Luglio 2016 n. 7 Anno I Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Copia in omaggio Indice Riforma delle pensioni, un percorso a ostacoli Diventare genitori tra divisioni e condivisioni Prurito: una sensazione... irritante Riforma delle pensioni, un percorso a ostacoli (di Valeria Miceli, "Vita e Pensiero" n. 2/16) - Nonostante i diversi interventi per colmarne gli squilibri, il sistema previdenziale resta imperniato sul primo pilastro, mentre il secondo fatica a decollare. Eppure la previdenza complementare rappresenta un buon investimento per rilanciare il sistema Paese. - Sono due gli elementi che definiscono l'equilibrio del sistema previdenziale italiano: da un lato, la sostenibilit� nel medio e lungo termine delle finanze pubbliche; dall'altro, il conseguimento di redditi pensionistici che, oltre a essere equi rispetto ai contributi versati, siano anche in grado di garantire ai pensionati un tenore di vita dignitoso. A questi oggi si aggiunge un terzo vertice di un triangolo di difficile bilanciamento, ovvero l'utilizzo del risparmio pensionistico per il rilancio del sistema economico. In un contesto caratterizzato da invecchiamento della popolazione e da una quota significativa del RI destinata a finalit� previdenziali, � essenziale mantenere un adeguato bilanciamento tra i vertici di questo triangolo, se si vuole che il sistema pensionistico fornisca un contributo a una crescita dinamica dell'economia italiana. L'equilibrio dei conti pubblici e le riforme Il sistema previdenziale italiano ha attraversato molteplici tentativi di riforma negli ultimi venticinque anni. Per un sistema previdenziale la cui spesa corrisponde al 16-17% del Pil (a seconda delle modalit� di calcolo) ed � tra le pi� alte tra i Paesi avanzati, la priorit� � stata data all'equilibrio dei conti pubblici. Le riforme introdotte a partire dagli anni Novanta (riforma Amato del 1992 e riforma Dini del 1995), fino alla pi� recente riforma Fornero, hanno consentito di ridurre la spesa pensionistica italiana in rapporto al Pil (secondo il Fondo monetario internazionale) per i prossimi vent'anni, invertendone cos� la tendenza. La fetta di Pil assorbita dalla spesa pensionistica era infatti cresciuta quasi senza interruzioni per decenni. Dal 9% nel 1990, al 13,5 nel 2000, al 15,5% nel 2010. A dire il vero, non si � trattato di un fenomeno solo italiano. A partire dagli anni Sessanta, infatti, la spesa per pensioni � cresciuta in modo significativo in tutti i Paesi avanzati sia per il miglioramento delle prestazioni pensionistiche sia per l'invecchiamento della popolazione. Il fenomeno � risultato per� pi� accentuato in Italia, non solo a causa di una popolazione che invecchiava pi� rapidamente, ma anche a causa di un'et� di pensionamento media che non veniva aumentata in modo adeguato e di prestazioni non corrispondenti ai contributi versati. Da qui la necessit� di agire con urgenza sul sistema pensionistico italiano per colmarne gli squilibri attraverso le riforme iniziate negli anni Novanta. Un pilastro per garantire il patto tra le generazioni Purtroppo queste riforme non sono foriere di buone notizie per i circa 16 milioni di pensionati italiani e ancor meno per i lavoratori attuali che oggi pagano i contributi previdenziali. All'urgenza di riequilibrare le finanze pubbliche si � accompagnata pertanto l'operazione di rafforzamento del secondo pilastro della previdenza, quello complementare di matrice privata che, abbinato al primo di tipo obbligatorio e di matrice pubblica, ha lo scopo di garantire un tenore di vita dignitoso ai pensionati di domani. La ratio � evidente: se il primo pilastro, in conseguenza delle riforme intraprese, � destinato a non violare l'equilibrio delle finanze pubbliche, garantire un livello delle prestazioni simile a quanto avveniva in passato determinerebbe una pressione insostenibile sulle coorti degli occupati. Per evitare di fare esplodere il debito pubblico e, al tempo stesso, di violare il patto tra le generazioni, diventa allora indispensabile aumentare il peso del secondo pilastro, basato sul meccanismo contributivo. I due pilastri continuano e continueranno a convivere in un'ottica di sostenibilit� sociale: il pilastro complementare consentir� l'integrazione delle prestazioni garantite da quello obbligatorio, cos� permettendo un tenore di vita pi� elevato ai pensionati di domani. I vantaggi che derivano da questo schema sono molteplici: dall'allentamento della pressione sui gi� fragili bilanci pubblici, al rafforzamento dell'equit� intergenerazionale del sistema, alla riduzione del costo del lavoro con possibili benefici sull'occupazione, nonch�, infine, a una pi� efficiente allocazione delle risorse del risparmio previdenziale. Va purtroppo rilevato che, nonostante questi lodevoli tentativi, l'attuale sistema previdenziale italiano rimane imperniato sul primo pilastro, mentre quello complementare fatica a decollare. Il risparmio previdenziale per rimettere in moto il Paese Sostenibilit� dei conti pubblici ed equit� del patto intergenerazionale sono due delle tre sfide che il nostro sistema previdenziale � chiamato ad affrontare oggi e in futuro. A queste si aggiunge un terzo vertice finalizzato a evitare che una spesa pensionistica ipertrofica comprima le potenzialit� di crescita del Paese. Si tratta insomma di indirizzare l'enorme quantit� di risparmio che un sistema pensionistico � in grado di veicolare verso la crescita dell'economia reale e il rilancio degli investimenti dopo anni di stagnazione. Quest'ultima necessit� � tanto pi� urgente se si considera il calo degli investimenti in Italia, ben pi� pronunciato di quello rilevato in altri Paesi europei. Mentre tra il 2008 e il 2013 tale calo a livello Ue � stato del 4% annuo (con Paesi come la Germania che hanno registrato solo un 1% di calo annuo), gli investimenti nel Belpaese sono calati del 5% annuo nello stesso lasso temporale. Alla caduta degli investimenti si accompagna un sistema finanziario troppo dipendente dal credito bancario, che rappresenta il 64% del totale dell'indebitamento delle imprese italiane. Al tempo stesso la capitalizzazione del mercato di borsa domestico rappresenta solo il 38% del Pil nazionale, contro il 47% della Germania, il 155% degli Stati Uniti, il 208% del Regno Unito. La dipendenza dal sistema bancario � particolarmente pericolosa per la crescita in tempi di credit crunch. Tra il 2008 e il 2015 l'ammontare dei prestiti bancari � sceso in Italia del 7%. In ogni caso, i nuovi requisiti di capitale imposti al sistema bancario dalla regolamentazione europea stanno determinando cambiamenti strutturali nel modo di fare banca, incidendo cos� sulla capacit� di credito del sistema. In un tale contesto diventa cruciale identificare nuovi canali di finanziamento, sia complementari sia alternativi a quello bancario, per sostenere il tessuto produttivo e imprenditoriale del Paese e rimetterne in moto la crescita. Eppure il dato sulla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane non suggerisce certo una carenza di capitali. Tale ricchezza ammontava infatti nel 2013 a 3.848 miliardi di euro. Al tempo stesso l'industria del risparmio gestito toccava quota 1.585 miliardi di euro a fine 2014. Tuttavia le risorse del risparmio gestito sono strutturalmente poco impiegabili a fini di investimenti a medio e lungo termine a causa della brevit� dei loro orizzonti temporali (meno di 3 anni). Al contrario, i fondi pensione (e con essi le compagnie di assicurazione), con i loro orizzonti distribuiti strutturalmente nel medio-lungo termine, sembrano gli attori finanziari meglio attrezzati a raccogliere la sfida del rilancio degli investimenti nel Paese. Nonostante ci�, solo il 30% delle risorse dei fondi pensione � investito in Italia e per la maggior parte (91% del portafoglio italiano) in titoli di Stato. In sostanza, solo il 2,7% delle risorse dei fondi pensione nazionali va a finanziare il capitale azionario delle imprese italiane, mentre quasi il 6% ne finanzia il capitale di debito mediante obbligazioni. Inoltre, rispetto agli omologhi esteri, i fondi pensione italiani mostrano una minore propensione a diversificare le asset class. Il portafoglio di un fondo pensione italiano � ancora tipicamente investito in strumenti tradizionali (per il 70% in strumenti obbligazionari e per il 25% in azioni). Al contrario, i fondi esteri hanno notevolmente allargato negli ultimi dieci anni la quota destinata agli investimenti alternativi, che oggi arrivano a rappresentare circa il 20% dei loro portafogli. Perch� i fondi pensione italiani investono poco nel sistema Paese Se i fondi pensione italiani investono poco nel sistema Paese, ci� � ascrivibile a una variet� di cause. Prima fra tutte le ridotte dimensioni medie che determinano anche scarsa efficienza. Con 130 miliardi di attivi a fine 2014 (che diventano quasi 200 se si sommano i 66 miliardi delle casse private), i fondi pensione italiani rappresentano il 7% del Pil nazionale, contro una media dei Paesi Ocse dell'86%. La situazione migliora se si aggiungono le casse private, con cui si arriva al 12% del Pil. In termini di quota dei fondi pensione nazionali sul totale degli attivi dei fondi europei, l'Italia rappresenta solo un 3%, contro il 56% del Regno Unito e il 31% dell'Olanda. Le dimensioni medie dei primi dieci fondi italiani per attivi ammontano a 9 miliardi di dollari, contro una media di 184 miliardi negli Stati Uniti, 101 in Olanda, 47 nel Regno Unito. Bisogna riconoscere che un miglioramento � avvenuto sia in termini di numero (i fondi pensione sono diminuiti in numero da 719 nel 2000 a 496 nel 2014) sia di dimensioni medie, che sono passate da 127 milioni di euro nel 2009 a 264 nel 2014, con un incremento del 16% medio annuo. Siamo comunque parecchio al di sotto dei dati medi dei Paesi avanzati nonch� delle soglie teoriche di efficienza. Altro problema che affligge i fondi pensione italiani � lo scarso livello di adesione. Gli iscritti alle forme pensionistiche complementari erano 6,5 milioni a fine 2014 e rappresentavano quasi il 30% degli occupati e circa un quarto della forza lavoro. I problemi per� non finiscono qui. I fondi pensione italiani sono spesso caratterizzati da una governance non sempre trasparente ed efficace. Vi � infine il problema dell'instabilit� del sistema regolamentare. Per esempio, la norma del 2015 relativa all'anticipazione del Tfr maturato in busta paga anche per i lavoratori iscritti ai fondi pensione e il rialzo della tassazione sui rendimenti della gestione del risparmio previdenziale elevata dall'11% al 20% nel Ddl stabilit� per il 2015 sono stati provvedimenti non coerenti con l'obiettivo del rafforzamento del pilastro complementare. Come rafforzare il terzo vertice del triangolo Per orientare gli investimenti dei fondi previdenziali allo sviluppo economico del Paese, alle infrastrutture, al finanziamento delle aziende nazionali, bisogna innanzitutto porsi la domanda se i due obiettivi del mantenimento delle promesse pensionistiche, da un lato, e del contributo alla ripresa del Paese, dall'altro, siano effettivamente coerenti. La risposta dipende dall'individuazione di strumenti idonei che consentano di finanziare lo sviluppo economico del Paese in condizioni di sicurezza per gli iscritti alla previdenza complementare. Al tempo stesso, i tassi di interesse odierni particolarmente bassi rendono ineludibile anche per i fondi previdenziali il ricorso a una maggiore diversificazione di portafoglio. Bisogna dare risposta innanzitutto al problema delle ridotte dimensioni e delle basse adesioni ai fondi della previdenza complementare. Servono nuovi strumenti e regole per favorire la concentrazione dell'industria e l'ulteriore aumento delle dimensioni medie. Si pu� pensare di introdurre un numero di iscritti minimo, dei vincoli amministrativi sui costi legati a inefficienze, di promuovere fusioni anche mediante incentivi fiscali, di introdurre la portabilit� "completa" e un obbligo di comunicazione dei principali indici amministrativi per ciascun fondo. Per fare aumentare le adesioni al pilastro complementare sono necessarie maggiore sensibilizzazione e maggiore incentivazione. Per quanto riguarda l'opera di sensibilizzazione e comunicazione, i lavoratori devono capire che il primo pilastro della previdenza non sar� pi� sufficiente in futuro per garantire loro un tenore di vita dignitoso. Sono necessarie massicce campagne di informazione e sensibilizzazione dei futuri pensionati. In particolare, � ai giovani che va rivolta una campagna ad hoc. Per quanto riguarda invece l'incentivazione, bisogna guardare soprattutto alle agevolazioni fiscali, tra le quali, ad esempio, la deducibilit� dall'imponibile delle somme investite in fondi pensione rimane una delle pi� efficaci. Sempre di pi� questi incentivi devono coinvolgere il pubblico dei giovani lavoratori. Infine bisogna puntare a un aumento della concorrenza nel settore sia in entrata sia in uscita. In tal senso la portabilit� � cruciale (facendo attenzione a distinguere tra quella del Tfr e quella del contributo del datore di lavoro), ma deve essere declinata in un'ottica di medio termine. In questo ambito � anche importante definire meglio i confini tra il comparto vita del ramo assicurativo e il secondo pilastro della previdenza complementare. Al fine di incentivare l'investimento dei fondi pensione italiani nel sistema Paese, un primo passo � presente nelle recenti iniziative del governo (decreto Mef 166/2014 e decreto Mef 5 giugno 2015 su credito di imposta), che prevedono benefici fiscali per i fondi pensione che investono nell'economia reale. Si tratta per�, per l'appunto, di un primo passo che va rafforzato, semplificato e reso stabile nel tempo. Un'ulteriore iniziativa possibile � la creazione di un fondo specifico per gli investimenti nell'economia italiana gestito dai fondi pensione e dalle casse di previdenza, ma aperto anche ad altri investitori istituzionali pubblici e privati. La dimensione potrebbe essere compresa tra 3 e 5 miliardi di euro e la contribuzione su base volontaria. Al tempo stesso, e questo � un intervento cruciale, vanno incentivate nuove asset class da inserire nei portafogli dei fondi previdenziali, superando l'atteggiamento fortemente prudenziale del vigilante. Dal private equity, al venture capital, al direct lending, ai fondi immobiliari e infrastrutturali, i canali alternativi possono avere importanti ricadute sul sistema produttivo e occupazionale e, al tempo stesso, offrire rendimenti elevati. In questo quadro non possiamo dimenticare il ruolo cruciale dell'Unione Europea, che oggi � il regolatore e l'interlocutore pi� importante nella governance dei mercati finanziari. Emanare norme e incentivi a livello italiano senza preoccuparsi della loro compatibilit� con il pi� ampio quadro europeo non porta alcun vantaggio, ma solo il rischio di non passare l'esame di Bruxelles e di esporsi alle procedure di infrazione. Argomenti cruciali, quali la portabilit� dei contributi per i fondi pensione, la revisione di Solvency II (la direttiva europea che riforma il settore assicurativo), la ridefinizione delle asset class per gli investitori previdenziali, sono oggetto di discussione e di provvedimenti a livello europeo. Inutile trovare soluzioni di respiro esclusivamente nazionale. La riforma di un sistema pensionistico, come il dato storico delle difficolt� incontrate dalle riforme intraprese attesta, � una questione complessa che impatta sul progetto di vita di milioni di cittadini. Cambiando troppo di frequente le regole del gioco, si rischia di minare la fiducia nel sistema, nonch� la sua tenuta sociale ed economica. Al tempo stesso, il rilancio della previdenza complementare deve essere inteso sia dal legislatore sia dal grande pubblico come un investimento sul futuro non solo del singolo, ma anche del sistema Paese. Solo puntando su uno sviluppo adeguato del pilastro complementare, l'Italia sar� in grado di bilanciare il triangolo pensionistico, tutelando l'equilibrio dei conti pubblici, mantenendo al contempo le promesse pensionistiche nel rispetto del patto tra le generazioni e, infine, finanziando il sistema produttivo per aiutare il Paese a tornare a crescere. Diventare genitori tra divisioni e condivisioni (di Manuela Naldini, "il Mulino" n. 485/16) Diventare genitore � un passaggio cruciale nella vita degli individui, non solo perch� segna il passaggio da coppia a famiglia, ma anche perch� contrassegna una svolta, che a differenza di altri passaggi (il primo lavoro, uscire di casa, andare a convivere ecc.) non � pi� reversibile. Il figlio, infatti, sembra essere diventato nella coppia dai "legami fragili" il simbolo della permanenza affettiva e relazionale indissolubile. La prima gravidanza e la transizione alla maternit� e alla paternit� sono eventi che mettono in atto un processo di ridefinizione dell'identit� personale e sociale dei protagonisti. Avere un figlio pu� apparire, a prima vista, una decisione intima e privata; ma, al contrario, essa � una delle scelte (e delle azioni) individuali, di coppia e familiari dalle pi� profonde e durature ripercussioni sociali. Infatti, in gioco vi sono il futuro e la sostenibilit� di una societ� nei suoi equilibri demografici e quindi anche economici, nonch� il benessere complessivo che pu� essere misurato proprio dal tempo, dalle risorse e dagli investimenti pubblici e privati destinati ai "figli". Scelte e decisioni riproduttive a livello micro, individuali, di coppia e familiari, disegnano ma sono anche disegnate dagli assetti macro, rispecchiando il dinamismo demografico di una data societ�, e quello culturale, economico e istituzionale. In questo dinamismo si possono leggere sia le persistenze, sia i mutamenti che attraversano le vicende e le esperienze di vita delle famiglie e della societ� italiana. Come si configura oggi la decisione di diventare genitore? Tre sono le grandi trasformazioni. Innanzitutto � cambiato il "se": diventare madre e padre non � pi�, infatti, un dato scontato, ma � il frutto della scelta e del "desiderio". Assieme al se � cambiato il "quando": oggi si diventa genitori pi� tardi, si tende a posticipare il momento, la scelta, appunto, del diventare genitori. Ma pi� di tutto, ci� che pare essere cambiato � il "come", cio�, l'essenza (o la sostanza) stessa dell'attivit� di genitore: "il lavoro della genitorialit�". Dai genitori, oggi, non ci si attende pi� solo un'attivit� di accudimento e di accompagnamento alla crescita. Come i genitori allattano o nutrono i figli, a che ora li mettono a letto, cosa leggono o come giocano con loro, quali regole danno ai figli, il se, quando e per quanto tempo lasciarli uscire a giocare o affidarli ai nonni o a una baby-sitter, tutto ci� � diventato oggetto di riflessione e anche di dibattito, oltre che di precise - e non sempre concordi - indicazioni da parte degli esperti. Assistiamo dunque a una trasformazione che � stata sintetizzata sotto l'etichetta di nuova "cultura della genitorialit�". Essa richiede "intensit�", opera a diversi livelli e mette in luce contraddizioni culturali e sociali evidenti soprattutto sul versante femminile. Prima e durante la maternit�, le madri sono incoraggiate, da un lato, a essere "naturali", dall'altro a seguire la guida degli esperti. Dopo la maternit�, sono chiamate a investire tempo ed energie illimitate; ma contemporaneamente si chiede loro di restare e investire altrettanto tempo e energie nel mercato del lavoro. I padri sono chiamati a un coinvolgimento emotivo, a una paternit� pi� intima, che richiede esclusivit� e contatto fisico con i figli; al tempo stesso vengono definiti come incapaci di prendersi cura dei bambini piccoli. Pi� in generale � il modo in cui i genitori vengono considerati che � ambivalente: da un lato vengono rappresentati come onnipotenti, perch� � soprattutto da loro che dipende lo sviluppo cognitivo e intellettuale del bambino, dall'altro, soprattutto dagli "esperti", sono visti come bisognosi di essere educati. Le trasformazioni del se, del quando, del come e della "sostanza" del diventare genitore avvengono in stretta interdipendenza con altre sfere della vita - innanzitutto con quella del lavoro - che contribuiscono a produrre "convergenze" (o mancate convergenze), soprattutto di genere, tra uomini e donne, ma specialmente tra madri e padri. Su un altro versante, per le donne maternit� e lavoro sono diventate due esperienze di vita da conciliare e da tenere insieme. Mutano anche le esperienze e i corsi di vita di giovani uomini e di giovani donne prima dell'arrivo del primo figlio, con una convergenza tra i due mai vista prima - in termini di tempo e di investimento in istruzione, di esperienze di vita intima e di relazioni sessuali, di esperienze formative e lavorative. Come segnalano alcune ricerche internazionali, tale maggiore convergenza si affievolisce per� nelle fasi centrali del corso di vita, e pi� specificamente in coincidenza con la prima genitorialit�. Forti asimmetrie tra uomini e donne si svelano o si rinforzano quando si "mette su" famiglia. Una decisione cos� profonda che richiede un intenso e continuo processo di adattamento: una ridefinizione delle priorit� tra lavoro e famiglia. Tali ridefinizioni non sono avvenute allo stesso modo e negli stessi tempi nei diversi Paesi europei. In Italia, in particolare, la crescente partecipazione delle donne al mondo del lavoro non ha di molto trasformato le aspettative e gli obblighi circa il loro ruolo di caregivers, soprattutto verso i figli piccoli, cos� come non ha comportato un riequilibro tra uomini e donne nella divisione del lavoro domestico e di cura. Il lavoro familiare � certamente diventato pi� condiviso rispetto alle generazioni precedenti, ma rimane ancora fortemente sbilanciato, soprattutto quello domestico. Per le donne lavoratrici vi � un netto incremento di ore dedicate al lavoro familiare quotidiano quando diventano madri (in media oltre le due ore e mezza), mentre per gli uomini essere padre modifica solo marginalmente l'organizzazione della vita quotidiana rispetto a chi non ha figli ed eventualmente accresce il tempo destinato al lavoro remunerato. Sostenute da un forte orientamento verso le solidariet� parentali-familiari che si estendono oltre i confini della famiglia nucleare e da una forte convinzione normativa che i genitori siano responsabili in esclusiva dei loro figli, le donne italiane hanno evitato l'esternalizzazione di parte delle attivit� di cura, come invece accade in altri Paesi europei, trasformandosi spesso in funambole, sospese tra cura e lavoro. Diversa tra Paesi � stata anche l'attenzione data dagli studi a queste trasformazioni e persistenze, nonch� ad alcune delle contraddizioni sociali e culturali insite nel processo di diventare genitore, ampiamente esplorate in letteratura a livello internazionale ma poco in Italia. In particolare, a eccezione di qualche studio, nel panorama delle ricerche sociologiche italiane � assente lo studio della "transizione alla genitorialit�". Come i futuri genitori-lavoratori e le madri e i padri che lavorano quando hanno figli piccoli si pensano, rappresentano e agiscono all'interno del contesto italiano non family-friendly (non solo verso le donne-madri, ma anche gli uomini-padri) e caratterizzato da norme, valori e orientamenti che incoraggiano certe attivit�, specifiche per genere? � possibile, almeno tra le coppie in cui entrambi lavorano e pi� in alto nella stratificazione sociale (per titolo di studio, tipo di occupazione e reddito) intravedere una convergenza nei destini e nei mondi di madri e padri? Si osservano nuove forme di maternit� e paternit�, oltre che di co-genitorialit�, oppure si riproducono forme conosciute di divisione dei ruoli tra uomini e donne, tra madri e padri, negli ideali e nelle pratiche di genitorialit� e conciliazione tra famiglia e lavoro? Sono queste alcune domande a cui ha cercato di rispondere la ricerca basata su un'indagine quanti-qualitativa longitudinale che ha raccolto, per la prima volta in Italia, interviste con coppie in cui sia lei sia lui risultavano occupati, in due diversi momenti della transizione alla genitorialit�, quando ancora in attesa del primo figlio e poi successivamente, ad un anno e mezzo dalla nascita (i risultati della ricerca sono confluiti nel recente La transizione alla genitorialit�. Da coppie moderne a famiglie tradizionali, a cura di M. Naldini, Il Mulino, 2016). Diversamente da quanto emerge da alcune ricerche internazionali che hanno mostrato come la transizione alla genitorialit� conduca a una sorta di "ri-tradizionalizzazione" dei ruoli di genere, nel contesto italiano pi� che di "ri-tradizionalizzazione" dei ruoli di genere si pu� parlare di "difficile de-tradizionalizzazione". Ci� � legato innanzitutto alla persistente centralit� di una visione "intima", privata e in fondo di genere della cura dei bambini piccoli. Tale aspetto emerge con forza nell'analisi dei childcare arrangements attesi, pianificati e agiti dalle coppie durante la transizione alla prima genitorialit�, che risultano fortemente influenzati dagli ideali relativi a ci� che si ritiene essere il "meglio per il bambino". Il modello ideale di cura, nel primo anno e fino ai primi 18 mesi di vita, � quello della presenza della madre, 24 ore su 24, della indispensabilit� (e della insostituibilit�) materna. Diversamente, il ruolo del padre � quello di "assistente", un ruolo secondario nelle intenzioni e nelle pratiche quotidiane. Si tratta di ideali e di piani di cura che spesso si traducono in pratiche e soluzioni di conciliazione - almeno fino al primo anno e mezzo di vita del bambino - che vedono la madre come la principale se non unica carer. Proprio attraverso il discorso del "meglio per il bambino", dominante nelle giustificazioni sulle strategie di conciliazione da adottare o adottate e rinforzato dai discorsi degli esperti, sembrano agire i principali meccanismi di costruzione del genere, che hanno per esito una divisione asimmetrica dei ruoli. Il repertorio discorsivo del "bene per il bambino", nasce da quella cultura dell'infanzia che coniuga l'idea per cui i "bambini stanno al centro" con l'idea della vulnerabilit� degli stessi. E sul versante della genitorialit� coniuga l'idea dell'onnipotenza con quella dell'incompetenza dei genitori. Tale discorso mostra la forza della costruzione sociale e di genere della genitorialit�, perch� assume la potenza di una norma sociale con precise "regole del sentimento" che influenzano gli stati emotivi e richiedono un continuo lavoro di riallineamento per sentirsi "buoni genitori", ma anche "naturali" e "normali" in quanto madri e padri. A livello individuale i soggetti sono continuamente sollecitati a adeguare i propri sentimenti, le proprie emozioni e anche preferenze a ci� che viene ritenuto non solo il bene per il bambino, ma anche "naturale" e "normale" nei contesti di riferimento. Le cure familiari - in ordine, della madre, dei genitori, del padre e dei nonni - sono preferite. Soluzioni di conciliazione pi� "aperte" al nido d'infanzia o alla tata sono adottate solo tra chi non ha altre alternative e solo dopo il primo anno e mezzo di vita del bambino. Tuttavia, vi � una diversa gradazione con cui i soggetti si attivano per "fare" o "disfare" il genere, come esito di una diversa capacit� negoziale delle coppie. Nelle coppie pi� paritarie, o in cui lei "dispone di pi� risorse", � pi� probabile che nel primo anno di vita i mariti si facciano carico di una fetta in pi� di lavoro domestico, o di attivit� domestiche prima ripartite tra lei e lui, per compensare il nuovo carico di cura per lei, in primis il tempo e le energie da dedicare all'allattamento, mantenendo cos� netto il confine di genere nella cura del bambino. In molte coppie per� le negoziazioni soprattutto sul fronte della cura sono assenti, implicite, parziali o interrotte. Sembra essere pi� il lavoro domestico fonte di litigio o di negoziazione che non la mancata condivisione del lavoro di cura, rispetto al quale sembra esistere un soffitto di cristallo per alcuni padri. Tali pi� o meno implicite negoziazioni dentro la coppia e la famiglia non sono l'esito solo di costruzioni private, ma anche di attese sociali e culturali che sono incorporate nei discorsi e nelle pratiche dei contesti organizzativi, del funzionamento e regolazione dei mercati del lavoro, delle politiche. Le culture aziendali, prodotte e operanti entro un contesto istituzionale e culturale che offre pochi sostegni ai genitori che lavorano e poco riconoscimento sociale ai padri che si prendono cura dei figli, giocano dunque un ruolo di tutto rilievo nella costruzione di genere della genitorialit�. Cosicch� i padri in "permesso di allattamento" possono venire "derisi", oltre che "demansionati". La concezione privata della cura e della famiglia emerge non solo perch� i genitori sono poco inclini a chiedere aiuto, ma anche perch� sono carenti i sostegni a livello aziendale e pubblico per i genitori che lavorano. Se guardiamo alle politiche di sostegno della genitorialit�, il contesto italiano - con bassa indennit� per il congedo parentale facoltativo, guadagni e posizioni lavorative delle donne mediamente inferiori a quelli degli uomini - non incoraggia le coppie a utilizzare questa misura o altre riduzioni orarie per i padri. N� il congedo di paternit�, introdotto in Italia solo nel 2012, si pu� dire preveda in alcun modo che i padri stiano con il figlio nelle settimane subito dopo la nascita. Le politiche sociali e gli assunti su cui esse si basano non contribuiscono dunque a costruire una "cultura" della genitorialit� in cui la condivisione della cura dei bambini piccoli tra madre e padre sia un valore da promuovere e un obiettivo da raggiungere. Anche il razionamento delle risorse, a partire dalla riduzione dei fondi pubblici destinati ai servizi per la primissima infanzia a livello locale, � indice di uno scarso investimento non solo verso l'infanzia, ma anche verso la cultura di una "parit� di genere", e segnala piuttosto un restringimento della sfera pubblica d'azione, se non un suo ritrarsi. A questa concezione privata, intima della cura fa da corollario dunque anche una forte de-politicizzazione delle dimensioni riguardanti la cura, la famiglia, il diventare genitore. Anche il ruolo dei saperi "esperti" va in questa direzione. I "discorsi" degli esperti non appaiono utili a disegnare una dimensione che sia meno privata e intima dell'esperienza della maternit� e della paternit�, e allo stesso tempo meno asimmetrica in termini di indispensabilit� della madre e accessoriet� del padre. La difficile "de-tradizionalizzazione" dei ruoli nei primi mesi e anni di vita del bambino, entro un contesto che appare sempre pi�, soprattutto sul versante del lavoro, sottolineare che i vincoli (materiali, istituzionali e culturali) in cui i soggetti si trovano ad agire pesano molto sia nel rendere poco praticabili comportamenti innovativi, sia nel rinforzare, sul versante femminile, la visione dell'insostituibilit� della madre e nel favorire una sorta di "mistica della maternit�", spinge le donne - ma anche gli uomini - verso razionalizzazioni che attingono ai repertori della "naturalizzazione" per ricomporre gli equilibri di una coppia che si percepisce come paritaria. Le madri prima e dopo la nascita, pur aspettandosi di pi� dai propri compagni tendono a giustificare la loro scarsa presenza, a considerarsi "fortunate" se i compagni si occupano della casa o della cura del figlio. Non ci sono da parte femminile richieste di sconfinamenti nelle pratiche di genere maschile: anche coloro che partono da posizioni non convenzionali tendono a immaginarsi il comportamento dei propri compagni entro confini gi� tracciati. Il panorama non � per� omogeneo e presenta importanti discontinuit�. A fronte di donne che durante la transizione hanno ridefinito orientamenti e priorit� a favore della famiglia, per trovare un nuovo equilibrio di vita, chiedendo il part-time o diminuendo il proprio impegno lavorativo, troviamo infatti madri che hanno deciso, nonostante le incertezze e le difficolt�, di mantenersi ancorate al mercato, non per necessit�, ma perch� spinte da forti motivazioni personali e identit� giocate anche sul versante professionale o comunque extradomestico. Non va tuttavia sottovalutato il fatto che, in un mercato del lavoro in cui cresce la diffusione di lavori instabili e atipici, divenuti ancora pi� precari con la crisi economica, l'arrivo di un figlio desiderato, seppure da una parte sembra ridurre i gradi di libert� individuale delle madri, dall'altro rappresenta, specie per le future madri, una risorsa per fronteggiare l'insoddisfazione che l'ambito lavorativo procura. Ma � sul versante della paternit� che emerge con pi� forza la coesistenza di nuovo e vecchio, nonch� la difficile de-tradizionalizzazione dei modelli esistenti di relazioni di genere. Innanzitutto i futuri padri, cos� come i neopadri, prendono le distanze dal vecchio modello male breadwinner (quello dominante, per intenderci, tra coloro che sono diventati padri negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo). I padri sono gi� durante l'attesa coinvolti emotivamente, ma la loro presenza nella cura quotidiana rimane confinata e un modello alternativo di paternit� fatica ad assumere i contorni definiti nello scenario italiano di mutamento continuo del mercato del lavoro (crisi e flessibilizzazione), bassa partecipazione, bassa fecondit�, bassa de-familizzazione della cura, bassi sostegni pubblici alla genitorialit�, scarso se non nullo riconoscimento e valore sociale attribuito alla presenza del padre. Vi � certamente, rispetto a un tempo, una quota maggiore di padri che si sta confrontando con la "doppia presenza" maschile. Ma nei discorsi dei genitori il cambiamento della paternit� resta impigliato nella rete dell'idea di un'"essenza" immutabile, la differenza tra maschile e femminile. Il richiamo alla natura, al corpo, all'istinto soprattutto con riguardo al tema dell'allattamento al seno � costante, potente, oltre a rappresentare una spiegazione facilmente accessibile, per giustificare la scelta: lei a casa e lui al lavoro. Oltre ai vincoli, reinterpretati, entro un quadro che trova nella "natura" una facile giustificazione, nei processi che "fanno" il genere e contribuiscono alla riproduzione dei modelli di genere conosciuti, pesano anche le aspettative e le pratiche anticipatorie, sia nell'orientare i processi di adattamento della coppia, verso la co-genitorialit�, sia nella possibilit� di innescare processi di maggior condivisione della cura. Le resistenze opposte dai padri a un loro maggior coinvolgimento tendono a ridurre nel lungo periodo le aspettative nutrite dalle madri nei loro confronti, in un contesto relazionale e istituzionale che sembra delegittimare aspettative di maggiore condivisione. Certo si osservano ormai diversi casi in cui i padri hanno comportamenti che potremmo definire "contro-normativi" (il padre che prende "l'allattamento" o riduce l'orario di lavoro), ma questi risultano ancora fortemente sanzionati soprattutto nei luoghi di lavoro, cos� come emerge dall'analisi dei (pochi) casi di padri innovatori, sia quando la cura paterna non solo accessoria � l'esito di una spinta soggettiva o di una negoziazione di coppia, sia quando ci si trova a casa con il bambino non per scelta. E alla fine, al di l� della fatica, ci si prende gusto. Prurito: una sensazione... irritante (di Stephani Sutherland, "Le Scienze" n. 575/16) - Iniziamo a decifrare l'origine di questa esasperante manifestazione, causata da piante irritanti, punture di zanzare o eczemi. - Per Nicole Burwell tutto ha avuto inizio da un piccolo sfogo sul polpaccio, comparso nell'estate 2010, al termine di un viaggio a Las Vegas con il fidanzato. "Avevo questa macchia sulla gamba che mi prudeva da impazzire. Per� era diversa dal morso di una zanzara: non era in rilievo e non era un bozzo. Un prurito che non riuscivo a far smettere", racconta. Cos� Nicole, all'epoca quarantenne, prese l'antistaminico da banco Benadryl e dorm� per quattro ore: la durata del viaggio in macchina fino a Claremont, in California. "Mi aveva letteralmente stesa", racconta. Tuttavia al risveglio il prurito era ancora l�. La settimana dopo lo sfogo era cresciuto, e anche il prurito. Cos� Nicole and� dal medico di fiducia, "quando ormai si era diffuso alle due gambe". Nei tre anni successivi avrebbe combattuto contro una minacciosa infiammazione rossa ed essudante che si spostava sul corpo, ricoprendo braccia e gambe, mani, busto e schiena. Ma, per quanto brutto a vedersi, lo sfogo preoccupava Nicole meno del prurito. "Era un incubo. Non riuscivo a stare ferma seduta, n� a prestare attenzione a nulla. Mi faceva andare fuori di testa", lamenta. La donna organizz� una sua routine quotidiana: dopo una giornata di lavoro da designer di cucine rientrava a casa nell'appartamento con aria condizionata, si toglieva i vestiti, prendeva due compresse di Benadryl e preparava un miscuglio di bourbon e Diet 7Up. "Tornavo a casa e piangevo, tanto era il prurito", spiega. Applicava impacchi di ghiaccio sulla pelle per placarlo, quanto le bastava per addormentarsi. Nicole non � la sola. Secondo le stime, un quarto degli adulti � soggetto nell'arco della vita a un prurito destinato a durare anche pi� di sei settimane. Il prurito cronico pu� scaturire da vari disturbi di un lungo elenco: malattie della pelle, come eczema o psoriasi, insufficienza renale, danni ai nervi causati da herpes o diabete, acari che scavano nella pelle, una reazione allergica ai farmaci, persino la gravidanza. Il prurito pu� causare una grave invalidit� e addirittura indurre al suicidio: un pensiero che ha certamente percorso la mente di Nicole. Eppure buona parte dei medici lo liquida come un mero fastidio. "Se non sei afflitto da prurito, non � un problema, e pu� essere difficile da capire. Stiamo appena cominciando a capire che il prurito � un handicap enorme per un gran numero di persone", spiega Ethan Lemer, dermatologo e ricercatore sul prurito al Massachusetts General Hospital. "Non tutti i pruriti sono uguali", precisa Gil Yosipovitch, ricercatore alla Temple University di Philadelphia. Quando � acuto, il prurito ha uno scopo importante: funge da sentinella che protegge dai rischi degli insetti o delle piante velenose, che cacciamo grattandoci. Eppure fino a poco tempo fa i ricercatori non capivano come questa sensazione esasperante scaturisse dalle sostanze irritanti nella pelle. Le forme croniche di prurito come quella di Nicole sono un enigma ancora pi� fitto. Recentemente per� gli scienziati hanno fatto importanti passi avanti nella comprensione del disturbo, e sono ormai prossimi a sviluppare trattamenti per il prurito cronico e per quello acuto. In particolare hanno scoperto nuovi recettori molecolari per i pruritogeni - le sostanze che inducono il prurito - sulle terminazioni nervose della pelle, recettori che rilevano la loro presenza. Le nuove scoperte rivelano che il prurito ha una parte dedicata nel sistema nervoso, che si estende dallo strato esterno della pelle fino ai centri superiori del cervello. Il prurito classico La forma pi� conosciuta di prurito compare quando il corpo reagisce a un semplice morso di zanzara. Dopo aver estratto il suo pasto, l'insetto lascia dietro di s� sostanze ed enzimi riconosciuti come estranei dal nostro sistema immunitario, che organizza una reazione dove � avvenuto il morso. Le cellule immunitarie circolanti rilasciano citochine, minuscoli messaggeri chimici che intensificano la risposta immunitaria. Viene percepito un primo sentore di prurito sulla pelle, sufficiente per indurre a grattarsi. Questo gesto danneggia lo strato protettivo esterno dell'epidermide, e a quel punto le cellule immunitarie rilasciano un'ondata di istamina, una sostanza importante nell'induzione del prurito, insieme ad altri pruritogeni. L'istamina attiva i suoi recettori situati nelle terminazioni fini dei nervi sensoriali nella pelle scatenando la familiare sensazione di prurito. Oppure no? Si � scoperto che l'istamina ha un ruolo meno importante nel prurito rispetto a quello ipotizzato dai ricercatori. Ancora una decina d'anni fa i recettori dell'istamina erano gli unici rivelatori conosciuti del prurito, e cos� gli attuali farmaci antistaminici restano il trattamento d'elezione per questo disturbo, insieme con gli steroidi usati per sedare l'infiammazione. Ma i ricercatori sospettano da tempo che altre sostanze, oltre alla stessa istamina, debbano scatenare altri tipi di prurito: per la ragione principale che, per molti pazienti, gli antistaminici non sono di sollievo. Gli antistaminici sono di aiuto in alcune reazioni allergiche ma non per la maggior parte di pruriti cronici, dice Lerner. "I medici aumentano la dose, e funziona solo perch� porta a sonnolenza nel paziente". Questa � stata l'esperienza di Nicole: un medico dopo l'altro le ha prescritto gli steroidi, che le hanno fatto prendere rapidamente una decina di chili; per non parlare della lista di antistaminici, rivelatisi inutili per il prurito. "Solo il Benadryl mi era stato di aiuto, e solo perch� mi aveva calmato fino a farmi dormire", commenta la donna. Per scoprire nuovi recettori del prurito gli scienziati hanno seguito la pista di oscure sostanze note per scatenare il prurito, senza coinvolgere l'istamina. La prima scoperta � stata Mucuna pruriens, una pianta usata come ingrediente nelle polveri pruriginose vendute nei negozi di regali. "Quando si applica sulla pelle, l'istamina causa una pura sensazione di prurito", spiega Lerner. "Ma se parlate con i pazienti affetti da eczema, loro vi descriveranno una sensazione di prurito perforante o bruciante: la stessa che provoca Mucuna pruriens". Negli anni cinquanta il compianto Walter Shelley, pioniere nelle ricerche sul prurito, aveva ipotizzato che il fattore irritante di Mucuna pruriens fosse un enzima che taglia le proteine, una proteasi che lui stesso chiam� mucunaina. Nel 2008 quell'intuizione � stata finalmente confermata. � avvenuto quando Lerner ha scoperto che la mucunaina attivava un recettore scoperto nella pelle e nelle cellule nervose: il recettore attivato dalla proteasi-2 (PAR2). Alcune proteasi - mucunaina inclusa - possono tagliare via un minuscolo frammento della proteina PAR2, attivando il recettore. Quella scoperta ha permesso di rivalutare che proteasi e frammenti di peptidi da esse prodotti sono i mediatori decisivi del prurito, al livello di PAR2 e di altri recettori. Le proteasi si trovano ovunque, anche nella saliva degli insetti e nelle secrezioni batteriche. Questo spiega perch� le punture degli insetti e le infezioni possono essere tanto irritanti. Il secondo indizio per la scoperta di nuovi recettori del prurito l'ha offerto la clorochina, un farmaco concepito per proteggere l'uomo dalla malaria. Per paradosso, il farmaco previene la malattia ma causa il prurito. L'effetto collaterale, non alleviato dagli antistaminici, induce molti africani a rischio a rifiutare la clorochina, sebbene questa sostanza sia diventata per i ricercatori un prezioso strumento per studiare il prurito. Uno dei ricercatori era Xinzhong Dong, che lavorava nel laboratorio di David Anderson al California Institute of Technology. Nel 2001 Dong ha scoperto una famiglia di recettori, attivati da sostanze sconosciute, chiamati Mrgpr (mas-related G-protein-coupled receptors). Alcuni Mrgpr sono stati individuati esclusivamente nei neuroni sensoriali. Ci� ha indotto a pensare che rilevassero stimoli esterni. Di quale tipo, per�, rimaneva un mistero. Dong ha applicato la clorochina a cellule contenenti i Mrgpr per verificare se questi ultimi avessero i requisiti dei recettori del prurito ancora da scoprire. In una ricerca pubblicata nel 2009 Dong, oggi alla Johns Hopkins University, e Anderson hanno creato topi transgenici privi di uno degli Mrgpr individuati nelle cellule sensoriali, un recettore chiamato MrgprA3. Come spiega lui stesso, "i topi normali mostravano un intenso riflesso di grattamento dopo essere stati trattati con clorochina". La risposta per� era assente nei topi transgenici privi di MrgprA3. "Senza MrgprA3, gli animali semplicemente non provano la sensazione di prurito. � stato il nostro punto di svolta", commenta Dong. Sono state inoltre scoperte altre due proteine della famiglia Mrgpr che rispondevano a sostanze pruritogene. Grazie a queste due bizzarre sostanze, i ricercatori hanno scoperto i primi nuovi sensori del prurito da quando, un secolo fa, venne descritta l'istamina. "Ma il punto non era scoprire il recettore della clorochina o della Mucuna; la vera questione era capire che cosa attiva questi neuroni del prurito non istaminici nei disturbi da prurito cronico", commenta Diana Bautista, ricercatrice sul prurito all'Universit� della California, a Berkeley. Ora i ricercatori vogliono identificare queste sostanze. E, come spiega Lerner, "probabilmente nella pelle esiste un numero limitato di molecole che attivano i Mrgpr. Scoprirle aprir� la strada a bersagli e a terapie farmacologiche molto efficaci". Un collegamento con il dolore? Un altro modo in cui i ricercatori cercano di arrivare a una piena comprensione del prurito � considerare quali sono i circuiti del sistema nervoso che vi rispondono, e questo spinge inevitabilmente a indagare qual � la causa del dolore. Gi� nei primi anni sessanta gli scienziati avevano compreso che vari neuroni della sensibilit� al dolore, che rilevano stimoli potenzialmente nocivi, erano distinti da altri neuroni sensoriali: alcuni sono specializzati per rilevare il calore, altri il freddo, altri ancora la pressione meccanica. Ma il prurito? I neuroni della sensibilit� al dolore percepiscono anche il prurito o ci sono neuroni specializzati nella sua percezione? E in caso affermativo, ne esistono pi� tipi? "Esiste uno stretto rapporto tra prurito e dolore", spiega Bautista. Quando il dolore di una ferita in via di guarigione diminuisce, lascia sulla sua scia un prurito, come fanno alcune medicine per alleviare il dolore. E il dolore indotto dal grattarsi pu� far svanire il prurito. Questa sovrapposizione tra i sensi ha indotto alcuni ricercatori ad accomunare dolore e prurito. "Si pensava che uno stimolo inferiore - un maglione di lana pizzicante per esempio - attivasse gli stessi recettori e le stesse cellule che trasmettono il dolore", aggiunge Bautista. Secondo la teoria, un'attivazione lieve evoca il prurito; gli stimoli pi� intensi producono invece il dolore. Eppure, nessuna quantit� di istamina - o di mucunaina o di clorochina - genera sensazioni di dolore. Viceversa, stimoli dolorosi producono solo gradazioni di dolore, ma non prurito; e i neuroni sensibili al dolore vanno molto pi� in profondit� della pelle, l'unica sede dove il prurito viene percepito. In anni recenti, la teoria dell'intensit� si � via via affievolita, e buona parte dei ricercatori ha ritenuto che il prurito fosse trasmesso da nervi e recettori dedicati a questa sensazione. Gli scienziati hanno inoltre ipotizzato l'esistenza di molteplici tipi di neuroni per la sensazione di prurito, ciascuno dei quali percepisce differenti stimoli di prurito. "La vera domanda sollevata dalla mucunaina era: c'� pi� di un tipo di prurito, come c'� pi� di un tipo di dolore?". Per Lerner, "la risposta � affermativa". Tuttavia nel 2003 alcuni ricercatori tedeschi e svedesi avevano messo in dubbio l'esistenza di nervi specializzati nella percezione del prurito, dopo avere scoperto che singole cellule nervose umane, capaci di attivarsi in risposta all'istamina, erano attivate anche da un calore doloroso e dalla capsaicina, l'ingrediente che d� la sua vivacit� al peperoncino. La doppia responsivit� suggeriva che le presunte cellule nervose dedicate alla percezione del prurito contenessero il recettore della capsaicina, un marcatore dei neuroni sensibili al dolore chiamato TRPV1 (recettore vanilloide di tipo 1 a potenziale transitorio). Se i neuroni del prurito contenevano il TRPV1 sensibile al dolore, come potevano essere specifici per il prurito? Allan Basbaum, ricercatore sul dolore dell'Universit� della California a San Francisco, ha scoperto che il TRPV1, nonostante la sua fama di recettore del dolore, era necessario anche nel prurito causato da istamina, dimostrando cos� che i canali TRP non si limitavano alla rilevazione degli stimoli dolorosi. Il recettore dell'istamina sembra operare di concerto con TRPV1 per indurre i neuroni a trasmettere un impulso nervoso elettrico, il potenziale d'azione. Tuttavia, altri agenti del prurito non istaminici complicavano il quadro, poich� non operavano mediante TRPV1. Intanto Bautista, che ha dedicato la carriera a studiare i recettori TRP, era alla ricerca delle molecole che trasmettono segnali di prurito non istaminici. La scoperta di Basbaum che TRPV1 era coinvolto nello scatenare il prurito da istamina diede a Bautista un indizio: forse altri canali TRP-correlati erano implicati in altri tipi di prurito. La ricercatrice si � concentrata su un altro recettore della percezione del dolore, TRPA1, che rileva sostanze infiammatorie e l'olio di senape, e ha scoperto che questo recettore era necessario per il prurito mediato da clorochina. A un convegno del 2009, un'ora dopo avere presentato quel risultato, Bautista ha ricevuto una telefonata da Dong. A quel punto i due ricercatori hanno deciso di collaborare. Dong e Bautista avrebbero in seguito dimostrato che TRPA1 e Mrgpr3 lavorano insieme nel far scaricare i neuroni come risposta alla clorochina. "Quella scoperta aveva rinforzato la tesi dell'esistenza di popolazioni distinte di neuroni mediatori di tipi differenti di prurito", racconta Bautista. Aveva aperto una nuova strada per potenziali trattamenti anti-prurito. E, come lei stessa spiega, "TRPA1 � un obiettivo di estremo interesse, importante com'� in molti tipi di disturbi infiammatori, prurito incluso. Se riuscissimo in qualche modo a inibire TRPA1 nelle persone, sarebbe assai utile dal punto di vista terapeutico". A questo punto, gli innumerevoli studi erano sufficienti per dimostrare che i recettori sensibili al dolore concorrevano alla percezione del prurito. Ma l'assillante domanda continuava a essere l�: le singole cellule sensoriali sono specializzate nella trasmissione del prurito, oppure delle cellule sensibili al dolore possono in qualche modo trasmettere entrambi i tipi di stimolo? Dong ha affrontato questo enigma in uno studio del 2013. Il suo gruppo di ricerca ha creato topi transgenici in cui erano stati selettivamente uccisi i presunti neuroni del prurito: quelli contenenti il recettore del prurito MrgprA3, da poco descritto. Perdendo queste cellule, i topi perdevano anche la capacit� di percepire il prurito. La sensazione del dolore rimaneva per� intatta. Dong per� doveva ancora dimostrare che i sensori del prurito erano esclusivi di questa sensazione e non percepivano il dolore. Con un uso elegante della genetica dei topi, lo scienziato ha creato roditori privi di TRPV1 in tutti i neuroni, tranne nei presunti neuroni del prurito. Quando i ricercatori hanno attivato TRPV1 con capsaicina - uno stimolo normalmente doloroso - i topi hanno manifestato esclusivamente prurito, e non dolore. Questo risultato ha rinforzato la tesi a favore di neuroni specifici del prurito e dimostrato che quelle cellule usano alcuni degli stessi sensori dei nervi sensibili al dolore. Per quale ragione? "Perch� la natura ha semplicemente riusato quelle molecole per entrambe le sensazioni", spiega Dong. Questi progressi sono derivati da studi dei neuroni sensoriali che innervano la pelle. Tuttavia i complessi circuiti del prurito si estendono al midollo spinale, dove i ricercatori hanno recentemente scoperto neuroni e molecole segnale dedicati esclusivamente al prurito. Gli scienziati inoltre usano neuroimmagini per capire meglio come l'attivit� neurale produce la sensazione unica - e a dir poco irritante - di prurito. Quanto a Nicole, la donna � stata finalmente liberata dal prurito cronico a fine 2013, quando si � recata dal decimo specialista, un eminente dermatologo che visita pazienti affetti da un prurito intrattabile e inspiegato. Il medico ha eseguito un ampio patch test (o test epicutaneo) allergico sulla schiena della donna. Il test ha dimostrato che Nicole era allergica a un conservante incluso nei prodotti per la pulizia e la cura del corpo. "Era in ogni cosa che usavo", racconta lei. Dopo essersene liberata e aver cominciato a usare prodotti di un elenco approvato, lo sfogo - e il prurito - sono scomparsi. Il caso di Nicole illustra fino a che punto sia mal interpretato il prurito dal personale medico: un semplice test aveva rivelato una soluzione facile, ma solo dopo tre anni di sofferenze. Inoltre sottolinea anche l'importanza di scoprire le cause sottostanti, e rivela perch� le complessit� molecolari di questa sensazione semplice continuano a generare nuovi enigmi.