sempre cos� netto. In millenni di letteratura tutti gli autori, compresi i pi� innovativi, hanno tratto ispirazione da maestri del passato, consapevolmente o meno. Come fanno da sempre tutti gli artisti. A essere troppo severi finirebbero sul banco degli imputati passaggi "storici" come il celeberrimo "quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno..." di manzoniana memoria, molto simile a un verso del gesuita Daniello Bartoli (1608-1685), che recita "quella parte dell'India che � presso il Gange...". Ma allora, come giudicare il comportamento di Shakespeare? I ricercatori che ne hanno svelato gli ultimi segreti non ci stanno a definirlo un semplice "copione". "� importante capire che i "prestiti" verbali ripresi dall'opera di North non ammontano a lunghi spezzoni. Il nostro lavoro non aveva lo scopo di accusarlo di plagio, piuttosto di identificare un'importantissima fonte prima totalmente sconosciuta", precisa June Schlueter. Insomma, dopotutto, anche nei suoi riguardi possiamo chiudere un occhio. Ma in musica il '68 � mai esistito? (di Roberto Casalini, "Millennium" n. 6/17) Date retta a uno che c'� passato, per quell'anno "formidabile". A uno che era adolescente nell'incandescenza della rivoluzione-che-non-ci-fu: il '68 non � esistito. In musica, intendo. S�, le universit� erano occupate e le medie superiori pure. C'erano le cariche della polizia, gli scontri, gli striscioni, gli slogan, il "vi odio cari studenti" di Pasolini. C'erano il Maggio Francese, la fantasia al potere, ce n'est qu'un d�but continuons le combat, che poi divenne una marcetta buona per i clacson delle automobili e per le trombette dei tifosi, ta-ta-tatat�-tatat�ta-tat�: ma La canzone del maggio di Fabrizio De Andr� sarebbe arrivata nel 1973. Intanto nel '68 il francese Antoine a Sanremo cantava "per il pizzo di una sottana/ perdo sempre la tramontana". E il mostro sacro Louis Armstrong, sul palco dell'Ariston, stemperava il catrame della sua voce nel latte e nel miele: "Ciao, staserra son qui/ mi va di cantarrei, perch� sei con mei". Bertero-Buonassisi-Valleroni, mica Cohn-Bendit o Mao Zedong. Invano il saggio Sergio Endrigo, che a Sanremo avrebbe vinto con Canzone per te, metteva in guardia: "La festa appena incominciata � gi� finita/ il cielo non � pi� con noi". Cantava d'amore, sembrava prevedere gli anni (di piombo) che ci aspettavano. Ai vertici delle classifiche dei singoli, con Applausi e L'ora dell'amore dei Camaleonti, con La bambola di Patty Pravo, c'era anche Ho scritto t'amo sulla sabbia di Franco IV e Franco I (e per fortuna anche Azzurro di Paolo Conte per Celentano e Vengo anch'io, no tu no di Enzo Jannacci). Altrove non andava meglio: il '68 sarebbe stato anche l'anno della bubblegum music, qualcuno ricorda i trallallero di Yummy yummy o di Simon says? Il meglio era gi� accaduto. Il meglio in musica, il peggio in politica, erano alle porte. Pi� che un'aria da prima volta, c'era quasi un'atmosfera da cerimonia degli addii: "Ecco, la musica � finita, gli amici se ne vanno..." cantava nel 1967 Ornella Vanoni. E in pochi anni si sarebbero sciolti i Beatles e si sarebbero congedati Janis Joplin, Jimi Hendrix e Jim Morrison, spezzati da successi ed eccessi (ma, a essere onesti, il '68 di Hendrix era All along the watchtower). Ecco, i Beatles, per esempio: nel '68 erano il White album, geniale e monumentale quanto si vuole ma dispersivo e casuale, l'album di quattro solisti pi� che di un gruppo. La rivoluzione l'avevano fatta nel '67 con Sgt. Pepper. Restava appena il tempo per un viaggio in India alla ricerca del guru e per progetti solisti velleitari che oggi � difficile riascoltare (Wonderwall di George Harrison, Two virgins di Lennon e Ono). Meglio i Rolling Stones, allora: con Street fighting man, il combattente di strada, bandita da tutte le radio americane, e con Sympathy for the devil. Ecco la California: la magica estate di pace e amore, di flower power e hippies, gli acid test al rinfresko elettriko di Ken Kesey, i surrealistic pillows dei Jefferson Airplane erano gi� archiviati. Roba dell'anno prima, buona a stento per i saldi canori del pop nostrano. Anche se nel 1968 esordiva uno dei pi� grandi di sempre, Neil Young. Prendiamo i festival: il 1967 fu Monterey, il primo raduno di massa. Il 1968 invece, appena l'isola di Wight che ci regal� un'insulsa canzoncina di Michel Delpech rifatta in italiano dai Dik Dik: "Sai cos'� l'isola di Wight/ � per noi l'isola di chi/ ha negli occhi il blu/ della giovent�/ di chi canta/ ippi-ippipp�... ippipp�". Doveva essere "hippie hippie hippie", ma la fonetica giocava brutti scherzi. Per Woodstock bisognava mettersi in coda e attendere il '69. Prendiamo il progressive: il '68 vide la nascita dei geniali ma minoritari Soft Machine di Robert Wyatt e del Canterbury sound. Ma i Pink Floyd avevano esordito nel 1967 (The piper at the gates of dawn) e avevano gi� fatto in tempo ad accantonare il genio malato Syd Barrett, i King Crimson di Robert Fripp sarebbero arrivati nel 1969. Prendiamo i freak pi� corrosivi: sua perfidia Frank Zappa si manifesta nel 1966 con Freak out!, nel '68 replica con We're in it only for the money, velenosa parodia di Sgt. Pepper, ma non � pi� una novit�. Prendiamo il rock metropolitano made in Usa, in bilico tra pop art e protopunk: il '68 ci regala Iggy Pop & The Stooges (e gli abrasivi Mc5 di Kick out the jams), ma i Velvet Underground, con la musa inquietante Nico, avevano aperto i battenti nel solito, fatale 1967. I conti non tornano neppure nel "rock barocco": il 1967 � l'anno dei Procol Harum, quelli di A whiter shade of pale; il '68, al massimo, sar� l'anno degli Aphrodite's Child e degli imbarazzanti caffettani di Demis Roussos. In Italia c'� gi� stata la stagione del beat, gruppi come i Nomadi e l'Equipe 84 diffondono le prime canzoni di Francesco Guccini che lanciano pi� di un sasso nello stagno (Auschwitz, Dio � morto, Noi non ci saremo). Esordiscono facendo cover (Oggi piango degli Small Faces) gruppi come gli Stormy Six che avranno una messa a fuoco di splendido e militante alt-rock nei '70, esordiscono in maniera polemica (Brennero 66 contro i separatisti austriacanti) i Pooh che in seguito diventeranno i Queen de noantri. Sanremo normalizza la timida eversione beat nel 1966-67. Mogol s'inventa la "linea verde", canzoni di protesta garbate, che non turbino i sonni di nessuno: e cos� nel '67 Riki Maiocchi canta con Marianne Faithfull C'� chi spera (ne viene fatta all'istante un'irriverente parodia stradaiola, "C'� chi spara"), Gianni Pettenati "Ci sar� la rivoluzione/ nemmeno un cannone per� sparer�", i Giganti arrivano terzi al Festival con Proposta ("Mettete dei fiori nei vostri cannoni"). In quell'anno arriva al capolinea anche la straordinaria leva cantautoriale dei '60, quella che per comodit� e con qualche approssimazione verr� definita "scuola genovese": con il suicidio di Luigi Tenco (nel 1967). Ma anche con la semiclandestinit� di Paoli e Bindi, e con Lauzi prossimo a "battistizzarsi". Debutta su 33 giri Fabrizio De Andr� (nel '67, con materiale che risale all'inizio del decennio), ma il suo esordio tardivo sa quasi di bilancio: partito dalla chanson francese, Fabrizio approder� ben presto al concept album tanto in voga all'epoca (Tutti morimmo a stento, La buona novella). E il resto � storia. Il '68 �, semmai, un incubatore di musiche che verranno, e che in quest'era, a quest'ora, in questura forse neppure si intuiscono: il teatro-canzone di Giorgio Gaber; una nuova generazione di cantautori pi� "americani": ma nel solito fatale '67 ha esordito, splendido battistrada, Francesco Guccini con Folk beat n. 1; il folk contaminato ed elettrificato (ma allora domina l'ascetismo del Nuovo Canzoniere Italiano lacerato al suo interno fra impegno militante e filologia da mondine); il progressive all'italiana, certo jazz di ascendenza free con dieci anni abbondanti di ritardo su Ornette Coleman, certi sogni di mediterraneit� e di "musica totale" che abbatta i generi. E poi gli intellettuali, gli artisti come fiori all'occhiello che non importa cosa cantino e suonino purch� "servano il popolo", la Cultura per le masse (restano, come eredit� buona, i prezzi ridotti per lavoratori e studenti di molti concerti e spettacoli teatrali; e come rimorso, gli incubi di alcuni pensionati ex operai che certe notti si svegliano di soprassalto, ricordando La fabbrica illuminata di Luigi Nono per voce e nastro magnetico), il delirio dell'autoriduzione (i Led Zeppelin, in concerto a Milano nel 1970, non sanno ancora se hanno salvato la pelle dai lacrimogeni e dalle cariche perch� erano devoti alle divinit� celtiche o perch� sacrificavano a tutti i diavoli di Aleister Crowley), i processi del "proletariato giovanile" ai cantautori. Ma queste sono cose del '70 o gi� di l�. Del '68 e dintorni, ma era del 1971, riaffiora alla memoria una canzone di Lotta Continua, L'ora del fucile ("Ma cosa vuoi di pi�, compagno, per capire/ che � arrivata l'ora del fucile"). Niente di originale a parte i versi trucidi, solo l'adattamento estremista e absolutely free di Eve of destruction, 1966, una delle tante pseudo-apocalissi postatomiche germinate dal seme di Bob Dylan (la cantava in italiano anche Gino Santercole, senza fucili per� perch� lo zio Adriano Celentano lo avrebbe fatto interdire). L'interprete originale era il californiano Barry McGuire, lo stesso di You were on my mind, sarebbe a dire Io ho in mente te dell'Equipe 84: quando si dice i cattivi maestri. E ci restano due canzoni di Paolo Pietrangeli: Valle Giulia sugli scontri davanti alla facolt� di Architettura di Roma, con il refrain "non siam scappati pi�!" (ma Giuliano Ferrara, in una celebre foto d'epoca, scappava inseguito dalla polizia); e soprattutto l'inno Contessa ("Compagni dai campi e dalle officine/ prendete la falce e portate il martello"), con quel suo andamento salottiero-operistico spezzato dal ritornello. Poi, per avventura della sorte, Ferrara � finito a dire "Porto un bambino nel mio grembo" e si � arruolato fra gli atei devoti. E Pietrangeli � finito regista soprattutto televisivo, soprattutto Mediaset, soprattutto per Costanzo e De Filippi: la fantasia al potere. PS. Una canzone davvero sovversiva, e infatti censuratissima e vendutissima in mezzo mondo qualche mese dopo, da noi la fece sequestrare la magistratura, il '68 la partor�: era Je t'aime... moi non plus, con gemiti e sussurri di Serge Gainsbourg e Jane Birkin (la canzone, incisa in novembre, era gi� stata registrata con Brigitte Bardot nel '67 senza essere diffusa). Lo spunto per il titolo era un po' snob, un monologo - in forma di conversazione con se stesso - di Salvador Dal�: "Picasso � spagnolo... moi aussi, io pure", "Picasso � un genio... io pure", "Picasso � comunista... moi non plus, io per niente". Per la causa, fece pi� di Eros e rivoluzione di Marcuse. Pi� di Let's spend the night together dei Rolling Stones (che era del 1967). Pi� di Why don't we do it on the road, perch� non lo facciamo per strada, dei Beatles (anzi, del solo McCartney), che era del '68 ma pass� inosservata. Ma Gainsbourg, diavolo di un uomo, non fece il '68. Se glielo avessero chiesto, avrebbe risposto che preferiva il 69.