Giugno 2019 n. 6 Anno IV Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri per un importo pari ad euro 23.084,48 e del MiBACT per un importo pari ad euro 4.522.099. Indice Dieci anni di crisi. O quaranta? Seconda parte Perch� crediamo alle teorie del complotto Notre-Dame: la signora in rogo Dieci anni di crisi. O quaranta? Seconda parte (di Francesco Saraceno, "il Mulino" n. 501/19) La crisi e l'aumento (ulteriore) delle disuguaglianze Se la confutazione della teoria dello sgocciolamento � ormai acquisita, e se l'evidenza empirica mostra in modo sempre pi� convincente che la disuguaglianza ha un impatto negativo sulla crescita, rimane ancora da chiarire come uno stesso fenomeno, un aumento della diseguaglianza e la conseguente compressione della domanda aggregata, abbia portato in alcune zone a eccessi di risparmio e, in altre, a eccessi di domanda. La risposta va ricercata nell'interazione tra la distribuzione del reddito, che ha mostrato una tendenza comune, e le istituzioni di politica economica, che hanno invece preso forme estremamente diverse. Negli Stati Uniti la diminuzione del reddito delle classi medie � stata compensata dal ricorso all'indebitamento privato, favorito come si spiegava sopra da un sistema finanziario sempre meno regolato, oltre che da una diffusa percezione da "fine della storia", per cui si credeva che tutti i vincoli alla crescita illimitata di alcuni settori (finanziario, immobiliare) fossero stati rimossi definitivamente. Conseguentemente la domanda aggregata (consumi e investimenti) � rimasta elevata, pur essendo alimentata da debito e non da reddito. Questo non � avvenuto in Europa, dove regole pi� restrittive per i mercati finanziari e politiche monetarie meno accomodanti hanno reso pi� costoso e difficile il ricorso all'indebitamento privato. Anche la politica fiscale � stata generalmente pi� restrittiva nei Paesi europei, vincolati dal trattato di Maastricht e dal Patto di Stabilit�, mentre negli Stati Uniti, dove il sistema di Welfare � meno sviluppato, le politiche fiscali hanno dovuto essere pi� attive per ammortizzare le fluttuazioni del reddito. Per riassumere, negli Stati Uniti la pressione sulla domanda aggregata, indotta da una diseguaglianza crescente nella distribuzione del reddito, � stata nascosta da un ricorso crescente all'indebitamento privato e pubblico (che ha consentito una crescita drogata e alla lunga insostenibile), mentre in Europa i maggiori costi dell'indebitamento e una maggiore inerzia della politica macroeconomica hanno impedito il mantenimento di un livello adeguato di domanda aggregata, e il risultato � stato un lungo periodo di crescita inferiore al potenziale. La crescita degli Stati Uniti � stata finanziata dal risparmio europeo, e a sua volta ha trainato il vecchio continente con le sue importazioni, sostenendone almeno in parte la crescita. Gli eccessi di risparmio di altre aree (l'Est asiatico, i Paesi produttori di petrolio) hanno anch'essi contribuito a perpetuare questo fragile equilibrio, che la crisi ha mandato in pezzi. L'indebitamento di imprese e consumatori e la fragilit� del settore finanziario hanno innescato, in seguito alle difficolt� di un segmento relativamente marginale del settore creditizio (il mercato dei prestiti subprime), una corsa alla ricapitalizzazione delle istituzioni finanziarie (il deleveraging) e quindi una caduta generalizzata del prezzo delle attivit� finanziarie. Il collasso del settore finanziario si � poi trasmesso all'economia reale tramite la restrizione del credito da parte di banche in difficolt�, e la caduta della domanda di consumatori e imprese la cui ricchezza si era volatilizzata. In questa prima fase la crisi colpisce soprattutto i redditi da capitale e le grandi fortune, intaccate dal crollo delle quotazioni di intere classi di attivit� finanziarie. Si assiste quindi (soprattutto in Europa) a un temporaneo calo della disuguaglianza, che tuttavia � di breve durata. Non appena la crisi inizia a mordere il settore reale, con la disoccupazione che esplode, il pendolo si muove bruscamente dall'altro lato. La ripresa degli indici di borsa � molto pi� rapida del riassorbimento della disoccupazione: a partire dal 2010-2011 la disuguaglianza aumenta significativamente in quasi tutti i Paesi Ocse. In Europa la crisi morde in modo particolare i redditi delle classi medie, perch� viene accompagnata da politiche economiche recessive. In ossequio al Nuovo Consenso, a partire dal 2011 tutti i Paesi europei si convertono volenti o nolenti al binomio austerit� pi� riforme strutturali, che dovrebbe traghettare l'economia dell'eurozona fuori dalla crisi e renderla pi� competitiva. Non � questa la sede per discutere dei meriti (e soprattutto dei demeriti) di tale strategia per rilanciare la crescita a breve come a lungo termine. Vale la pena piuttosto concentrarsi sugli effetti distributivi delle misure adottate dai governi e delle raccomandazioni delle istituzioni europee; queste sono state principalmente di tre tipi: riforma della previdenza sociale, privatizzazioni, congelamento dei salari e riduzione del numero di dipendenti nel settore pubblico. La maggior parte dei Paesi ha dovuto mettere in cantiere tagli alle spese sociali e riforme strutturali: aumento dell'et� pensionabile, maggiore flessibilit� del mercato del lavoro, riduzione delle indennit� di disoccupazione. La spesa sociale � stata in prima linea nei piani di austerit�, con tagli di bilancio e maggiore concorrenza (volta a ridurre i costi) nei servizi, compresi i servizi sanitari e sociali. I risultati in termini di disuguaglianza e di impoverimento della classe media non hanno tardato a farsi vedere. L'indice di Gini, la misura pi� generale di disuguaglianza, � aumentato per tutti i Paesi della periferia dell'eurozona (compresa l'Italia) con l'eccezione del Portogallo, mentre � diminuito in Germania e in Francia (sia pure non moltissimo). Ancora pi� significativamente, � aumentato anche il rischio di povert� da circa il 16% (2008) a quasi il 21% nel 2014 (per poi diminuire gradualmente). Colpisce in particolare il dato per la Grecia, che dopo tre programmi di aggiustamento draconiani ha visto la percentuale di popolazione a rischio di povert� aumentare di 30 punti percentuali tra il 2008 e il 2015. La ripresa iniziata a partire dal 2015 ha visto l'occupazione aumentare, ma in maniera diseguale tra Paesi e gruppi sociali; e soprattutto, non ha portato a miglioramenti significativi in termini di uguaglianza dei redditi e riduzione della povert�. Nonostante i progressi, il numero di persone sotto la soglia di povert� � ancora (dati del 2017) superiore a quello del 2008. Anni di disoccupazione a due cifre hanno ridotto il potere contrattuale dei lavoratori, e aumentato la precariet�. Non sembra insomma che la timida ripresa dell'economia possa da sola servire a ridurre spontaneamente le disuguaglianze e la povert�; tanto pi� che nel 2019 la situazione macroeconomica volge di nuovo al peggio. Per invertire una tendenza ormai secolare � necessaria una strategia globale, che parta dai sistemi fiscali e si estenda fino a un ripensamento del sistema di Welfare. Riforme strutturali, s�, ma quali? Quanto sin qui sostenuto dovrebbe aver convinto il lettore dell'urgenza di affrontare il problema della disuguaglianza, che porta con s� inefficienza economica e instabilit� sociale. L'indifferenza del Nuovo Consenso rispetto al tema della distribuzione era (ed �: basti vedere le politiche messe in atto da Emmanuel Macron in Francia prima della rivolta dei gilet gialli) centrata sulla convinzione che sia l'efficienza economica di mercati liberalizzati e globali a portare, tramite lo sgocciolamento, all'aumento del benessere collettivo. Questa convinzione si � mostrata inadeguata prima della crisi, e addirittura devastante a partire dal 2008, con programmi di aggiustamento che hanno impoverito le classi medie e deteriorato la coesione sociale. In questo senso, � corretta l'affermazione per cui la teoria dominante � alla radice dell'esplosione di populismi e particolarismi nazionali. Una risposta possibile, cara ai sovranisti di ogni orientamento politico, sarebbe quella di ridurre l'integrazione, di "fermare la globalizzazione", in modo da recuperare la capacit� dello Stato-nazione di mettere in atto le proprie politiche fiscali. Tuttavia, oltre all'oggettiva difficolt� di tagliare il cordone che lega ogni sistema economico all'economia mondiale, il rifiuto dell'integrazione economica equivale di fatto a buttare il bambino con l'acqua sporca. Isolarsi dalle filiere produttive e finanziarie globali non potrebbe che ridurre il benessere collettivo del Paese che facesse questa scelta. Per quanto sia difficile, non si pu� prescindere dalla ricerca di una soluzione globale, che affronti il problema dell'instabilit� economica e sociale alla radice. Per ritornare a una crescita pi� bilanciata, a livello nazionale e quindi su scala globale, bisogna invertire la tendenza degli ultimi quattro decenni, e iniziare a ridurre le diseguaglianze tramite delle riforme strutturali necessariamente pi� complesse (e spesso in direzione opposta) di quelle proposte dagli alfieri del Nuovo Consenso e della liberalizzazione dei mercati. Questo pu� essere fatto agendo su pi� fronti. In primo luogo, bisognerebbe tornare a sistemi di tassazione pi� progressivi. Il dibattito � vivace, anche e soprattutto oltreoceano. Il Fondo monetario internazionale, nel suo Fiscal Monitor dell'autunno 2017, ha raccomandato ai Paesi avanzati di aumentare la progressivit� dei loro sistemi fiscali, proprio sulla base del fatto che l'aumento della disuguaglianza, e l'instabilit� economica e sociale che ne derivano, sono stati accentuati dalla competizione fiscale tra Stati e dalla corsa a ridurre la pressione fiscale sui pi� ricchi. Sar� interessante a questo riguardo seguire il dibattito innescato negli Stati Uniti dalla parte pi� progressista del Partito democratico, con la stella nascente Alexandria Ocasio-Cortez che ha proposto un tasso marginale di imposizione del 70%; e la senatrice Elizabeth Warren che si � invece concentrata sull'introduzione di una patrimoniale del 2% per le fortune superiori ai 50 milioni di dollari (e un'addizionale dell'1% sopra alla soglia del miliardo). Emmanuel Saez e Gabriel Zucman hanno stimato che, pur colpendo solo 75.000 famiglie, la tassa sarebbe in grado di generare circa 3.000 miliardi di dollari di entrate fiscali in dieci anni (l'1% del Pil ogni anno), portando il tasso medio di imposizione per lo 0,1% pi� ricco della popolazione al 48% (oggi � al 36%). Una pressione fiscale certamente significativa, ma comparabile a quella degli anni Cinquanta del secolo scorso, quando l'economia cresceva a ritmi sostenuti, la crescita era inclusiva, ed era considerato normale che le grandi fortune contribuissero al benessere collettivo. � desolante che di questo dibattito, tecnico oltre che politico, in Europa non arrivi nemmeno l'eco. In secondo luogo, a livello europeo, occorrerebbe un reale coordinamento delle politiche di tassazione, volto a evitare la concorrenza fiscale e il dumping sociale, che sovente prendono la forma di forti riduzioni d'imposta sui redditi elevati e da capitale. In un mondo in cui gli ostacoli ai movimenti di capitali sono sempre pi� ridotti, la cosiddetta "ottimizzazione fiscale", vale a dire il trasferimento dei profitti delle imprese multinazionali nei Paesi in cui il fisco � meno esigente, � diventato un fenomeno di dimensioni ragguardevoli, che cambia drasticamente il nostro modo di guardare alla politica economica. Un recente studio ha stimato in oltre 600 miliardi di dollari l'ammontare dei profitti che sono stati spostati verso i paradisi fiscali nel 2015, quasi il 40% dei profitti delle multinazionali, le quali a questo gioco ovviamente eccellono, in quanto per la loro stessa natura trasferiscono risorse (costi e ricavi) attraverso i confini nazionali, e possono quindi facilmente praticare l'ottimizzazione fiscale. E tra queste societ� multinazionali emergono in particolare quelle specializzate nella fornitura di servizi legati alle tecnologie dell'informazione, che per definizione hanno pochi attivi materiali. L'Ocse, che lavora attivamente sull'armonizzazione dei sistemi fiscali e sulla tassazione (principalmente per quanto riguarda l'attribuzione dei profitti alle diverse giurisdizioni fiscali, la regolamentazione dei trasferimenti tra filiali e l'implementazione di un tasso minimo di imposta sui redditi d'impresa, volto a limitare la concorrenza fiscale), ha recentemente annunciato che un accordo tra pi� di cento Paesi potrebbe essere raggiunto entro il 2020. Nel vecchio continente giace da qualche anno in un cassetto un'interessante proposta della Commissione europea di creare una base imponibile comune e consolidata (Ccctb: Common Consolidated Corporate Tax Base): i profitti delle filiali delle imprese multinazionali sarebbero consolidati, e attribuiti nella loro interezza al solo Paese di residenza legale. Questo reddito imponibile sarebbe poi ridistribuito tra i Paesi che ospitano le filiali, secondo una formula dipendente dalla distribuzione geografica del capitale, dei salariati e delle vendite. Questo potrebbe accompagnarsi a un tasso unico, ed eventualmente a una gestione centralizzata degli introiti nell'ambito di un bilancio comunitario rafforzato. Ma la proposta della Commissione potrebbe essere attuata anche lasciando ai singoli Paesi la scelta del tasso di imposizione sulla base imponibile loro attribuita. Mentre i tentativi di arrivare a un coordinamento delle politiche fiscali procedono a lentissimi passi, i Paesi avanzati si muovono in ordine sparso, e alcuni di essi hanno messo in cantiere progetti di tassazione delle transazioni dei giganti del web (l'ultimo in ordine di tempo � la Francia). Come per altre sue proposte, soprattutto quelle che delineano un'evoluzione in senso federale, la Commissione incontra molte difficolt� anche solo a far discutere il Ccctb; non sorprendentemente, i Paesi (soprattutto pi� piccoli) che oggi traggono benefici dalla concorrenza fiscale si oppongono drasticamente alla misura. Insieme, la rinnovata progressivit� dei sistemi fiscali, i freni al dumping fiscale e il coordinamento internazionale volto a limitare l'elusione delle grandi multinazionali potrebbero allentare la pressione al ridimensionamento dei sistemi di Welfare, che come abbiamo visto ha contribuito all'aumento della disuguaglianza e dell'instabilit�. Occorrerebbe infatti tornare a sviluppare il ruolo assicurativo dello Stato sociale, con particolare attenzione agli ammortizzatori sociali, all'offerta di beni pubblici, in particolare quelli immateriali, come l'istruzione e la sanit�, e alle politiche di contrasto alla povert�, che rimane una delle eredit� pi� gravose della crisi. Occorrer� seguire da vicino le discussioni in sede europea sull'armonizzazione dei salari minimi e sull'introduzione di un sussidio di disoccupazione europeo da affiancare ai sistemi nazionali. Tutte proposte che sono sul tavolo da anni, ma che con le elezioni europee alle porte potrebbero (o dovrebbero) riemergere come tasselli di un mosaico volto a rispondere alla sfida del populismo crescente. Ma non si tratter� solo di ridurre le disuguaglianze tramite la redistribuzione. Il contrasto alla crescita della disuguaglianza detta "di mercato" dovr� necessariamente passare attraverso un ripensamento delle istituzioni che regolano i mercati, in particolare, ma non solo, il mercato del lavoro. La tendenza alla demolizione dei corpi intermedi, anche da parte di governi "dell'establishment", ha avuto un doppio effetto. Da un lato, i populisti soft in comunione con la massa adorante, se sono riusciti nell'immediato a sbarrare la strada ai movimenti pi� estremisti, si sono trovati rapidamente a dover rendere conto di promesse affrettate e a non poter pianificare politiche a lungo termine, cadendo nella polvere a volte in pochi mesi. Dall'altro lato, molto pi� importante, il ridimensionamento dei corpi intermedi ha portato a un indebolimento degli strati pi� deboli della popolazione, aumentando di fatto povert� ed esclusione sociale. Un recente studio del Fondo monetario internazionale mostra come l'indebolimento del ruolo dei sindacati sia stato una delle concause dell'aumento della disuguaglianza che, come abbiamo visto sopra, a sua volta ha portato a una crescita pi� instabile e meno sostenuta. In un contesto globale in cui quindi la cooperazione � tanto necessaria quanto difficile, la priorit� per la politica economica nei prossimi anni sar� quella di reinventare un sistema di redistribuzione che riduca la tendenza all'accrescimento della disuguaglianza, e quindi all'erosione (che purtroppo � gi� ad uno stadio avanzato) di quel contratto sociale che nel dopoguerra era stato uno dei pilastri di crescita e benessere diffuso. Occorrerebbe insomma ritrovare quello Stato regolatore che negli anni d'oro della socialdemocrazia (e della destra sociale) garantiva stabilit� sociale e macroeconomica, ponendo quindi le basi per l'investimento, l'innovazione e la crescita. Quel ruolo � pi� difficile da definire, in un mondo globalizzato in cui i singoli Stati hanno margini di manovra ristretti, e in cui quindi la cooperazione internazionale per quanto difficile � ormai l'unica via percorribile. In un'Unione europea in cui gli interessi nazionali sono sempre pi� spesso anteposti, in modo miope, a quelli comuni, qualunque soluzione che contempli pi� potere al livello "federale" ha vita difficile. Ma tutto, dalla teoria economica alle grandi tendenze dell'economia, sembra puntare a una scelta non pi� rinviabile. Se si vuole provare a salvare il contratto sociale delle democrazie liberali, e la capacit� di finanziarlo, si deve invertire la tendenza all'aumento della disuguaglianza che mette sempre pi� in pericolo le nostre societ�. I Paesi avanzati, in particolare l'Europa, devono dotarsi di istituzioni che consentano infine di chiamare i grandi patrimoni, il capitale, le imprese multinazionali a contribuire a una crescita stabile, inclusiva e duratura. In ultima istanza al progresso sociale ed economico delle nostre societ�. Perch� crediamo alle teorie del complotto (di Melinda Wenner Moyer, "Le Scienze" n. 610/19) - Teorie senza fondamento minacciano sicurezza e democrazia. Ora alcuni studi indicano che questo genere di pensiero � favorito da emozioni specifiche. - Stephan Stephan non voleva proprio crederci. Circa sei anni fa questo scienziato cognitivo, che all'epoca lavorava alla University of Western Australia, si era gettato a capofitto nello studio dei motivi per cui alcune persone rifiutano di accettare le prove schiaccianti del fatto che il pianeta si sta riscaldando e che la responsabilit� � degli esseri umani. Via via che si immergeva in questo negazionismo climatico, inizi� a scoprire che molti di quelli che ne erano convinti credevano anche ad altre storie assurde, per esempio che l'allunaggio dell'Apollo fosse una bufala montata ad arte dal governo statunitense. "Molti dei discorsi fatti da queste persone su Internet erano complottisti da cima a fondo", ricorda. Le scoperte di Lewandowsky, pubblicate nel 2013 su "Psychological Science", fecero uscire allo scoperto i complottisti. Offesi dalle sue affermazioni, iniziarono a criticare la sua integrit� on line e ne chiesero a gran voce il licenziamento, che non avvenne, anche se nel frattempo il ricercatore si � trasferito all'Universit� di Bristol, nel Regno Unito. Ma leggendo uno dopo l'altro i loro post arrabbiati Lewandowsky scopr� che, per tutta risposta a quello che lui affermava sulle loro tendenze complottiste, i suoi critici stavano diffondendo nuove teorie del complotto su di lui. Quelle persone accusavano lui e i suoi colleghi di falsificare le risposte ai sondaggi e di portare avanti la ricerca senza l'approvazione di comitati etici. Quando il suo sito web personale and� in crash, un blogger lo accus� di impedirne intenzionalmente l'accesso a chi lo criticava. Nulla di tutto questo era vero. All'inizio l'ironia della cosa era divertente, ma tra le invettive ci fu persino una minaccia di morte, e le telefonate e le e-mail inviate all'universit� divennero cos� aggressive che il personale amministrativo che doveva rispondere chiese aiuto ai propri manager. Fu a quel punto che Lewandowsky cambi� idea sulla situazione. "Mi resi conto in fretta che quei tipi non avevano niente di divertente", racconta. Le conseguenze pericolose della prospettiva complottista (l'idea che certe persone o gruppi di persone cospirino in modi segreti per ottenere un certo risultato) sono diventate dolorosamente chiare. L'uomo che ha sparato in una sinagoga di Pittsburgh, negli Stati Uniti, nell'ottobre 2018, uccidendo 11 persone e ferendone altre sei, ha giustificato l'attacco sostenendo che gli ebrei stessero favorendo di nascosto l'immigrazione illegale. Nel 2016 una teoria del complotto per cui alcuni membri di spicco del Partito Democratico statunitense sarebbero stati coinvolti in un giro di pedofilia che vedeva la partecipazione di diversi ristoranti nella zona di Washington spinse un uomo che ci credeva a sparare con un fucile d'assalto in una pizzeria; per fortuna non ci furono feriti. Questo tipo di mentalit� � molto pi� comune di quanto si immagini, anche se per fortuna non porta spesso a sparatorie. Pi� di un quarto della popolazione statunitense crede che ci siano complotti "dietro molte cose nel mondo", secondo un'analisi effettuata nel 2017 da ricercatori dell'Universit� di Oxford e dell'Universit� di Liverpool sui dati di un sondaggio governativo. Forse la diffusione delle teorie del complotto non � nuova, ma oggi queste teorie stanno diventando pi� visibili, sostiene Viren Swami, uno psicologo sociale all'Anglia Ruskin University, nel Regno Unito, che studia il fenomeno. Per esempio, quando nell'ottobre 2018 oltre una decina di pacchi-bomba sono stati inviati a personaggi di rilievo del Partito Democratico statunitense, a persone che criticavano Trump e alla CNN, diverse personalit� conservatrici si sono affrettate a suggerire che in realt� quegli esplosivi fossero una false flag, un attacco falso orchestrato dai Democratici per mobilitare i propri sostenitori durante le elezioni di met� mandato (midterm elections) negli Stati Uniti. Una causa evidente della maggiore visibilit� attuale di questo genere di pensiero � il fatto che il presidente degli Stati Uniti sia un complottista dichiarato. Donald Trump ha suggerito, tra le altre cose, che il padre del senatore Ted Cruz, del Texas, abbia collaborato all'assassinio del presidente John F. Kennedy e che i Democratici abbiano sovvenzionato la carovana di migranti che andava dall'Honduras verso gli Stati Uniti, la stessa carovana che aveva preoccupato l'uomo che ha sparato nella sinagoga di Pittsburgh. Ma sono in gioco anche altri fattori. Nuove ricerche indicano che gli eventi che si stanno verificando in tutto il mondo favoriscono la crescita di emozioni di fondo che rendono le persone pi� disposte a credere all'esistenza di cospirazioni. Alcuni esperimenti hanno rivelato che le sensazioni di ansia spingono le persone a pensare in un modo che si avvicina di pi� al complottismo. Stando ai sondaggi, molti statunitensi sono in preda a questo genere di sensazioni, come pure all'idea di non aver pi� voce in capitolo. In situazioni del genere una teoria del complotto pu� offrire conforto, perch� offre un comodo capro espiatorio e fa sembrare il mondo pi� semplice e controllabile. "Queste persone riescono a credere che se non ci fossero i cattivi, allora andrebbe tutto bene", spiega Lewandowsky. "Invece chi non crede nelle teorie del complotto deve ammettere semplicemente che le cose brutte avvengono per via del caso". Per� distinguere la realt� dalla fantasia pu� essere difficile, e a volte quelle che sembrano assurde teorie del complotto si rivelano vere. L'idea che i russi avessero messo lo zampino nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016, un tempo considerata ridicola, oggi � sostenuta da una serie di ammissioni di colpevolezza, comprovati atti d'accusa e rapporti dei servizi segreti degli Stati Uniti. Allora come si fa a sapere a che cosa credere? Gli psicologi stanno lavorando anche in questo senso e hanno trovato alcune strategie che possono aiutare le persone a distinguere le teorie plausibili da quelle che sono quasi sicuramente false, strategie che sembrano diventare ogni giorno pi� importanti. Il collegamento con l'ansia Nel maggio 2018 l'American Psychiatric Association ha presentato i risultati di un sondaggio condotto a livello nazionale secondo i quali il 39 per cento degli statunitensi � pi� ansioso rispetto a un anno fa, soprattutto per quanto riguarda salute, sicurezza, situazione economica, politica e relazioni. Un altro rapporto nel 2017 indicava che il 63 per cento degli statunitensi � molto preoccupato per il futuro del paese e che il 59 per cento considera quello attuale come il punto pi� basso di cui abbia memoria nella storia degli Stati Uniti. Queste sensazioni sono diffuse su tutto lo spettro delle posizioni politiche. Nel 2018 un sondaggio dello statunitense Pew Research Center ha scoperto che la maggioranza sia dei Democratici sia dei Repubblicani aveva l'impressione che negli ultimi anni il proprio partito avesse perso terreno su questioni che considera importanti. Queste crisi esistenziali possono favorire il pensiero complottista. In uno studio condotto nel 2015 nei Paesi Bassi, i ricercatori hanno diviso alcuni studenti universitari in tre gruppi. Quelli del primo gruppo sono stati predisposti a sentirsi impotenti: i ricercatori hanno chiesto loro di ricordare e raccontare per iscritto un momento della vita quando sentivano di non avere il controllo della situazione in cui si trovavano. Quelli del secondo gruppo sono stati orientati nella direzione opposta: � stato chiesto loro di raccontare per iscritto di una volta in cui avevano la sensazione di avere il controllo totale di una situazione. E agli altri, a quelli del terzo gruppo, � stata posta una domanda neutra: descrivere che cosa avevano mangiato a cena la sera prima. Poi i ricercatori hanno chiesto a tutti i gruppi un'opinione sulla nuova linea della metropolitana di Amsterdam, la cui costruzione era stata rallentata da una lunga serie di problemi. Rispetto agli studenti degli altri due gruppi, quelli che erano stati predisposti a sentire di avere il controllo della situazione erano meno portati a sostenere le teorie del complotto a proposito della linea della metropolitana, per esempio l'idea che il consiglio municipale rubasse i soldi destinati alla costruzione o che stesse intenzionalmente mettendo a rischio la sicurezza dei residenti. Altri studi hanno scoperto effetti simili. Per esempio, nel 2016 Swami e colleghi hanno riferito che chi si sente stressato ha maggiori probabilit� di credere alle teorie del complotto e nel 2017 un altro studio ha scoperto che favorire l'ansia nelle persone le rende pi� prone al pensiero complottista. Sembra che anche sentirsi estraniati o indesiderati renda pi� appetibile il pensiero complottista. Nel 2017 alcuni psicologi della Princeton University hanno organizzato un esperimento su gruppi di tre persone. I ricercatori hanno chiesto a tutti i partecipanti di scrivere due paragrafi in cui descrivevano se stessi e poi hanno detto loro che le descrizioni sarebbero state condivise con gli altri due membri del gruppo di appartenenza, che avrebbero usato le informazioni per decidere se volevano collaborare con quella persona in seguito. Dopo aver detto ad alcuni partecipanti che erano stati accettati dal gruppo e ad altri che erano stati rifiutati, i ricercatori hanno valutato le opinioni dei volontari a proposito di vari scenari collegati a teorie del complotto. I partecipanti "rifiutati", sentendosi estraniati, avevano maggiori probabilit� di pensare che quegli scenari implicavano una cospirazione coordinata. Non sono solo le crisi personali a incoraggiare le persone a sospettare cospirazioni, lo fanno anche le battute d'arresto collettive della societ�. In uno studio del 2018 alcuni ricercatori dell'Universit� del Minnesota e della Lehigh University, in Pennsylvania, hanno proposto un sondaggio a oltre 3000 cittadini degli Stati Uniti e hanno scoperto che quelli convinti che i valori statunitensi stiano scomparendo hanno maggiori probabilit� di concordare con affermazioni complottiste, per esempio quella che "molti grandi eventi hanno dietro di loro le azioni di un gruppetto di persone influenti". Joseph Uscinski, esperto di scienze politiche all'Universit� di Miami, e colleghi hanno dimostrato che chi non apprezza il partito che si trova al potere ha una mentalit� pi� complottista rispetto a chi lo sostiene. Di recente negli Stati Uniti, con l'ascesa al governo dei conservatori, i liberali hanno avanzato numerose ipotesi non dimostrate, accusando tra l'altro la Casa Bianca di aver obbligato Anthony Kennedy a ritirarsi dalla sua posizione di giudice della Corte Suprema e insinuando che il presidente russo Vladimir Putin stia ricattando Trump con un video in cui lo si vedrebbe mentre guarda alcune prostitute che urinano su un letto in un hotel di Mosca. Quando le sensazioni di estraniamento personale o di ansia si abbinano all'idea che la societ� sia a rischio, per le persone � una sorta di attacco complottista su due fronti. In uno studio del 2009, agli inizi della recessione negli Stati Uniti, Daniel Sullivan, psicologo che oggi lavora all'Universit� dell'Arizona, e colleghi hanno detto ad alcuni partecipanti che avevano pochissimo controllo sulla propria vita perch� potevano essere esposti a un disastro naturale o a una catastrofe di altro tipo, mentre ad altri hanno detto che avevano tutto sotto controllo. Ai partecipanti poi � stato chiesto di leggere saggi che sostenevano che il governo stesse gestendo la crisi economica bene oppure male. I soggetti predisposti nel senso del mancato controllo sulla propria vita e a cui si diceva che il governo stava facendo un pessimo lavoro erano quelli che con pi� probabilit� pensavano che gli eventi negativi delle loro vite fossero causati da nemici piuttosto che dal caso, un atteggiamento che � uno dei tratti distintivi del pensiero complottista. Se gli esseri umani cercano conforto nelle teorie del complotto, � per� raro che lo trovino. "Le teorie sono allettanti, ma non per forza soddisfacenti", afferma Daniel Jolley, psicologo all'Universit� dello Staffordshire, nel Regno Unito. Per cominciare, il pensiero complottista pu� spingere gli individui a comportarsi in modi che aumentano il loro senso di impotenza e che quindi li fanno sentire ancora peggio. Uno studio del 2014, di cui Jolley � stato coautore, ha scoperto che le persone a cui vengono presentate teorie del complotto a proposito del cambiamento climatico (per esempio che gli scienziati siano solo a caccia di fondi pubblici) hanno meno probabilit� di voler votare, mentre uno studio del 2017 ha mostrato che credere in teorie del complotto in ambito lavorativo (per esempio l'idea che i dirigenti prendano decisioni per favorire i propri interessi personali) spinge le persone a impegnarsi di meno sul lavoro. "La situazione pu� precipitare, e trasformarsi in un circolo vizioso davvero brutto di inazione e comportamenti negativi", spiega Karen Douglas, psicologa dell'Universit� del Kent, nel Regno Unito, e coautrice dell'articolo sulle teorie del complotto in ambito lavorativo. Le convinzioni negative e alienanti possono anche favorire comportamenti pericolosi in certi individui, come � avvenuto nei casi della sparatoria a Pittsburgh e dell'attacco alla pizzeria. Per� le teorie non hanno bisogno delle armi per fare danni. Chi crede nelle teorie del complotto a proposito dei vaccini, per esempio, afferma di essere meno favorevole a vaccinare i propri figli, il che crea sacche di popolazione in cui le malattie infettive persistono e che mettono a rischio intere comunit�. Distinguere la realt� dalla fantasia Forse � possibile soffocare la nascita di teorie del complotto, almeno fino a un certo punto. Una domanda che ci si pone da tempo � se sia o meno una buona idea usare la logica e le prove per rispondere a chi le sostiene. Alcuni studi pi� vecchi parlano di un "effetto boomerang", sostenendo che confutare la disinformazione possa semplicemente portare le singole persone a impuntarsi ancora di pi�. "Se credi che ci siano grandi forze che cospirano per nascondere le cose e qualcuno ti propone quella che a te sembra una storia di copertura, serve solo a confermarti che hai ragione", spiega Uscinski. Tuttavia alcuni studi pi� recenti suggeriscono che questo presunto effetto in realt� sia raro. Uno studio del 2016 riferisce che quando i ricercatori confutavano una teoria del complotto sottolineandone le contraddizioni logiche essa perdeva il suo fascino. E in un articolo pubblicato on line nel 2018 su "Political Behavior" i ricercatori hanno reclutato pi� di 10.000 persone e hanno presentato loro varie correzioni a diverse affermazioni fatte da esponenti politici, concludendo che "le prove di un vero effetto boomerang sono molto pi� deboli di quanto suggerito dagli studi precedenti". In un recente articolo di rassegna della letteratura, i ricercatori che per primi avevano descritto l'effetto boomerang hanno affermato che potrebbe presentarsi pi� spesso quando le persone vedono messe in questione le idee che definiscono la loro visione del mondo o di se stessi. Quindi una strategia efficace sarebbe trovare modi di contrastare le teorie del complotto senza mettere in discussione l'identit� della persona. Anche incoraggiare il pensiero analitico pu� aiutare. In uno studio del 2014 pubblicato su "Cognition", Swami e colleghi hanno condotto un esperimento su 112 persone. Per prima cosa hanno chiesto a tutti i volontari coinvolti di compilare un questionario che valutava quanto credessero in diverse teorie del complotto. Qualche settimana dopo, i volontari sono tornati in laboratorio e i ricercatori li hanno divisi in due gruppi. Il primo doveva portare a termine un esercizio in cui doveva anagrammare alcune parole in frasi che includevano termini come "analizzare" e "razionale", il che li spingeva a pensare in modo pi� analitico; il secondo gruppo invece doveva eseguire un compito neutro. In seguito i ricercatori hanno distribuito di nuovo il questionario sulle teorie del complotto ai due gruppi. Anche se all'inizio dell'esperimento i due gruppi non erano diversi in termini di pensiero complottista, i partecipanti che erano stati spinti a pensare in modo analitico erano diventati meno complottisti. Quindi se diamo alle persone "gli strumenti e le capacit� per analizzare i dati e guardarli in modo critico e obiettivo" potremmo riuscire a soffocare il pensiero complottista, afferma Swami. Il pensiero analitico aiuta anche a distinguere le teorie implausibili da quelle che, per quanto sembrino assurde, sono sostenute da prove. Karen Murphy, psicologa dell'educazione alla Pennsylvania State University, suggerisce che chi voglia migliorare le proprie capacit� di pensiero analitico dovrebbe porsi tre domande quando vuole interpretare un'affermazione complottista. Che prove hai? Qual � la fonte delle prove? Qual � il ragionamento che collega le prove all'affermazione? La fonte delle prove deve essere accurata, credibile e rilevante. Per esempio "non dovresti ascoltare tua madre per capire se quel colore giallo che hai sotto le unghie sia un brutto segno", spiega Murphy: quel genere di informazioni dovrebbe venire da un esperto dell'argomento, come un medico. Inoltre le false teorie del complotto hanno segni caratteristici tipici, afferma Lewandowsky. Tre di questi sono particolarmente evidenti. Primo, le teorie includono contraddizioni. Per esempio, alcuni negazionisti del cambiamento climatico sostengono che non ci sia un consenso scientifico sull'argomento e allo stesso tempo si presentano come eroi che combattono contro il consenso. Non possono essere vere entrambe le cose. Un secondo segnale evidente � quando un'affermazione si basa su premesse traballanti. Per esempio, Trump ha sostenuto che milioni di immigrati illegali abbiano votato nelle elezioni presidenziali del 2016 e che sia stato quello il motivo per cui ha perso il voto popolare. A parte l'assoluta mancanza di prove, la sua premessa � che gran parte di quei voti, se fossero esistiti, sarebbero andati al suo avversario, il Partito Democratico. Eppure i sondaggi condotti in passato tra gli immigrati ispanici irregolari suggeriscono che molti di loro avrebbero preferito un candidato repubblicano a uno democratico. Un terzo segnale del fatto che un'affermazione sia una teoria improbabile, anzich� un vero complotto � che coloro che la sostengono interpretano le prove contro la teoria colle prove a suo favore. Per esempio, quando il furgoncino di Cesar Sayoc, presunto responsabile dei pacchi-bomba del 2018, � stato trovato in Florida coperto di adesivi a favore di Trump, alcune persone hanno affermato che questo aiutava a dimostrare che c'erano veramente i democratici dietro all'operazione. "Se qualcuno pensa che il furgoncino di un conservatore abbia questo aspetto, � volutamente ignorante. � chiaro che Cesar Sayoc � solo il capro espiatorio di questa evidente contraffazione", ha scritto una persona su Twitter. Le teorie del complotto sono una reazione umana a un'epoca confusa. "Cerchiamo tutti, semplicemente, di capire il mondo e quello che vi accade", afferma Rob Brotherton, psicologo al Barnard College di New York e autore di Menti sospettose. Perch� siamo tutti complottisti (Bollati Boringhieri, 2017). Ma da questo tipo di pensiero possono derivare danni reali, soprattutto quando chi ci crede usa la violenza per dimostrare il suo sostegno. Se facciamo attenzione agli indizi sospetti e poniamo domande ben ponderate sulle storie che sentiamo, � ancora possibile distinguere la realt� dalle menzogne. Non � sempre facile, ma � molto importante, per tutti noi. Notre-Dame: la signora in rogo (di Elisa Venco, "Focus Storia" n. 152/19) - Quando fu costruita, tra il 1163 e il 1250, era la chiesa pi� grande del mondo. Da allora � sempre stata al centro della vita dei francesi. Nel bene e nel male. - Per commentare il terribile incendio che lo scorso 15 aprile ha gravemente danneggiato la cattedrale parigina di Notre-Dame, il quotidiano francese Lib�ration ha titolato: "Notre drame". Non a torto: perch� questa chiesa gotica, pi� che un edificio di culto, � un "luogo della memoria", come lo ha definito lo storico francese Pierre Nora. Cio� "un'unit� significativa, d'ordine materiale o ideale, che la volont� degli uomini o il lavorio del tempo ha reso un elemento simbolico di una comunit�". Qui infatti si sono svolti eventi determinanti per la Francia, dal punto di vista religioso e politico. Momenti che si inseriscono nel complesso rapporto che negli anni si � delineato tra lo Stato e la Chiesa nazionale, che tuttora trova espressione nel fatto che l'edificio, in base alla Legge sulla separazione tra Stato e Chiesa del 1905, � propriet� statale, mentre il suo utilizzo � assegnato alla Chiesa cattolica. Non fu un caso dunque che il 10 aprile 1302, proprio a Notre-Dame, il re di Francia Filippo il Bello (1268-1314), ai ferri corti con il papa romano Bonifacio VIII, avesse convocato gli Stati generali. Si trattava di un'assemblea composta da 300 membri di nobilt�, clero e terzo stato, chiamata a pronunciarsi sull'indipendenza del potere del re rispetto ai dettami del pontefice. L'assemblea si schier� col sovrano, che subito venne scomunicato anche a seguito del presunto "schiaffo di Anagni", inferto nel 1303 al papa dal nobile romano Giacomo Sciarra Colonna (inviato dal re francese per intimare al papa di dimettersi, pena la vita). Il braccio di ferro vide vincente Filippo: morto Bonifacio, venne eletto un papa francese, Clemente V, che in accordo col re spost� la sede papale ad Avignone, dove rimase dal 1309 al 1377. Circa 50 anni dopo, nel dicembre 1431, la cattedrale ospit� la sua prima incoronazione: quella di Enrico VI che, gi� proclamato re d'Inghilterra all'et� di 9 mesi, a 10 anni vi venne incoronato. Nell'ambito della Guerra dei cent'anni, che opponeva Francia e Inghilterra, la cerimonia avrebbe dovuto sancire il trattato di Troyes e la successione sul trono francese di un Lancaster, al posto del rivale Carlo VII di Valois. Eppure, nonostante l'ingresso di Enrico su un cavallo bianco e la suggestiva cerimonia sotto un baldacchino colorato di blu con gigli d'oro, non ottenne l'effetto sperato: in primo luogo, perch� la citt� tradizionale d'incoronazione dei re di Francia non era Parigi, bens� Reims; secondariamente, perch� non avvenne per mano del vescovo di Parigi, ma del cardinale Henry Beaufort, vescovo di Winchester. Quanto al citato Carlo VII, nel 1429 fu incoronato re a Reims, grazie all'incitamento dato alle sue truppe da Giovanna D'Arco. Mentre l'eroina, che nella stessa citt� mor� sul rogo, nel 1456 proprio a Notre-Dame venne riabilitata, al termine di un processo di revisione approvato da papa Callisto III. E sempre a Notre-Dame fu beatificata nel 1909 da papa san Pio X. Numerosi furono anche i matrimoni celebrati nella cattedrale parigina, a cominciare da quelli di due principi Valois, figli di Caterina de' Medici: Francesco e Margherita. Il 15-enne delfino di Francia Francesco di Valois si un� alla 14-enne Maria Stuarda, regina di Scozia, il 24 aprile 1558. La sposa venne descritta dal cortigiano Pierre de Brant�me come "un centinaio di volte pi� bella di una dea dell'Olimpo. Il suo valore era pari a quello di un regno". L'anno dopo, con la morte del suocero, Maria divenne regina di Francia. Per poco, comunque: il marito mor� giovanissimo e il potere pass� (o meglio rest�) nelle mani dell'ingombrante suocera. Pi� tardi Maria ebbe la pessima idea di avanzare pretese sul trono inglese. Inizi� cos� una contesa con la cugina Elisabetta d'Inghilterra, che si concluse con la decapitazione, nel 1587, della Stuarda. Non meglio and� il matrimonio tra il protestante Enrico di Navarra e Margherita di Valois. Per la cerimonia confluirono a Parigi migliaia di ugonotti, in un clima di festa per un matrimonio che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto rappresentare un tentativo di pacificazione religiosa. Invece, solo 5 giorni dopo l'evento, celebrato il 18 agosto 1572 nel sagrato di fronte Notre-Dame, almeno 5.000 ugonotti furono massacrati nella cosiddetta Strage di san Bartolomeo. Una terribile trappola ordita, molto probabilmente, dal re Carlo IX (fratello della sposa), con il pi� o meno esplicito benestare di Caterina. In ogni caso, nel 1593, al termine della guerra civile detta dei "tre Enrichi", Enrico di Navarra si convert� al cattolicesimo. Si dice che, prima di abiurare al calvinismo, abbia pronunciato la celebre frase: "Parigi val bene una messa", per sintetizzare il tornaconto politico favorito dalla sua conversione. Fu invece un matrimonio "per procura", ovvero senza che lo sposo fosse davvero presente nella cattedrale, a decretare la sorte di un altro monarca: Carlo I d'Inghilterra. Tramite il suo sostituto George Villiers, duca di Buckingham, nel maggio 1625 il re spos� a Parigi la cattolica Enrichetta Maria di Borbone. Dato che le nozze avevano allarmato il Parlamento inglese, che temeva un'attenuazione delle leggi restrittive contro i cattolici, grazie a questo escamotage il re pot� dichiarare di non essersi sottomesso a un rito cattolico. Perci� altre nozze, con rito protestante, furono ripetute a Canterbury. Ma al termine di una guerra civile, che nasceva da motivazioni religiose, oltre che da opposte concezioni politiche, il re fin� condannato per alto tradimento e venne decapitato nel 1649. Durante la Rivoluzione francese, la furia del popolo nei confronti della monarchia si espresse anche in una foga iconoclasta e nell'abbattimento della cosiddetta "galleria dei re": una serie di 28 statue di re biblici che affollavano la facciata occidentale di Notre-Dame, erroneamente ritenute raffigurazioni dei regnanti francesi. Nel 1793 le statue furono abbattute con funi e decapitate e la chiesa venne trasformata nel tempio della Ragione. Tutte le 20 campane della cattedrale, tranne la colossale Emmanuel, del peso di 13 tonnellate, furono rimosse e fuse per fabbricare cannoni. Sul finire del secolo XVIII la chiesa versava perci� in uno stato miserevole. Per questo fu necessario camuffarne le condizioni quando Napoleone Bonaparte, che nel 1801 aveva firmato un concordato che riconosceva il cattolicesimo come "la religione della grande maggioranza dei francesi" e riconvertiva la cattedrale di Parigi in un edificio di culto, volle inscenare l� la sua incoronazione a imperatore. La cerimonia che si tenne all'interno della chiesa il 2 dicembre 1804, immortalata in un celebre dipinto di Jacques-Louis David, fu un "geniale esempio di moderna propaganda", ha riassunto lo storico dell'arte Todd Porterfield. Da un lato infatti interrompeva la tradizione secondo cui i reali venivano incoronati a Reims, sottolineando la forza dirompente del generale corso. Dall'altro, mutando la formula rituale latina usata per le incoronazioni Accipe coronam (Ricevi questa corona) con la frase Coronet vos Deus (Vi incoroni il Signore), Napoleone indicava che non era papa Pio VII a conferirgli il potere, bens� Dio. Una dichiarazione platealmente ribadita dal fatto che Napoleone si autoincoron�, senza aspettare che fosse il pontefice a porgli la corona sul capo. Nell'agosto 1944 un altro militare transalpino, il generale Charles de Gaulle, che aveva guidato la Resistenza francese contro la Germania nazista, si rec� a piedi verso la chiesa principale di Parigi per un Te Deum di ringraziamento, a dispetto dei cecchini che ancora vi albergavano. Nelle parole dell'allora corrispondente della Bbc da Parigi, Robert Reid, l'ingresso del generale fu accompagnato da colpi di arma da fuoco, con "una pazza scena di guerra moderna nel contesto medievale di una chiesa del tredicesimo secolo, mentre nell'aria si mescolavano gli odori di cordite e incenso". De Gaulle per� non si lasci� turbare e prosegu� incolume la sua marcia. Sempre al centro della vita parigina, nel bene e nel male, a Notre-Dame il 15 novembre 2015 si celebr� la messa per le 129 vittime dell'attentato terrorista al Bataclan, avvenuto due giorni prima. Un massacro che richiama le parole scritte a proposito della cattedrale da Victor Hugo in Notre-Dame de Paris, il romanzo che pi� di ogni altro fattore determin� il recupero e la trasformazione della chiesa parigina: "Sulla faccia di questa antica regina delle nostre cattedrali, accanto a ogni ruga si trova invariabilmente una cicatrice: "Tempus edax, homo edacior", che sarei incline a tradurre: Il tempo � cieco, ma l'uomo � insensato". Eppure, nonostante il fuoco che l'ha sfregiata, Notre-Dame si prepara a risorgere dalle sue ceneri come una fenice: il presidente Emmanuel Macron ha annunciato che in 5 anni il suo restauro sar� completato. Sopravvissuta alla Rivoluzione francese, alle guerre mondiali, all'abbandono, Notre-Dame superer� anche questa tempesta. In linea con il motto di Parigi: "Fluctuat nec mergitur": � sbattuta dalle onde, ma non affonda.