Luglio 2018 n. 7 Anno III Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Copia in omaggio @Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri per un importo pari ad euro 23.084,48 e del MiBACT per un importo pari ad euro 4.522.099. Indice Chiusura per ferie Marx duecento anni dopo Cittadini, clienti... anzi utenti Che stress al lavoro... Il re della discordia Chiusura per ferie Informiamo i nostri gentili lettori che la Biblioteca rimarr� chiusa per le ferie estive dal giorno 13 al giorno 17 agosto 2018 e riaprir� luned� 20. Preghiamo coloro che si servono, per il recapito dei volumi Braille, del Corriere Espresso Bartolini di non restituire le opere durante tale periodo, al fine di evitare che alla Biblioteca vengano addebitati i costi di giacenza. Con l'occasione, formuliamo a tutti i nostri pi� sinceri auguri di buone vacanze. Marx duecento anni dopo (di Maurizio Ricciardi, "il Mulino" n. 496/18) Nel 2018 cade il secondo centenario dalla nascita di Karl Marx. Si tratta di una data essenziale per ripercorrere gli studi marxiani degli ultimi decenni, a cui tuttavia se ne devono aggiungere altre. La prima � il triennio 1989-1991 che, oltre ad aver sancito il fallimento del socialismo reale, sembrava anche aver decretato la catastrofe del pensiero al quale esso faceva riferimento. La seconda � il 2001 quando, con la prima crisi politica della globalizzazione capitalistica, l'opera di Marx viene riscoperta per la centralit� che essa riconosce al mercato mondiale nella costituzione stessa del capitalismo. Il 1989 aveva peraltro segnato anche la crisi della gestione "sovietica" della pubblicazione delle opere complete di Marx e Friedrich Engels (la Marx-Engels-Gesamtausgabe, "Mega"), che negli anni Novanta � proseguita su basi profondamente rinnovate anche dal punto di vista delle scelte editoriali. In verit�, gi� a partire dai Settanta era iniziato un processo di revisione dell'opera marxiana che, con intenti profondamente diversi da quelli del revisionismo classico, aveva finito per rompere definitivamente l'unit� sistematica che le veniva attribuita dall'ortodossia dominante. Due volumi lontani nel tempo e negli intenti, ma con titoli quasi simili, valgono come momenti di questo processo. Il primo � Marx oltre Marx di Antonio Negri, che segna il punto di arrivo della stagione del marxismo teorico operaista in Italia inaugurata da Operai e capitale di Mario Tronti; il secondo � il pi� recente �ber Marx hinaus, che raccoglie i contributi di diversi studiosi e mira a mettere l'opera di Marx di fronte alle trasformazioni dei rapporti di lavoro nel XXI secolo. Rileggendo Marx, questa nuova revisione si assegna il compito di mostrare i limiti del suo pensiero e di liberare Marx dal marxismo, spingendone la lezione oltre i limiti della sua epoca per collocarla all'interno del mondo globalizzato, postcoloniale, neoliberista e postsocialista. Se il nuovo ordine mondiale si presenta come un sistema chiuso e privo di alternative plausibili, al punto da pretendere persino di rappresentare la fine della storia, gli spettri di Marx, come scrive Jacques Derrida, si ripresentano come un'ossessione impossibile da esorcizzare, perch� impedisce di affermare che il presente � contemporaneo a se stesso. I ritorni di Marx mostrano che, nonostante la chiusura neoliberale, il tempo del capitalismo �, come dice lo spettro del padre di Amleto, out of joint, fuori di s�, cio� carico di tutte quelle contraddizioni politiche e sociali che afferma di aver definitivamente superato. Se Marx pu� presentarsi come perturbante all'interno della storia del capitale � perch� � stato profondamente ripensato il suo rapporto con la storia, fino a mettere in discussione la versione engelsiana del materialismo storico che non d� ragione delle molteplici temporalit� rintracciabili all'interno dell'opera marxiana. Daniel Besa�d sostiene che Marx � consapevole che la storia del capitale non � orientata meccanicamente al futuro, che non si pu� fare conto su alcuna fatalit� storica favorevole, perch� non c'� un tempo progressivo del capitale. L'indagine marxiana viene sempre pi� considerata come espressione di un multiverso storico che non assume la rivoluzione e il comunismo quali fini necessari e quasi ineludibili della storia, come sembra pensare ancora tra gli altri Jonathan Wolff. Marx sarebbe invece un pensatore eccentrico rispetto all'evoluzionismo e il progressismo ottocentesco, costantemente attento a cogliere il significato e le opportunit� politiche delle contingenze storiche. La "Marx Renaissance" che ha avuto luogo dopo il 2001 pu� essere divisa nei testi che tornano a considerare le categorie del primo libro del Capitale e quelli che invece si concentrano sul Marx successivo al 1867. Tra i primi vanno almeno menzionati i protagonisti della cosiddetta Neue Marx-Lekt�re, i quali, in una intenzionale indifferenza rispetto alle trasformazioni storiche contemporanee, tornano alla lettera del testo marxiano, mirando a svilupparlo ulteriormente dove a loro avviso presenta delle carenze logiche. In questo modo, il capitale viene presentano come un "soggetto automatico" che non lascia alcuno spazio all'azione soggettiva all'interno di un sistema sociale che � totale per la sua capacit� di anticipare ogni opposizione. Su di un piano diverso, attento ai problemi filologici ma anche alle sfide storiche, si pongono le lezioni di Wolfgang Fritz Haug sul Capitale e sui diversi modi di leggerlo. Un discorso diverso merita l'opera di popolarizzazione dello stesso testo marxiano effettuata da David Harvey, che ha avuto non solo una notevole fortuna editoriale, ma anche una enorme diffusione in Rete fino ad approdare nel 2015 alla Biennale di Venezia. Al di l� delle singole scelte interpretative, Harvey riprende le categorie marxiane per descrivere le forme contemporanee di valorizzazione del capitale. Quella che lui chiama "accumulazione per spossessamento" d� conto dei modi in cui la governance neoliberista modifica le condizioni politiche e giuridiche dell'accumulazione, producendo essa stessa costantemente delle eccezioni alle simmetrie del mercato. Pur essendo evidentemente il baricentro ineliminabile di tutta l'opera marxiana, il primo libro del Capitale � cos� divenuto paradossalmente anche uno spazio di confine. Nella sua biografia intellettuale di Marx, Gareth Stedman Jones sostiene infatti che non siano state le difficolt� esistenziali pure evidenti e nemmeno gli impegni politici con l'Internazionale e poi a ridosso della Comune di Parigi a impedire il completamento del progetto teorico marxiano di critica dell'economia politica. Il secondo e il terzo libro del Capitale non sarebbero mai stati pubblicati perch� l'evoluzione della societ� capitalistica stava contraddicendo le prognosi marxiane. Marx avrebbe verificato che non era all'opera un'irresistibile tendenza all'autodissoluzione della societ� del capitale. La caduta tendenziale del saggio di profitto non apriva la possibilit� di una crisi generale in grado di innestare l'attesa rivoluzione. Il successo globale del capitalismo gli ha imposto cos� di tornare a considerare le condizioni sociologiche, storiche e antropologiche che ne avevano ormai permesso l'affermazione. Stedman Jones si pone quindi nel solco seguito negli ultimi anni da studiosi come Kevin B. Anderson e Marcello Musto, che si sono concentrati sull'ultimo Marx, quello che studia quanto avviene ai margini dello spazio capitalistico europeo, al quale viene cos� implicitamente negata la centralit� che gli era stata in precedenza riconosciuta. Non solo gli articoli su India, Russia e Cina, ma anche l'analisi della guerra civile americana vengono riscattati dal ruolo secondario che prima la storiografia assegnava loro. Essi non sono pi� considerati come il frutto di un'occupazione giornalistica occasionale, pi� subita che scelta, ma il laboratorio in cui Marx verifica il carattere globale delle leggi della produzione capitalistica. Non a caso la celebre lettera di Marx a Vera Zasulic, nella quale egli nega che esista un unico cammino che tutti i Paesi devono percorrere per uscire dal capitalismo, e le varianti presenti nella traduzione francese del Capitale, direttamente rivista da Marx, sono diventate dei passaggi quasi obbligati per tutti quegli studi che puntano a mettere in discussione non solo il determinismo storico che a lungo � gravato sui testi marxiani, ma anche l'idea conseguente che il punto pi� alto dello sviluppo capitalistico dovesse essere inevitabilmente anche quello in cui la rivoluzione avrebbe avuto luogo. Oltre al Marx attento alle differenti geografie del capitale, queste ricerche fanno riemergere anche il Marx che attraversa pressoch� tutti i campi disciplinari delle nascenti scienze sociali. Thomas C. Patterson pu� cos� aprire il suo studio con la perentoria affermazione: "Marx � stato un antropologo". Gli studi etnologici dell'ultimo Marx, di recente tradotti anche in italiano, sono sempre pi� studiati per individuare la sua critica dell'antropologia fondamentale della modernit�. In essi, infatti, emerge una linea che risale ai Grundrisse, che punta a mostrare il carattere storico e quindi contingente dell'individuo proprietario e bianco come soggetto implicitamente presupposto dalla modernit� politica. Ci� comporta per converso l'identificazione di una moltitudine di figure che, sebbene non si presentino immediatamente come soggetto rivoluzionario, storicamente sono entrate in maniera conflittuale nel rapporto sociale di capitale essendo materialmente escluse dai benefici dello sviluppo capitalistico. Ci� implica la registrazione che la transizione al capitalismo non � avvenuta solo in Europa grazie al superamento del feudalesimo, ma anche in altre parti del mondo dove il dominio coloniale si � incaricato di imporre con la violenza economica e statale le regole e le gerarchie della produzione capitalistica. Per Harry Harootunian, non si tratta di individuare una genesi diversa del capitalismo, ma di registrare come le condizioni che le sociologie dello sviluppo un tempo definivano come arretrate sono sempre state e sono ancora necessarie alle sue dinamiche globali. Come ha mostrato Roberto Finelli la svalorizzazione del lavoro non � un dato accidentale e transitorio, ma il modo stesso di esistenza di un modo di produrre che fa del lavoro astratto il sintomo di un'indifferenza rispetto al singolo lavoro, mentre pretende di annullare lo spazio di ogni intervento soggettivo. Non a caso molti studi marxiani degli ultimi decenni hanno indagato il modo in cui quella che Marx alla fine del Primo libro del Capitale definisce la "cosiddetta accumulazione originaria" non possa essere confinata all'alba del capitalismo, ma si ripresenti costantemente con il suo carico di sopraffazione, violenza e sfruttamento anche all'interno degli schemi di riproduzione e circolazione del capitale descritti nel Secondo libro. Saremmo quindi di fronte a una geografia differenziata alla quale corrisponde una moltiplicazione delle figure sociali che subiscono l'irruzione e l'affermazione del modo di produzione capitalistico. Questa moltitudine non consente di pensare l'esistenza di un soggetto rivoluzionario preordinato che viene prodotto dallo stesso sviluppo capitalistico. Ci� non significa tanto negare la centralit� del rapporto di lavoro salariato nella definizione stessa del capitalismo, quanto piuttosto riconoscere che nei testi marxiani la classe operaia non � l'espressione sociologica del proletariato di fabbrica, ma una figura politica che si costituisce all'interno del processo della sua liberazione. Proprio per rispondere a questo problema politico, che � il vero punto di connessione tra gli scritti teorici e quelli storici di Marx e che trova la sua evidenza empirica nella sua stessa attivit� politica, nella letteratura marxiana degli ultimi due decenni ha assunto un'importanza difficile da sottovalutare il rapporto con l'opera di Michel Foucault. Gi� la presenza di Marx nell'opera del filosofo francese � ormai analizzata da un'ampia letteratura. Ci� che qui per� rileva sottolineare � come attraverso Foucault abbia trovato espressione la consapevolezza che nei processi di assoggettamento sono sempre contemporaneamente anche dei processi di soggettivazione. Il ponderoso volume di Pierre Dardot e Christian Laval, che rappresenta senza dubbio il pi� ambizioso tentativo recente di ripensare l'opera di Marx nel suo complesso, � l'espressione sintomatica di questa posizione. Marx non compare esclusivamente come l'analista preciso e persino anticipatore del modo di produzione capitalistico con le sue leggi e le sue contraddizioni, ma come colui che ha individuato nella societ� lo spazio di una lotta che non avviene tra soggetti predeterminati dalla posizione che occupano al suo interno. Egli avrebbe cos� individuato spazi di soggettivit� che sono sempre determinati dalla resistenza allo sfruttamento che in essi necessariamente ha luogo. Come mostra Sandro Mezzadra, la lotta di classe non � intesa da Marx come una guerra condotta in vista dello scontro finale e che ha come suo unico scopo l'appropriazione del potere dello Stato per poterlo usare a proprio vantaggio. Lotta di classe � il nome di un insieme complesso di strategie che si rivolge tanto contro gli apparati formali di potere, quanto - e forse anche di pi� - contro le forme di dominio su cui il capitale si regge. Cittadini, clienti... anzi utenti (di Massimo Negrotti, "Prometeo" n. 115/11) - Perch� assistiamo a una diffusione capillare del termine "utente" nel linguaggio politico come nella rete. - La vita sociale quotidiana sviluppa spesso impercettibili ma inesorabili rivoluzioni, talvolta ad iniziare dal puro livello linguistico. Soprattutto in un'epoca caraterizzata da una forte presenza delle comunicazioni di massa, alcuni termini prendono gradualmente il sopravvento a causa del significato che essi sembrano veicolare rispetto ad altri percepiti come desueti. Talvolta si tratta di puri e semplici fenomeni di imitazione e diffusione, spesso molto rapida, di locuzioni assunte in modo acritico ma ritenute sufficientemente allusive o come sostituti aggiornati di espressioni pi� tradizionali. Per esempio, non solo nel contesto italiano, si veda la popolarit� di termini quali "struttura", "sistema", "sinergia", "filiera" e cos� via, adottati sulla spinta di motivazioni vagamente intellettuali oppure come se il loro impiego fosse percepito quale obbligo gergale ineluttabile, nonostante la loro semantica rimanga per i pi� del tutto indefinita. Non a caso, concetti, oggetti o entit� universalmente percepiti come molto rilevanti (basti pensare a termini quali Dio, democrazia, libert� e altri) ben pi� difficilmente e con maggiore lentezza possono invece subire qualche tipo di aggiornamento (cosa accaduta, per esempio, al termine "Patria"), indipendentemente dai giudizi di valore che chi parla attribuisce loro. Il caso del termine "utente" (in inglese user, in tedesco Benutzer, in francese utilisateur, in spagnolo usuario) � quanto mai interessante al riguardo proprio perch� la sua diffusione non pare essere attribuibile esclusivamente a tendenze di moda linguistica. In effetti, esso assume come termine cui sostituirsi un concetto tradizionale o addirittura classico di grande rilievo dottrinario: il "cittadino", o uno di indole socio-economica altrettanto universale, ossia il "cliente". Un'attenta analisi di sociologia del linguaggio porterebbe rapidamente alla luce il successo crescente, almeno nel contesto italiano, di questa espressione antica (deriva dal latino utens cio� "colui che usa") ma, fino a poco tempo fa, impiegata quasi esclusivamente in riferimento ai servizi pubblici per cui eravamo tutti utenti delle aziende fornitrici di energia elettrica, del gas o, pi� tardi, dei servizi di telefonia. Sempre pi� spesso, in effetti, si sente parlare o si legge dell'utente in ambiti assai diversi e secondo uno spettro in espansione. Capita, cos�, di ritrovare l'utente nei rapporti con la sanit� e con i musei, con la scienza e con l'assistenza sociale, con le banche e persino la giustizia. Qualche anno fa, un giornalista della RAI, rispondendo ad un prelato in merito al digiuno proclamato da papa Wojtila a favore della pace, diceva trattarsi di "...un invito effettivamente rivolto a tutti i cattolici; del resto � quello, se mi si consente un termine, diciamo, un po' laico, il bacino di utenza al quale papa Wojtila deve far riferimento". Il contagio linguistico, d'altra parte, induce l'impiego del termine anche quando, avvertendone la inappropriatezza, il redattore adotta le virgolette, come nel caso di un sacerdote della CEI quando, nel 2003, scriveva "...abbiamo la responsabilit� di accompagnarli dalla condizione di "utenti" della Messa domenicale (...) alla condizione di cristiani adulti nella fede". A sua volta, un noto giornalista, discutendo col ministro della Pubblica istruzione, poneva al centro del suo argomentare gli utenti della scuola (indicati nei genitori e negli allievi). Utenti sono anche gli immigrati che si rivolgono ai vari centri di accoglienza, cos� come lo sono i visitatori di una biblioteca, gli spettatori televisivi o teatrali, i visitatori di un cimitero o i detenuti e, leggendo la dichiarazione di un'esperta del settore apparsa in Internet nel 2005, persino i clienti del sesso a pagamento. Inutile poi parlare, per l'estrema evidenza del fenomeno, della larga adozione del termine utente nei riguardi dei servizi pi� disparati, da quelli classici sopra menzionati a quelli di pi� recente introduzione, come i vari call center o le agenzie private o pubbliche di collocamento, i centri di consulenza fiscale o di altra natura. Nella sala d'attesa di una ASL lombarda � possibile leggere un avviso per il quale "l'utenza � pregata di non lasciare giacche, borse ecc.", una formulazione non solo concettualmente impropria (come pu�, un soggetto astratto e collettivo, come l'utenza, possedere giacche o borse?) ma anche decisamente sgradevole sotto il profilo del buon italiano. Cosa significa tutto questo? Come abbiamo anticipato sopra, un'ipotesi ragionevole � che il termine utente tenda a sostituirsi, nel contempo, a due termini diversi, quello di cittadino e quello di cliente. Il primo ha caratterizzato tutta la dottrina politica da S. Boezio a T. Hobbes, da J. Bodin a J.J. Rousseau ad A. Smith, fino a porsi ancora oggi, ufficialmente, come concetto fondamentale e tradizionale che designa l'individuo nelle sue relazioni con lo Stato. Il presidente della Repubblica certamente non si rivolgerebbe, almeno per ora, agli italiani chiamandoli "utenti" cos� come qualsiasi grossa casa automobilistica usa solo sporadicamente questo termine per riferirsi ai suoi clienti. Il cittadino, sin dai tempi della Roma antica, � sede di diritti e doveri, e non utente. Il cliente, da parte sua, � chiunque instauri una transazione commerciale, chiunque, in altre parole, acquisti un bene o un servizio, indipendentemente dal fatto che si tratti di qualcosa da usare o semplicemente da possedere o magari contemplare nel proprio salotto. L'utente sembra porsi a mezza strada o, per essere pi� precisi, su un altro piano rispetto al cittadino e al cliente. L'utente � colui che, avendone titolo - per esempio in quanto cittadino o cliente - acquisisce l'uso di qualcosa o, addirittura, di qualcuno della cui attenzione o del cui servizio pu� disporre, come accade in una banca o in un ufficio turistico. L'utente � certamente e pregiudizialmente sede di diritti e, in questo, si colloca vicino al cittadino, anche se non se ne indicano mai i doveri, ma non ne richiama la rilevanza etico-politica, col suo carico storico e dottrinario. In altre parole, non esiste alcuna tradizione di pensiero che abbia posto a proprio oggetto di studio, n� positivo n� normativo, il concetto di utente. Allo stesso tempo, l'utente sembra avvicinarsi al cliente quando c'� di mezzo un pagamento ma non quando si tratta di imposte poich�, in questo caso, egli torna ad essere, pi� che altro, cittadino o, pi� propriamente, contribuente. Forse, a causa della ridondanza e della retorica che hanno troppo spesso avvolto il cittadino nei discorsi pubblici, si fa largo un suo sostituto percepito, da chi lo adotta, come pi� concreto e modernizzato. L'utente viene verosimilmente immaginato come un cliente nobilitato da un'aura di indefinita ma condivisa legittimit� funzionale, fino a giocare il ruolo di perno di una nuova cittadinanza. Non � improbabile che, a questo proposito, avesse ragione il sociologo Thomas Marshall quando, agli inizi del secolo scorso, osservava che lo status di cittadino, sostituitosi a quello, solo passivo, di suddito, abbia vissuto un costante ampliamento (diritti civili, poi politici e sociali). Ci� potrebbe essere alla base del suo attuale tendenziale superamento da parte dell'utente che sembra voler attribuire un valore aggiunto di indole pragmatica alle prerogative del cittadino, considerate un traguardo ormai perseguito ma insufficiente o inadatto ad esprimere la poliedrica natura delle relazioni sociali nei contesti attuali, in particolar modo se mediate da numerosi e crescenti processi di ordine tecnologico. In breve, poich� una macchina qualsiasi si "usa" e poich� le macchine con cui abbiamo a che fare sono di numero crescente, l'estensione del termine utente ai membri di una collettivit� modernizzata diviene un fatto quasi del tutto naturale, indipendentemente dai termini e dai concetti consolidati che, tale estensione, finisce per eliminare o quanto meno eclissare. Simmetricamente, si pu� inoltre sostenere che l'utente viene percepito come un cittadino il quale, anche nei confronti dello Stato, grazie al pagamento delle imposte, acquisisce gli stessi diritti e garanzie di un cliente nel momento in cui acquista qualcosa, accentuando in questo modo il fondamento pragmatico o persino schiettamente utilitaristico delle relazioni degli individui con le istituzioni pubbliche. Ci� che si eclissa, in questo processo, non � solo una possibile, anche se non augurabile, concezione etica dello Stato ma, prima ancora, l'eticit� dei nostri rapporti con la "cosa pubblica", cio� con uno Stato il quale, alla fine, viene percepito fondamentalmente come "provveditore", "risarcitone", "elargitore" di beni, di servizi, quando non, pi� esplicitamente, di risorse monetarie. Ad ogni modo, l'origine della tendenza linguistica in oggetto � sicuramente da reperirsi nella diffusione delle tecnologie avanzate, dove il concetto di utente ha visto, nel secondo dopoguerra, la propria fondazione pi� chiara e canonica in particolare nel mondo anglosassone. Gli user studies costituiscono, infatti, un'area fra le pi� decisive nello stabilire modelli e teorie capaci di orientare lo sviluppo di modelli ergonomici, interfacce, hardware e software, che mettano in grado gli esseri umani di usare, appunto, le macchine sempre pi� complesse di cui disponiamo e disporremo. In Internet, poi, il termine user � stato definitivamente consacrato, divenendo d'impiego universale. La presenza del termine in questione � decisamente vasta e riguarda aree assai eterogenee. Si badi che la ricerca in Internet finalizzata a supportare le nostre affermazioni � stata effettuata per mezzo di stringhe testuali quali "utente\i del\della\di" capaci di rilevare impieghi della parola cercata senza equivocarne il significato. In questo senso, va decisamente sottolineato il valore sociologico dell'enorme quantit� di testi disponibili in Internet. Il loro spettro include infatti pressoch� ogni possibile modalit� espressiva - da quelle pi� formali e istituzionali a quelle pi� informali e spontanee - secondo una distribuzione statistica che sicuramente � da ritenersi altamente rappresentativa della produzione lessicale contemporanea in un dato contesto linguistico e sociale. Pi� ancora rilevante � la presenza del termine utente nei siti dei comuni italiani nei quali, anche se il sindaco non accederebbe facilmente, crediamo, all'uso della parola in questione rivolgendosi ai propri concittadini, l'amministrazione ne fa largo impiego in tutte le sue comunicazioni pubbliche a stampa o elettroniche. Di fatto, � come se una "mano linguistica invisibile" guidasse i redattori nella scelta dei termini da ritenersi pi� appropriati secondo una valutazione comparativa fra i vari vocaboli possibili, col risultato che, nella fattispecie, il termine "cittadino" tende in molte circostanze ad essere relegato in posizioni di retroguardia. Il termine utente, d'altra parte, non raramente allude direttamente al cittadino in quanto interlocutore dell'Ente locale tramite il computer. Da questa circostanza puramente di comodo, d'altra parte, il suo uso sconfina facilmente nei rapporti generali del cittadino con le pubbliche istituzioni locali e magari centrali. In altre parole, in una prima fase il sito si rivolge al cittadino come user, tradotto correttamente nell'italiano "utente", per ragioni strettamente legate al gergo invalso nell'interazione telematica in quanto tale; in una seconda fase, il sito generalizza l'impiego del termine adottandolo progressivamente come sostituto permanente del termine "cittadino" in crescenti sfere di presenza e attivit�. La diffusione della locuzione "utente" in sempre pi� vaste e lontane aree tematiche, quindi, denuncia un'accelerata evoluzione verso una concezione politico-sociale de facto decisamente pragmatica. Questa pare fondarsi su una definizione tacitamente condivisa della relazione sociale in quanto relazione d'uso: una relazione in cui efficienza ed efficacia, prevedibilit� della risposta, responsabilit� dei ruoli sembrano porsi come i valori principali sulla base della natura - magari intesa come scontata ma, di fatto, posta in ombra - dei diritti e doveri del cittadino da un lato e delle prerogative del cliente dall'altro. Il linguaggio degli uomini politici, soprattutto ma non solo in ambito locale, privilegia il termine utente, verosimilmente, per il suo maggiore richiamo ad un'operativit� immediata, fondata su una sorta di nuova cittadinanza priva di retorica e orientata all'agire razionale. Siamo di fronte, insomma, ad una specie di ergonomia politica che, persino in riferimento allo Stato, esalta il valore operativo della relazione (mettendola, insomma, in condizione di "funzionare") piuttosto che attardarsi sui riferimenti ideali dei rapporti fra gli individui e lo Stato medesimo. Come conclusione provvisoria, potremmo affermare che il successo crescente dell'immagine dell'utente � un buon esempio di co-evoluzione della tecnologia e della societ� - col primato ora dell'una, ora dell'altra. D'altra parte, prendere atto di simili fenomeni fin dal loro stato nascente significa poterne valutare tempestivamente le conseguenze multiple prevedibili, cio� poter contribuire a delineare guadagni e perdite, in fatto di valori e principi, che potrebbero andare ben al di l� di un puro e semplice bilancio lessicale e investire, invece, aspetti di fondo ai quali, se fossimo consapevoli della loro oggettiva evoluzione, potremmo decidere di non voler rinunciare. Che stress al lavoro... (di Santo Di Nuovo, "Psicologia contemporanea" n. 223/11) - Statistiche recenti chiamano in causa lo stress nel 50% delle giornate lavorative perse nelle aziende europee. Le perdite, purtroppo, sono ingenti in termini economici, ma soprattutto in termini di qualit� del lavoro e di vita dei lavoratori. - La ricerca scientifica ha individuato da tempo una serie di lavori particolarmente a rischio di stress: tra essi ricordiamo i controllori di volo, gli autisti di mezzi pubblici, le forze dell'ordine, gli agenti penitenziari, i lavoratori turnisti, gli insegnanti, gli operatori della sanit� (specie in settori quali oncologia, psichiatria, dipendenze patologiche) e, fra le pi� recenti tipologie di lavoratori, gli addetti ai call center e, in generale, i lavoratori "atipici", il cui stress � causato oltre che dalla specifica mansione anche dalla costante incertezza che la "flessibilit�" del loro status lavorativo comporta. Le caratteristiche organizzative dei "nuovi lavori" in quest'ultimo decennio hanno talmente inciso sul disagio lavorativo che, nel 2007, l'Agenzia Europea sulla Sicurezza nel Lavoro ha ritenuto opportuno diffondere un decalogo (in molte parti, peraltro, criticato da varie associazioni datoriali) che fissa in maniera inequivocabile le dimensioni del rischio psicosociale: nuove forme contrattuali; contratti precari in ambito di lavoro instabile; maggiore vulnerabilit� dei lavoratori in un contesto globalizzato; produzione snella ed outsourcing; intensificazione del lavoro; aumento dell'orario di lavoro; invecchiamento della forza lavoro; sensazioni di insicurezza del posto di lavoro; elevato coinvolgimento emotivo; scarso equilibrio tra vita e lavoro. D'altra parte, la recente legge 81 del 2008, integrando la 626 del 1994 che prevedeva i rischi psicosociali tra le minacce alla sicurezza, e recependo un accordo europeo dell'ottobre 2004, prescrive che le aziende, sia pubbliche che private e di qualunque dimensione e tipologia, valutino i rischi da "stress lavoro-correlato", mettendo in atto interventi di prevenzione, riduzione ed eliminazione delle fonti di rischio di incidente, ma anche azioni volte a migliorare l'informazione e la formazione sui fattori di stress (art. 28). Per stress lavoro-correlato non si intende lo stress derivante da cause diverse dal lavoro, che per� il lavoratore trasferisce nel contesto lavorativo, e neppure condizioni estreme quali il burnout, esito finale e altamente distruttivo di una condizione di stress prolungato e non risolto, o il mobbing, che coinvolge specifiche situazioni per le quali esistono altre risposte istituzionali e medico-legali. Lo stress che la norma citata intende valutare e prevenire riguarda la discrepanza fra le richieste della mansione, e delle condizioni in cui � svolta, e le capacit� dei lavoratori di rispondere ad esse con efficacia e senza interferenze emotive che turbino in modo significativo il benessere del lavoratore e l'efficienza del suo lavoro. Oltre alla medicina del lavoro, la competenza per questa valutazione coinvolge a pieno titolo la psicologia. Tenendo fede alla struttura metodologica che dal 2002 � stata suggerita dall'European Agency for Safety and Health at Work, l'intero processo di valutazione e analisi della sicurezza nel lavoro dovrebbe: identificare i potenziali rischi psicosociali (valutazione); elaborare specifici programmi di intervento (traduzione); proporre interventi concreti volti a ridurre o a eliminare i rischi (riduzione); valutare il cambiamento, l'apprendimento e lo sviluppo organizzativo (audit). Per quanto attiene alla prima fase, la valutazione dei rischi (sia potenziali che operanti), il processo si avvia, attraverso l'utilizzo di apposite check-list, con un propedeutico monitoraggio di particolari indicatori aziendali quali il tasso di assenteismo per malattia, l'incidenza di infortuni lievi, le richieste di rotazione nelle mansioni, il tasso di turn over, le azioni disciplinari e, in generale, la dimensione della conflittualit� aziendale. Tali aspetti forniscono indicatori "obiettivi", sia per l'intera azienda, sia in riferimento a specifici reparti o gruppi lavorativi. Lo stress percepito soggettivamente viene, invece, indagato in uno step successivo: l'indagine � condotta a livello individuale, studiando le variabili relative alla percezione di autoefficacia nella mansione, della tensione o di veri e propri conflitti con colleghi e superiori (si veda il Box "Lo stress sul lavoro: fattori psicologici"). Un questionario molto diffuso per la valutazione dello stress lavorativo � quello di Karasek e colleghi (1998), dell'Universit� del Massachusetts, che analizza le dimensioni delle richieste della mansione, del controllo da parte del lavoratore e degli aspetti relazionali e comunicativi, mentre per indagare l'impegno (engagement) professionale si � rivelata efficace l'Utrecht Work Engagement Scale (UWES) di Schaufeli e Bakker (2004). Altri strumenti usati in Italia sullo stress lavoro-correlato sono il Q-Bo di De Carlo, Falco e Capozza (2008), l'Organizational and Psychosocial Risk Assessment (OPRA; Magnani, Mancini e Majer, 2009) e il Questionario sulla Salute Organizzativa di Avallone e Paplomatas (2005). Il Q-Bo consente di rilevare una gamma di dimensioni lavorative, organizzative e individuali, che rappresentano possibili fonti di rischio, quali la non chiara definizione delle responsabilit� e il carente senso di appartenenza all'organizzazione e di supporto da parte di quest'ultima. L'OPRA valuta per ciascun lavoratore il grado di rischio conseguente alla scarsa identificazione con l'organizzazione di appartenenza e alla scarsa fiducia in essa, alla ridotta soddisfazione lavorativa e all'idea di lasciare il proprio posto di lavoro. Tale test, oltre all'analisi delle possibili fonti di rischio allo scopo di programmare azioni utili a una sua riduzione, valuta anche l'effettiva presenza e la frequenza di disturbi fisici e psicologici. Il terzo strumento, il Questionario sulla Salute Organizzativa, rileva, invece, "quell'insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la convivenza nei contesti di lavoro" e che gli autori definiscono come salute organizzativa, attraverso quattordici dimensioni: il comfort, gli obiettivi, la valorizzazione, l'ascolto, le informazioni, la conflittualit�, le relazioni, l'operativit�, l'equit�, lo stress, l'utilit� sociale, la sicurezza, i compiti lavorativi, la propensione all'innovazione (Avallone e Paplomatas, 2005). Riguardo alla dimensione "soggettiva" dei rischi psicosociali, particolarmente importante � la valutazione delle conseguenze dello stress sullo stato psicologico del lavoratore, in termini di sensazioni psicofisiologiche disturbanti, dolori e problemi fisici, ma anche di irritabilit� e perdita di controllo, senso di sforzo e di confusione, ansia depressiva, iperattivit�. Tali cluster vengono valutati in modo articolato dal test Mesure du Stress Psychologique (Lemyre, Tessier e Fillion, 1990). Oltre alle conseguenze dello stress sul piano personale, va indagata anche la percezione che la persona ha dell'evento stressante (appraisal), le risorse disponibili per farvi fronte (coping), le condizioni del contesto e le possibilit� di supporto che in esso possono essere trovate. Il modo in cui la persona fronteggia lo stress pu� essere adeguatamente focalizzato sul problema (approach), oppure orientato ad evitarlo (avoidance) o anche orientato a fornire una pura risposta emotiva. Compito dello psicologo � anche la valutazione dello stress a livello organizzativo, sempre a partire dall'indagine sui lavoratori mediante questionari, interviste o focus group, ma in un approccio che accentui l'attenzione alle variabili di funzionamento generale dell'organismo-azienda. Oggetto di questo livello di valutazione � la gestione organizzativa, le modalit� di comunicazione verticale e trasversale usate in azienda, la presenza di tensioni prolungate nei (o fra i) gruppi di lavoro, le disfunzioni organizzative transitorie e contingenti che alterano il normale "clima" dell'ecosistema lavorativo. In un precedente articolo (Di Nuovo e Santisi, 2010) abbiamo centrato l'attenzione sullo stress lavorativo, e sul conseguente rischio, attribuibile al fattore umano. L'orientamento attuale della ricerca psicologica in ambito lavorativo sottolinea con forza il rilievo delle variabili organizzative e contestuali. Una sottolineatura che tuttavia non privilegia solo ed esclusivamente prospettive d'intervento di natura psicotecnica (fondate, cio�, sull'analisi delle prestazioni lavorative, degli errori e dei carichi di lavoro e sulla rispondenza ai principi ergonomici), quanto piuttosto una elaborazione di modelli d'intervento orientati a dimensioni relazionali, quali il sostegno della persona attraverso strategie di empowerment, pratiche che favoriscano l'autoefficacia e la riflessivit�, filosofie aziendali che mettano al centro dell'attenzione la formazione e la sostenibilit� organizzativa: pratiche che promuovano l'attenzione alle dimensioni formali oltre che a quelle informali. � essenziale, dunque, che la valutazione sia dei fattori soggettivi dei lavoratori che del clima organizzativo complessivo venga fatta da psicologi competenti, in modo realmente anonimo e con strumenti scientificamente attendibili e validi. Fattori organizzativi e fattori umani devono interagire sempre al fine di ridurre le condizioni di stress e di conseguente rischio, garantendo a tutti un "lavoro sicuro, in condizioni sicure". Lo stress sul lavoro: fattori psicologici Le fonti dello stress lavoro-correlato a) Fonti intrinseche alla mansione - Condizioni fisiche di lavoro: rumorosit�, vibrazioni, variazioni di temperatura, ventilazione, umidit�, carenze nell'igiene ambientale, rischiosit� delle macchine con cui si lavora. - Eccesso di carico lavorativo. - Pressione temporale forte e continua. - Percezione di scarsa auto-efficacia nello svolgimento dei compiti assegnati. b) Fonti relative al ruolo nell'organizzazione - Ambiguit� di ruolo: mancanza di chiarezza rispetto al compito, agli obiettivi, alle responsabilit� e alle aspettative dei superiori e dei colleghi. - Conflitto di ruolo: il ruolo ricoperto � incompatibile con le richieste e le mansioni assegnate. - Responsabilit� di ruolo, sia rispetto alle cose che alle persone. c) Fonti relative allo sviluppo di carriera: particolarmente significative per quei soggetti che hanno elevate aspirazioni e che desiderano raggiungere alti livelli di status e riconoscimento. d) Fonti relative alle relazioni di lavoro: tra dirigenti e dipendenti, tra colleghi. e) Fonti relative alla struttura e al clima organizzativo. Fattori di rischio - Coinvolgimento eccessivo nella mansione, a scapito di altri interessi personali e familiari. - Bassa tolleranza all'insuccesso e alle frustrazioni. - Percezione del lavoro come conflittuale. - Rapporto alterato con il tempo: continuo senso di pressione e incapacit� di prendersi delle pause. - Personalit� di tipo A (specie a livello dirigenziale): iperattivazione, fretta, alta competizione, continua insoddisfazione. Il re della discordia (di Roberto Festorazzi, "Focus Storia" n. 137/18) - Recentemente il rientro in patria della sua salma, per essere tumulata in Piemonte, insieme alla moglie, ha sollevato un polverone. Ma perch� Vittorio Emanuele III suscita sempre tante polemiche? - Gli italiani gli affibbiarono il nomignolo di "sciaboletta", per la sua bassa statura: era alto infatti soltanto un metro e 53 centimetri. Ma la levatura di Vittorio Emanuele III, come uomo di Stato, � oggetto da decenni di aspre discussioni. Il personaggio presenta infatti non poche contraddizioni. Nato l'11 novembre 1869, figlio di Umberto I e della regina Margherita, il sovrano italiano si spense, in esilio, ad Alessandria d'Egitto, settant'anni fa, il 28 dicembre 1947. La sua figura � tornata alla ribalta lo scorso dicembre, quando la sua salma ha fatto rientro in patria, per essere tumulata, insieme a quella della moglie Elena del Montenegro, nel santuario di Vicoforte, in Piemonte. Questo ritorno ha suscitato polemiche in tutta Italia. Da una parte, esponenti di Casa Savoia, come Vittorio Emanuele e il figlio Emanuele Filiberto, hanno chiesto la traslazione del parente al Pantheon di Roma; dall'altra, la comunit� ebraica � insorta di fronte a una richiesta ritenuta provocatoria e oltraggiosa verso la memoria delle vittime dell'Olocausto. E molte altre sono state le critiche in tutto il Paese. Ma da dove nasce tanta ostilit�? Dal punto di vista umano, Vittorio Emanuele � stato descritto come un individuo dal carattere arido e cinico, forse ulteriormente indurito dalla pratica del potere. Eppure, poteva sorprendere per i suoi slanci di spontaneo sentimentalismo. Il suo matrimonio, ad esempio, fu felice: ogni giorno, il re raccoglieva personalmente un mazzo di fiori per la moglie Elena del Montenegro, nel vasto parco della sua residenza privata, Villa Ada, a Roma. E aveva inoltre grandi passioni: era un'autorit� nello studio della storia delle emissioni monetarie, tanto da pubblicare un'opera scientifica monumentale, in undici volumi: il Corpus nummorum italicorum. La sua collezione numismatica privata appartiene oggi allo Stato italiano, e si trova presso il medagliere del Museo nazionale romano. Aveva 31 anni quando il padre, Umberto I, fu ucciso a Monza il 29 luglio 1900, colpito da 3 proiettili sparati dall'anarchico Gaetano Bresci. Fu in quei drammatici giorni che Vittorio Emanuele sal� al trono. Il nuovo sovrano esord� con uno stile quasi da "monarca socialista", inaugurando una stagione di riforme politiche. Affid� la guida del governo dapprima a Giuseppe Zanardelli e poi a Giovanni Giolitti, due statisti che, per la prima volta, affrontarono la questione operaia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Vittorio Emanuele si tenne su posizioni neutrali fino al maggio del 1915, quando entr� in guerra a fianco dell'Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia) abbandonando l'alleanza, voluta dal padre, con Germania e Austria, in cambio di ampliamenti territoriali (l'Alto Adige, la Venezia Giulia, l'Istria, le Isole del Quarnaro) a scapito dell'Impero Austro-ungarico. La visione di Realpolitik non gli imped� neppure di prendere in considerazione la prospettiva dell'inclusione dei socialisti nell'area di governo, soprattutto dopo che il Psi si afferm� come prima forza politica, alle elezioni del novembre 1919, con il 32,4% dei voti. Se, sotto il suo regno, non si verific� l'ascesa al potere del partito socialista "ufficiale", � per� altrettanto vero che il monarca di Casa Savoia nomin� presidente del Consiglio, nel luglio del 1921, Ivanoe Bonomi, esponente di un piccolo gruppo parlamentare socialriformista. Alla fine dell'anno successivo per� avvenne qualcosa che cambi� la politica nel nostro Paese per il ventennio successivo: la marcia su Roma e l'avvento del fascismo. E proprio il suo rapporto con il regime e Mussolini � all'origine delle pi� aspre critiche che gli storici hanno mosso a Vittorio Emanuele III. Tra i comportamenti pi� biasimati c'� l'atteggiamento che tenne durante la marcia su Roma, quando il 28 ottobre 1922 si rifiut� di firmare lo stato d'assedio propostogli dall'allora primo ministro Luigi Facta, con la motivazione di non voler scatenare una guerra civile nel Paese. Con questo atto il re avrebbe potuto fermare le camicie nere, ma non lo fece e il giorno successivo Facta si vide costretto a dare le dimissioni. Il 30 ottobre il sovrano incaric� Mussolini di formare un nuovo governo. Dopo la serie di attentati subiti dal duce, tra il 1925 e il 1926, il Savoia accett� che il governo fascista si trasformasse in regime, con la sospensione delle libert� democratiche, come la soppressione del pluralismo dei partiti e dell'informazione. Le memorie segrete di Margherita Sarfatti, intellettuale e amante del duce, tuttavia, forniscono una versione diversa della successione di eventi che portarono Vittorio Emanuele III ad assecondare la trasformazione di Mussolini in un tiranno. Dopo il discorso parlamentare del 3 gennaio 1925, nel quale Mussolini annunci� di fatto l'inizio della dittatura, non si produssero quegli eventi traumatici che l'opinione pubblica si attendeva. Perch�? Sarfatti rivela che dopo quel discorso Mussolini si present� dal re, per reclamare lo scioglimento del Parlamento, ma Vittorio Emanuele resistette alle pressioni del capo del governo, sebbene queste si fossero trasformate in una velata minaccia. Lo storico Marco Cuzzi lo considera una figura molto controversa mettendone a fuoco le aperte contraddizioni. Vittorio Emanuele era capace di arditi compromessi, come l'avallo della firma del Concordato con la Santa Sede dell'11 febbraio 1929, proprio lui che era un acceso anticlericale. Spiega Cuzzi: "Vittorio Emanuele III � stato, insieme, un buon re e un monarca estremamente mediocre. Da un lato, all'inizio del suo regno, seppe guidare l'Italia verso una democrazia compiuta, superando i traumi della svolta autoritaria di fine Ottocento, e don� al Paese la sua ultima, grande stagione patriottica, rappresentando l'unit� nazionale. Soprattutto durante l'ora del riscatto bellico, che dall'onta di Caporetto condusse alla vittoria del novembre 1918. Ma, al tempo stesso, port� il regno nel baratro della dittatura e, poi, di una guerra perduta". Nella parte negativa del bilancio storico su Vittorio Emanuele III pesano soprattutto le pagine pi� infamanti della nostra storia: l'alleanza con la Germania e le leggi razziali del 1938. Scelte che costarono ai Savoia l'insanabile frattura con gli italiani. "All'inizio, il re vide in Mussolini un provvidenziale elemento restauratore dell'ordine, un baluardo contro il bolscevismo", spiega Cuzzi. "Gli affid� il governo nel tentativo di salvare l'eredit� gloriosa della Grande guerra. Ma, nella lunga coabitazione con il regime del duce, egli accett� troppi compromessi e chin� eccessivamente la testa. E, forse, la sua passivit� verso l'alleanza con il Terzo Reich di Hitler e la sua accettazione delle leggi razziali possono essere lette alla luce del timore che Mussolini potesse, alla fine, sbarazzarsi della monarchia". "In realt�, tutto il lungo regno del "re soldato" si pu� leggere attraverso il filo conduttore della sua preoccupazione di salvare il destino della dinastia. Laddove gli interessi della nazione, e del popolo italiano, furono in conflitto con le sorti della Corona, Vittorio Emanuele antepose la seconda ai primi. Cio�, privilegi� le ragioni di Casa Savoia rispetto ai destini dei suoi sudditi", afferma Cuzzi. Se ne ebbe la prova anche quando, dopo la firma dell'armistizio dell'8 settembre 1943, si pose il problema di come preservare la famiglia reale dalla vendetta dei tedeschi che si erano sentiti "traditi" dall'alleato italiano. "Non bisogna dimenticare che il monarca pag� un prezzo personale molto alto per quell'accordo armistiziale. Sua figlia Mafalda, infatti, morir�, nel lager di Buchenwald, in Germania, il 28 agosto 1944". "Io non credo che Vittorio Emanuele si fosse comportato da fellone, dopo l'8 settembre, e che la sua scelta di lasciare Roma e di riparare a Brindisi fosse stata dettata da vigliaccheria. La sola cosa che poteva fare, il sovrano di uno Stato legittimo, dinanzi al rischio concreto di essere catturato dai nazisti per divenire loro ostaggio, era rifugiarsi nell'unico lembo d'Italia ancora libero sia dai tedeschi sia dagli angloamericani. In tal modo, pot� garantire la continuit� istituzionale del Regno d'Italia". In quell'estate del 1943, l'armistizio era stato preceduto dagli eventi del 25 luglio, che avevano portato alla caduta di Mussolini e alla sua sostituzione, alla guida del governo, con il maresciallo Pietro Badoglio. Ancora oggi, il crollo del regime � avvolto da interrogativi e misteri, che coinvolgono anche la figura di Vittorio Emanuele, il cui ruolo nel colpo di Stato rimane oscuro. Alla liberazione di Roma, da parte degli Alleati, nel tentativo disperato di salvare l'onore della dinastia, compromessa da vent'anni di sostegno al fascismo, il 5 giugno 1944 nomin� suo figlio Umberto luogotenente generale del regno. Tecnicamente non abdic�. Questo passo lo fece soltanto due anni pi� tardi, il 9 maggio 1946, dopo la fine della guerra e la rinascita della democrazia in Italia. Tuttavia poco dopo, al referendum istituzionale del 2 giugno, il popolo volt� le spalle ai Savoia scegliendo la repubblica.