Luglio 2021 n. 7 Anno VI Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi �Regina Margherita� Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del MiBACT. Indice Il senso del suono Assandira, quando il gioco diventa tragedia L'ultima dei Medici Il senso del suono (di Fabio Scotto, �Prometeo� n. 153/21) - La ricerca dei nessi che legano la traduzione del ritmo al pensiero e al linguaggio, secondo una molteplicit� di percorsi possibili. - Premessa storica Questo articolo intende proporre una riflessione sulla poesia e sulla traduzione che non pu� prescindere dalla valenza intimamente semantica del suono e dall'importanza di una nozione non meramente metrica del ritmo non priva di conseguenze sul tradurre e sulla costruzione dell'identit� del soggetto scrivente (Scotto 2013). Come � noto, la poesia nasce come prima forma letteraria oralizzata che si tramanda di padre in figlio nelle societ� arcaiche prima che la scrittura la fissi in una forma verbalizzata scritta. Essa � per lo pi� abbinata nella sua forma orale a un accompagnamento musicale, sia esso canto puro che veicola il testo, o una modulazione melodica scandita da strumenti, che nella tradizione greco-latina saranno poi la lira, o il liuto. Cos� essa veniva comunicata e fruita all'origine e cos� viene proposta, anche dopo l'avvento della scrittura, nella forma dapprima del poema epico, poi della tradizione trobadorica. Il resto � legato all'evoluzione della comunicazione testuale dalla forma amanuense medievale all'avvento della stampa. La parallela evoluzione della storia del tradurre ha origine nell'area mesopotamica ed ebraica, se i primi documenti relativi alla traduzione risalgono al XVIII secolo a.C. e concernono la traduzione dal sumerico all'accadico dell'epopea di Gilgamesh della quale si hanno la versione assira, accadica e sumerica; poi, nel VI secolo a.C., l'esodo degli Ebrei a Babilonia determina la necessit� di tradurre la Bibbia in aramaico, donde le traduzioni commentate con parafrasi e commento dette targumin, e, nel III secolo a.C., con il loro successivo esodo in Paesi di lingua greca, il progetto di prima traduzione in greco del testo biblico, detta dei Settanta (o Septuaginta), opera di settantadue sapienti di Alessandria d'Egitto, che si discosta dal testo tramandato dal giudaismo rabbinico e che produce il paradosso di un identico risultato, frutto dell'ispirazione divina, di tutte le diverse versioni. Tali traduzioni, come la successiva traduzione in latino della Vulgata ad opera di San Gerolamo, attestano la centralit� del testo sacro nella origine e storia della traduzione. Fin dal Libellus de optimo genere oratorum (46 a.C. circa) di Cicerone, che pu� essere ritenuto il primo saggio di teoria e prassi del tradurre in ambito occidentale, l'Autore enuncia, da un lato l'autorialit� del gesto traduttivo, se afferma di avere tradotto le opere dei famosi oratori greci Demostene ed Eschine non �ut interpres�, ma �ut orator�, ovvero come �autore�, e, ci� facendo, di non averle tradotte �verbum pro verbo� (parola per parola), bens� �sensum pro senso�, vale a dire con parole proprie e privilegiandone il senso. La posizione teorica ciceroniana istituisce dunque il principio della prevalenza del senso, che sar� poi fatto proprio da vari importanti autori successivi, da Orazio (Ars poetica, 13 a.C.) a San Gerolamo (Epistola 57a Pammachio) e che, salvo rare eccezioni come quelle di Leonardo Bruni nel Cinquecento e di Daniel Huet e Madame Dacier nel Seicento, informer� le pratiche traduttive del Classicismo francese, ispirate al principio etnocentrico dell'importazione-adattamento dell'originale secondo il quale, per essere �belles�, le traduzioni devono essere �infid�les� all'originale, facendolo sembrare scritto direttamente nella lingua d'arrivo, la cui superiorit� � data a priori (Perrot d'Ablancourt). Analogamente, nel Settecento, dove prevale la traduzione di testi scientifici, forse con la sola eccezione di Alexander Fraser Tytler (Essays of the Principles of Tranlation, 1791), attento anche allo stile dell'originale, prevale lo stesso principio concettuale e semanticista che porta a vedere nel senso la parte pi� importante del testo da tradursi, anche grazie a infedelt� di ordine formale e stilistico (Arduini-Stecconi 2007). � con il Romanticismo tedesco e l'esperienza della rivista �Athenaum� che in autori come Goethe, Schleiermacher, Schlegel, Novalis, Tieck, Brentano, Humboldt, H�lderlin si ha una vera inversione di tendenza che, nell'idea di �traduzione generalizzata�, restituisce alla pratica una vera e propria centralit� nel dibattito culturale, attribuendo a tale attivit� il ruolo critico, interpretativo, soggettivo, artistico che le compete. Ne consegue non pi� l'annullamento della diversit� dell'altro e dello straniero omologato alla cultura d'arrivo, ma il riconoscimento della diversit� come un valore, donde la necessit� di andare verso l'originale e la sua forma, anche a costo del meticciato culturale e dell'ibridazione fatti subire alla propria lingua e cultura traducenti. Questo l'approccio detto estraniante della traduzione, contrapposto a quello naturalizzante e semanticista prevalente in precedenza, di fatto etnocentrico e fondato sulla superiorit� della cultura del traducente rispetto a quella del tradotto. Tradurre diviene allora un atto poetico che vede nella forma un veicolo irrinunciabile di senso, e di conseguenza si sforza di porsi in ascolto della voce dell'originale, fosse anche arcaica e a costo di mettere a repentaglio l'equilibrio sintattico e formale della lingua d'arrivo, come avviene per le traduzioni da Sofocle di H�lderlin, dove, come ci dice Antoine Berman, il tedesco, grecizzandosi, quasi frana sotto i suoi piedi e la traduzione diventa il luogo pericoloso della �confusione delle lingue� (Berman, 1984). L'orizzonte novecentesco vede, da un lato, nella posizione idealista di Benedetto Croce e di Ortega y Gasset, l'�obiezione pregiudiziale� secondo la quale tradurre sarebbe impossibile o vano perch�, come gi� affermato in Dante nel Convivio (I, VII) a proposito del �legame musaico�, l'intima dolcezza e armonia di una lingua risulterebbe irriproducibile in un'altra, di qui il diverso significato che hanno perfino le stesse parole in due lingue diverse. A tale posizione, che avrebbe rischiato di mettere fine alla traduzione, si oppongono una serie di opzioni, che vanno dalla semiotica all'ermeneutica, dalla fenomenologia alla poetica del ritmo, per le quali tradurre � sempre possibile, ma a certe condizioni e in un rapporto di guadagno o perdita nei confronti dell'originale che nasce per� da una necessit� ora comunicativa e pragmatica, ora artistica e che comunque non prevede un rapporto di mera specularit� binaria fra l'originale e la traduzione. Come afferma George Steiner (1994), tradurre si situa Dopo Babele, nel luogo della frammentazione e della diversit� delle lingue che � anche un momento tragico della storia, quello nel quale finisce il sogno dell'unica lingua adamica e inizia il confronto-scontro fra identit� umane e linguistiche diverse le quali impongono il problema della comprensione reciproca, quindi della decodificazione e della ricodificazione di messaggi e testi. � in quest'ottica che va vista la crediamo non casuale presenza di autori di origine e cultura ebraica fra i protagonisti del dibattito sulla traduzione, da Walter Benjamin a Jacques Derrida e Henri Meschonnic, senza dimenticare Even Zohar e Gideon Toury, nella misura in cui riflettere sul tradurre � anche rivivere la diaspora, l'esodo e la perdita dell'identit�, quindi il dramma del soggetto e del suo rapporto con la lingua e con il mondo, se storicamente il terreno d'elezione della teoria del tradurre � l'esegesi biblica. La posizione teorica di Walter Benjamin (1962), certo fra le pi� complesse mai formulate, � la prima che pare rompere nella contemporaneit� il nesso fra la traduzione e la comunicazione del senso, in quanto nega che il tradurre sia finalizzato alla comunicazione, si rivolge all'originale come espressione della �pura lingua� e vede nella traduzione una sua continuazione all'infinito che ne farebbe affiorare l'interminabilit� dell'essenza. La traduzione si rivolge dunque all'originale e trova nelle versioni sofoclee di H�lderlin il suo modello ideale, per questo tende verso una traduzione interlineare che riproduca la sintassi letterale dell'originale inteso come forza originaria, non come struttura segnica. Al di l� della matrice mistica di questo pensiero, che rimanda a Paracelso e a Silesio e all'origine divina della lingua adamica e che � da sempre oggetto di vivo dibattito, l'importanza di tale posizione teorica sta nella valorizzazione della forma espressa dal celebre, enigmatico enunciato: �La traduzione � una forma�, la quale supera l'idea che tradurre sia tradurre la forma di un originale e modellarsi su di esso, ma addirittura vede nell'attivit� e nel processo traduttivo una forma, un modo d'essere dell'originale tipico della riscrittura di un soggetto e di lui solo. Le conseguenze di questa idea sull'evoluzione del concetto di traduzione sono assai significative perch� orientano l'attenzione sulla necessit� di esprimersi anche in una forma oscura sia scrivendo che traducendo quanto un autore ha scritto, senza curarsi dell'immediata fruibilit� del senso, e perch� conferiscono al tradurre il ruolo di una sorta di forma della forma. In ambito anglofono da Eugene A. Nida a Susan Bassnett, da Peter Newmark a Charles R. Taber prevale un approccio semiotico fondato sulla superiorit� del senso, con la sola eccezione di Lawrence Venuti, attento agli aspetti fonico-formali della riproduzione del testo, a indicare una prevalenza in quell'ambito di un taglio funzionalistico e specialistico di tipo pragmatico e semanticista per lo pi� conforme alle esigenze pratiche e professionali del tradurre. Il dibattito contemporaneo francese: sourciers e cibliste Falliti i tentativi della linguistica di fondare una scienza della traduzione affidando il ruolo del traduttore alla macchina (Georges Mounin 1965) perch�, come ben mostra Friedmar Apel (1997), il tradurre � riflesso e parte della storia del mondo, infinito movimento diacronico permeabile a tutto, nonch� anche opera creativa, basti pensare alla lezione di Val�ry Larbaude e di Paul Val�ry, nel dibattito francese degli ultimi decenni si contrappongono essenzialmente due scuole di pensiero: l'una, strettamente legata all'ermeneutica, muove dalla scissione operativa strutturalista del segno in significante (la forma) e significato (il senso), dando per scontata, nel tradurre, la perdita del primo e limitandosi al trasferimento nella lingua d'arrivo del secondo. Jean Ren� Ladmiral (1994), filosofo e traduttore degli autori della Scuola di Francoforte, d� per inevitabilmente persa la forma dell'originale e teorizza la necessit� di dissimilare la traduzione dal testo di partenza, in modo tale che il senso passi a qualunque costo. Egli si propone di far scrivere all'autore tradotto il testo francese che questi avrebbe scritto se fosse stato francese. Tradurre significa quindi per Ladmiral trovare nella lingua d'arrivo i �connotatori� equivalenti a quelli della lingua di partenza, affrancandosi dalla fedelt� al loro significante. Certo non sfugge il pragmatismo operativo di fondo della prospettiva di questo traduttore di testi filosofici (ma anche di Nietzsche, che � poeta, oltre che filosofo, il quale segna una svolta decisiva in senso radicalmente poetico della forma espressiva filosofica) che vede nell'attenzione alla riproduzione per lui vana della forma dell'originale una venerazione teologica maniacale di cui sarebbe spesso vittima il poeta-traduttore. Creatore di una categorizzazione dualistica che ha avuto ampia eco, quella che contrappone, nel tradurre, i �ciblistes� - ovvero i �semanticisti� linguisti, filosofi, come lui, che privilegiano la �langue-cible� [lingua d'arrivo] e il significato (il senso) della parola o del discorso (fra essi G. Mounin, E. Etkind, E.A. Nida, C.R. Taber) - ai �sourciers� - gli �stilisti� letterati i quali prediligono la �langue-source� (lingua di partenza) e il suo significante (la forma), come W. Benjamin, H. Meschonnic, L. Robel, A. Berman -, Ladmiral ha comunque il merito indiscutibile di avere ben delineato i termini della questione (in ambito anglofono sono in uso i termini equivalenti che oppongono traduzioni �source-oriented� a traduzioni �target-oriented�), riconoscendo la tributariet� della teoria dalla pratica, affrancando il tradurre dalla teorizzazione linguistica e semiotica in senso stretto, per mettere in luce il ruolo di �riscrittone� e di �co-autore� del traduttore e la sua �logica della decisione� la quale consiste essenzialmente nella scelta di aggiungere (�incremento�) o sottrarre all'originale (�entropia�) significanti o significati per dire la stessa cosa in un'altra lingua. Occorre che il senso passi, che la leggibilit� del testo tradotto sia garantita, pur se il limite di questo approccio � quello di ritenere praticamente impossibile la versione in versi di un testo in versi. Modernit� filosofico-prosaica �cibliste� (o �cibiste�) contro vecchiume �sourcier� (o �sorcier�) poetico-letteralista le due deformazioni paronomastiche �sorcier� [stregone, mago] e �cibiste� [radioamatore, dall'inglese Citizen band] si propongono, nell'intento polemistico di Ladmiral, di tacciare i �sourciers� di anacronistico e teologico irrazionalismo, contrapponendo loro la �modernit� tecnologica dei �ciblistes�, questi i termini piuttosto manichei del conflitto teorico e �teologico� ladmiraliano. I due neologismi definitori da lui coniati hanno per� avuto notevole successo e sono ancor oggi largamente impiegati dagli specialisti nel dibattito su questa materia, malgrado la riproduzione di un dualismo d'origine strutturalista che li rende sgraditi ad alcuni. Henri Meschonnic: poetica del ritmo L'altra tendenza che ha assunto nel panorama attuale un ruolo sempre pi� significativo � la �poetica della traduzione� di Henri Meschonnic (1973). Poeta, linguista, traduttore della Bibbia, filosofo del linguaggio, teorico della letteratura, Meschonnic ha elaborato un'opera abbondante estremamente complessa che muove dalla pratica della scrittura e della traduzione poetica per estendersi alla teoria del linguaggio, della traduzione, della storia e della cultura. Fondata su un risoluto rifiuto del dualismo di forma e senso della semiotica, al quale contrappone, nel solco della �semantica senza semiotica� di �mile Benveniste, una teoria critica che sia critica della teoria critica per opporre alla discontinuit�, a suo avviso arbitraria e artificiosa, del segno, il concetto di �forma-senso�, concepiti come entit� inscindibili, di continuit� del discorso, nell'oralit� della scrittura, essa ha come centro la nozione di ritmo, inteso come �l'organizzazione del movimento della parola nel linguaggio� e la sua �significanza� (Dessons-Meschonnic, 1998), ovvero l'espressione dei valori propri di un discorso di un individuo (inteso nell'accezione saussuriana del termine), di un soggetto storico e di uno solo. Il ritmo, inteso, nel solco di Eraclito, come rhuthmos (forma di ci� che si muove) e contrapposto a sch�ma (forma fissa), non coincide pi� con la metrica, ma diviene strutturazione delle catene allitterative fono-prosodiche del discorso. La scrittura si rivela essere un'�epistemologia della sua lingua� e tradurre significa tradurre il ritmo del testo, che � costitutivo della propria lingua. La traduzione � l'esplicitazione di una �poetica� che si vuole �pratica teorica� e �poetica sperimentale� fondatrice del soggetto. Essa contrappone all'�annessione� il �decentramento� e difende la logica del significante come ci� che fa di un testo ci� che �, contro l'�imperialismo� del significato totalizzante il senso dell'espressione. Nel tempo Meschonnic ha inteso distinguere il �tradurre� (l'attivit�, il procedimento traduttivo) dalla �traduzione� (il risultato dell'attivit�) - cos� ponendo l'accento sul processo dinamico della sua prassi. Fondata sulla riflessione sulla Bibbia, da lui considerata come un testo poetico nel quale non esiste distinzione alcuna fra poesia e prosa, ma il �continuo� di un �recitativo� della �cantillazione� (ovvero il modo nel quale chi celebra il culto scandisce oralmente il testo sacro), questa teorizzazione, non priva di eccessi polemistici, ha il pregio di ricondurre in modo originale al quesito fondamentale, ovvero cosa sia un testo, cosa sia una �traduzione-testo�, per rispondere che un testo � ci� che fa come lo fa facendolo, cos� creando una relazione diretta fra la creazione del testo e quella del soggetto che lo scrive. Leggere � leggersi, scrivere � essere scritti da ci� che si scrive, tradurre � essere tradotti da ci� che si traduce, egli afferma. Ne consegue un rifiuto polemico della teorizzazione fenomenologica di Heidegger, che nel suo Parmenide include il tradurre nel capire e nell'interpretare (�capire � gi� tradurre�), cos� come dell'appropriazione, a suo avviso indebita, della poesia ridotta a �filosofema� e della traduzione come �supplementarit� ad opera di Derrida (1988). Al capire-interpretare di entrambi Meschonnic oppone l'�entendre� (nel duplice senso di udire/sentire, fisico, e di capire/comprendere, intellettuale), ovvero una conoscenza che si attua tramite un sentire che sa prescindere dal sapere, ritornando al corpo, all'udito, all'oralit� della scrittura e della lettura, alla fisicit� dell'esperienza. Di conseguenza, se il ritmo non coincide pi� col metro, Meschonnic (1998) definisce �po�me� ogni testo letterario che esprima una forma di vita attraverso una forma di linguaggio e il ritmo sar� ovunque, indipendentemente dal suo genere di appartenenza, non a caso applica l'analisi dell'accentuazione ritmica, invero tecnicamente troppo complessa per essere qui sommariamente riassunta, anche alla prosa di Flaubert. Alcune idee di Meschonnic sono riprese autonomamente da autori importanti quali Antoine Berman (1995), che, fautore di una critica positiva del tradurre pur attenta agli aspetti del significante quali vettori della sua alterit� da preservare, nondimeno rimprovera a Meschonnic un certo ideologismo negativista nell'analisi delle traduzioni altrui (Meschonnic, 1999); L�on Robel, a sua volta, prediliger� la �traduzione-ricreazione�, ovvero una trasformazione dell'originale sensibile alla riscrittura del suo tracciato fono-semantico tramite equivalenze, in un modo tuttavia meno costrittivo di quello preconizzato dalla teoria del ritmo di Meschonnic. Per il resto mancano a nostro avviso sostanziali e innovative teorizzazioni che segnino un reale avanzamento degli studi in questa materia, come se al momento, pur nel fiorire delle pratiche, ci si muovesse ancora, o nel ciblisme pi� pragmatico, oppure in un epigonismo post-bermaniano o post-meschonnichiano teoricamente non molto innovativo. In esso le opere pi� interessanti sono dedicate all'analisi delle traduzioni: pi� della teoria della traduzione propriamente detta evolve quindi la critica della traduzione, come lo attestano, ad esempio, gli studi di Jacqueline Risset e Jean-Charles Vegliante, il quale, nel solco della lezione di Meschonnic, compie un percorso che muove da Leonardo Bruni fino all'autoriflessione sulle proprie versioni allo scopo di dimostrare come la traduzione costituisca un �accrescimento� della lingua la cui teoria deve basarsi sulla relazione particolare fra espressione e contenuto. Naturalmente esistono nel dibattito poetologico posizioni diverse riguardo al ritmo, come, ad esempio, quella di Yves Bonnefoy (2005), che, muovendo da un orientamento teorico pi� vicino a quello di Antoine Berman, vede nel ritmo un modo personale di riprodurre nella scrittura l'originale nei suoi aspetti sintattici e musicali, senza per� voler ricrearne pedissequamente per equivalenza gli occorrimenti fonici e metrici, ma mai riducendone il valore al mero �significato�. Ne risultano traduzioni che sono a pieno titolo opere del poeta-traduttore, il quale, nell'�ospitalit� data all'autore straniero, lo accoglie nella propria lingua e lo riscrive in lingua d'oggi prestandogli, oltre alla propria voce, a volte, come per lui nel caso di Petrarca e Leopardi, anche la propria visione del mondo e della poesia. Il ritmo nella riflessione italiana contemporanea _ sul tradurre Va dato atto a Gianfranco Folena (1991), nella prospettiva storico-filologica che ne caratterizza l'operato, di avere identificato nel trattato De interpretatione recta (ca. 1420) di Leonardo Bruni un fondamentale ricorso alla nozione di ritmo, inteso come imitatio del ritmo dell'originale, il che presuppone quello che Folena chiama �l'obiettivo pi� alto della traduzione�, ovvero una �con-versione�, una immedesimazione con lo stile dell'originale, che � la vera �fedelt�, un �farsi rapire� da esso. Ci� implica naturalmente un'immedesimazione con la personalit� dell'autore da tradursi, che � quella associabile alla nuova definizione di traducere, traductio e traductor che con lui si afferma, il che conduce Folena ad affermare che �non � possibile parlare di storia della traduzione senza tener conto dei contributi originali e spesso decisivi offerti dall'Umanesimo italiano per la formazione dell'idea del tradurre in tutta la cultura europea moderna�. Fra i poeti-traduttori italiani della stagione post-ermetica, l'unico che dimostri una conoscenza del lavoro di Henri Meschonnic e che abbia riflettuto a fondo sulle sue teorizzazioni � Franco Fortini (2011). Le sue Lezioni sulla traduzione compiono una critica di taluni narcisismi espressivi del traduttore affine a quella che fa Meschonnic (2001) dei processi di �poetizzazione�; egli si mostra altres� sensibile alla sua nozione di �decentramento� della traduzione verso l'originale che, spezzando il �legame musaico�, spariglia le carte per poi ricreare un equilibrio nel testo d'arrivo su basi diverse e nuove. Ma per Meschonnic il vero traduttore non � mai �invisibile� e non scompare, quando invece Fortini propende in taluni casi per la �traduzione di servizio� dove ogni soggettivismo del traduttore � mitigato dalla priorit� dell'apparato critico. Consapevole che il problema del tradurre non possa prescindere nella riformulazione da un sussiego per la forma e lo stile, tuttavia egli pare, sul piano ritmico, privilegiare la forma metrica, anche se in essa formula la prima definizione della presenza del verso accentuale nella poesia italiana contemporanea. Si deve al filosofo-estetologo-traduttologo Emilio Mattioli (2001, 2009), allievo di Luciano Anceschi, un approccio neo-fenomenologico al problema del tradurre che, superando l'obiezione pregiudiziale di matrice idealistica, rifiuta ogni approccio dogmatico e normativo al tradurre, che giudica nel suo rapporto di coerenza fra le premesse e gli esiti, nel pieno rispetto della pluralit� degli sviluppi possibili e alla luce dell'evoluzione storica dei saperi e delle pratiche, non essendo data alcuna teorizzazione definitiva e valida per tutti. L'attenzione � quindi da lui posta sul �come� si traduce, nella consapevolezza dell'insufficienza della linguistica teorica a esaurire al suo interno i problemi del tradurre e nella necessit� di costituire una �storia delle traduzioni� (al plurale) che dia conto delle dinamiche di ricezione e del valore estetico e poetico del fenomeno traduttivo. Da questo punto di vista, la �poetica della traduzione� di Meschonnic e la sua �pratica teorica� fondata sulla nozione di ritmo gli appaiono come uno dei fenomeni maggiori (assieme alla teoria del Polisistema di G. Toury ed E. Zohar), dell'odierno panorama teorico. In essa, egli sottolinea la forza di un pensiero critico capace di smuovere da un certo torpore intellettuale attraverso concetti come quello di �taamizzazione� del linguaggio (dove �ta'am� in ebraico � l'accento ritmico della Bibbia nel quale sono condensati la forza e il continuo del testo), che esigono un ripensamento globale della teoria del testo, della traduzione, del soggetto e della societ�. Come ebbe a rilevare Franco Buffoni (1989), l'approccio dei poeti-traduttori italiani alla fine del secolo scorso era in larga parte a-teorico ed empirico e, salvo rare eccezioni, per lo pi� ignaro delle teorie del tradurre e del ritmo, mentre in seguito una riflessione sulla �ritmologia� (Buffoni, 2002) si � andata gradualmente affermando come ricerca dei nessi che legano il soggetto traducente al pensiero e al linguaggio, secondo una molteplicit� di percorsi possibili che dicono nel contempo la ricchezza e l'inesauribilit� del processo. Per concludere, diremo che esiste nella pratica traduttiva una sorta di senso innato del ritmo che in un certo senso prescinde dalle nozioni teoriche che potrebbero orientarne la ricreazione. Tuttavia, se la conoscenza della teoria non pu� dare di per s� un'indicazione precisa sul modo in cui tradurre, stante l'infinita variet� delle tipologie testuali anche all'interno di una stessa opera e della sua intrinseca evoluzione, essa nondimeno contribuisce a dare al traduttore una maggiore consapevolezza delle problematiche in atto nel gesto traduttivo orientandone l'etica e l'estetica, se �la teoria � la pratica� e �la pratica � la teoria� (Meschonnic, 1999). Assandira, quando il gioco diventa tragedia (di Roberto Escobar, �Psicologia contemporanea� n. 263/21) - Ispirato all'omonimo libro di Giulio Angioni, ecco un film su come un gioco pu� trasformarsi in tragica realt� se non si rispettano le nostre radici e il loro ordine arcaico. - �Non si pu� fare gioco di una cosa che � seria�: questo il settantenne Costantino (Gavino Ledda, l'indimenticato autore di Padre padrone) dice al figlio Mario (Marco Zucca), cui rimprovera di non capire pi� la lingua della sua terra. Siamo alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Mario � appena tornato dalla Germania, e con la moglie Grete (Anna K�nig) ha costretto il padre ad aprire un agriturismo in un suo vecchio casolare. Il progetto � coerente con quanto da tempo accade in Sardegna. Ai clienti, per lo pi� non italiani, viene offerta l'illusione di vivere la stessa vita degli isolani. Per loro Mario si finge pastore. Un mondo vero, serio, forte quanto il sole che lo illumina, � ridotto a finzione ed � messo in vendita come merce pittoresca. Proprio al �grande dio che splende in cielo� pare rimandi l'antichissima parola sarda che d� titolo ad Assandira. C'� chi ipotizza invece un suo riferimento ad Astarte, la dea madre dei fenici, di cui sarebbe un soprannome. In ogni caso, ass'andira indica un canto tradizionale per intercalari che �si canta anche in chiesa�, come nel film ricorda un personaggio minore. Con questa parola sacra, che viene dal fondo del tempo, Mario e Grete chiamano l'agriturismo che hanno preteso da Costantino. Attorno alla loro pretesa, e alla seriet� negata e bestemmiata, si sviluppa il racconto tragico - una tragedia, in senso stretto - che Salvatore Mereu ha tratto da un libro dell'antropologo e scrittore sardo Giulio Angioni (Sellerio, 2004). Come in ogni tragedia, sul racconto gravano morte e colpa. Quando il film inizia, il nero della notte e una pioggia battente avvolgono quel che � accaduto, e pare vogliano nasconderlo. Nel buio, a malapena si intravede un uomo, Costantino, stringere a s� un corpo riverso a terra. Si capir� poi che un incendio ha divorato Assandira, e che Mario � morto nel tentativo di vincere la forza del fuoco. Disperato, Costantino non vorrebbe separarsi da quel che resta di suo figlio. �Sono io il responsabile - dice la sua voce fuori campo -, non ci ho saputo badare�. Badare a un figlio, prendersene cura, � il compito di un padre, un compito vero, serio e forte quanto il grande dio che splende in cielo. Cosa resta ora a Costantino, se non fingere di servire a qualcosa? Cosa pu� dargli l'illusione che la sua vita abbia ancora senso, se non il tentativo doloroso di afferrare e svolgere il filo nascosto di ci� che � accaduto, tanto al figlio quanto a lui? Cos� si domanda, prima dentro di s� e poi di fronte al magistrato inquirente. Non lo interroga, il dottor Pestis (Corrado Giannetti), ma gli parla e lo ascolta con un rispetto profondo, partecipando alla sua sofferenza e a quella, tacita, della sua terra bruciata. Costantino vuole trovarlo, quel filo nascosto che potrebbe forse sciogliere la sua colpa, o almeno acquietarla dandole nome e forma. Questo il vecchio sente come suo obbligo morale, e anzi pi� che morale. Lo deve alla seriet� del proprio mondo e al suo ordine antico. Andando pi� volte a ritroso di qualche mese, e poi tornando al presente, la sceneggiatura racconta dunque di come Mario e Grete abbiano fatto di Assandira un gioco per turisti. Parte del gioco � diventato anche Costantino, che si � lasciato convincere a recitare per loro la parte del bandito, con tanto di stivali e di fucile in spalla. Gioco � diventata la monta di una giumenta, che quei turisti applaudono come fossero in un qualunque squallido programma televisivo. Gioco � diventato il �fogu aintru�, il sigaro fumato tenendo il fuoco in bocca, come i ladri di pecore e come i fanti della brigata Sassari che durante la Grande Guerra attraversavano le tenebre per andare a innescare mine con micce cortissime, per sorprendere il nemico. E gioco � diventato il mestiere del pastore, �bestemmiato� da Mario, che pastore non � mai stato, mettendo in scena - alla lettera - il rito faticoso e antico della mungitura. La mungitura non � gioco, lo aveva rimproverato il padre, �nessun bambino lo ha mai giocato�. Ma poi aveva ceduto, un po' per il figlio e per Grete, un po' perch� preso lui stesso dal gioco. Come si chiamerebbe tutto questo, qualora a raccontarlo fosse un autore tragico della Grecia classica, se non hybris, tracotanza, eccesso, rottura dell'ordine? Il gioco ha capovolto in menzogna e illusione Assandira. Hybris � stata certo quella di Mario, che ha pagato con la morte la propria colpa. E hybris � stata ancor pi� quella di Costantino. Se il figlio non � mai stato pastore, se non pensa pi� nella sua lingua antica, il padre invece ha sofferto e conosce la seriet� della propria terra. Questo � il fuoco che davvero gli brucia dentro. Questa � la sua colpa, che ha pagato con il dolore pi� grande che un padre possa soffrire. Poco conta come e perch� Mario sia morto. Poco conta quello che Costantino ha o non ha fatto, come sa bene il dottor Pestis. Conta la tracotanza, conta l'eccesso, conta la hybris di fronte alla seriet� antica del grande dio che splende in cielo. L'ultima dei Medici (di Irene Merli, �Focus Storia� n. 173/21) - Se Firenze � unica al mondo lo deve alla principessa Anna Maria Luisa, che rese inamovibile il patrimonio artistico della sua casata rimasta senza eredi. - Il 18 febbraio 1743 Firenze � spazzata da un terribile temporale. Sir Horace Mann, console britannico alla corte del Granducato di Toscana, scrive: �l'Elettrice si � spenta un'ora fa; [...] � voce popolare che se ne � andata in una bufera di vento; ce n'� stata una violentissima stamani, e ha durato per circa due ore, e ora il sole risplende come prima [...]. Le persone indigenti, dimenticate dal testamento, sono convinte che il diavolo � venuto a prenderla in quel temporale che scoppi� cos� improvvisamente quando stava per morire, e si calm� al momento del trapasso�. Eh gi�, i fiorentini mugugnano. Anna Maria Luisa de' Medici, l'elettrice del Palatinato, � morta proprio nei giorni di Carnevale: non poteva campare sino a inizio Quaresima? Ora le sue onoranze funebri impediranno ogni mascherata. Ma avevano lo sguardo corto, loro e sir Mann. Perch� l'ultima della dinastia che aveva fatto grande la citt� del giglio non era stata da meno dei suoi importanti avi. E ben prima di morire, quando gli austriaci erano arrivati a governare il suo Granducato, aveva trovato il modo di conservare a Firenze lo sbalorditivo patrimonio della sua casata, assicurandole quasi tutto il patrimonio artistico che la rende ancora unica nel mondo. Se non fosse esistita Anna Maria Luisa, non potremmo ammirare la Galleria degli Uffizi, Palazzo Pitti, il Giardino dei Boboli, le Cappelle Medicee, la Biblioteca Laurenziana, il Museo di Galileo, il David di Donatello e altre meraviglie ancora. Inimmaginabile. Ma facciamo un passo indietro per capire chi era questa donna cos� lungimirante. Anna Maria Luisa nacque nel 1667 da uno dei matrimoni peggio assortiti dell'intera dinastia, quello tra Cosimo III, il granduca di Toscana, e la duchessa Marguerite Louise d'Orl�ans, cugina del Re Sole, che non sopportava n� Firenze n� il marito, cui pure diede tre figli: Ferdinando Maria, Gian Gastone e la nostra protagonista. Nonostante l'inquieto clima familiare Anna Maria Luisa crebbe bella e forte d'animo: si dice che l'avvenenza le venisse dalla capricciosa madre francese, mentre la mente da capo di Stato e il carattere fiero dal padre (che la adorava) e dalla nonna Vittoria Della Rovere, che la crebbe. Marguerite, infatti, se ne torn� in Francia per sempre quando la piccola aveva 8 anni. Cos� fu Vittoria a insegnare alla ragazzina a sentirsi fiera di essere una Medici, oneri e onori. Del resto Palazzo Pitti e i suoi giardini erano luoghi degni di una stirpe regale, e nella galleria di famiglia, che la bimba percorreva spesso con la nonna, comparivano due antenate che erano diventate regine di Francia: Caterina e Maria. Anna Maria Luisa riceve quindi un'ottima educazione: studia il latino, il francese e il tedesco, la musica e il canto. Abituata com'� a vivere tra tesori d'arte collezionati dalla famiglia da secoli, conosce e apprezza pittura, scultura e architettura. Non solo. Cavalca come un uomo, va a caccia e ama la buona tavola. Per una simile fanciulla il padre doveva cercare un matrimonio importante, che desse lustro a una casata in declino. �Quando Anna Maria Luisa aveva 16 anni, nel 1683, Cosimo III pens� di darla in moglie a Vittorio Amedeo II, figlio del duca di Savoia, che aveva ricevuto il titolo regale�, spiega Barbara Frale, storica dell'Archivio Vaticano e consulente scientifica con Franco Cardini della serie televisiva I Medici. �Voleva fare di lei la regina d'Italia. Ma la Francia si oppose all'idea di mezza Penisola unificata�. Le trattative per l'ereditiera d'oro, dopo una ridda di pretendenti, si indirizzarono allora sul potente elettore palatino, il principe Johann Wilhelm von Pfaltz-Neuburg, vedovo di una Asburgo, che si innamor� di lei vedendo un suo ritratto. Cos� l'elettore e Anna Maria Luisa si sposarono per procura il 29 aprile 1691 nel Duomo di Firenze, con gran fasto. Al banchetto di nozze, un contemporaneo descrisse cos� la principessa: �Nella sua persona, � alta, ha una carnagione chiara, occhi grandi ed espressivi, neri come i capelli, la bocca piccola, labbra piene e denti bianchi come avorio�. Anna Maria Luisa part� poi per Dusseldorf, per incontrare il marito, accompagnata dal fratello minore Gian Gastone. Ma Johann Wilhelm, impaziente, le and� incontro a Innsbruck, in Austria, per le nozze ufficiali. L'unione fra i due per fortuna fu serena, cementata da un sincero affetto e dal comune interesse per l'arte e la musica. Le giornate nella nuova corte tedesca, che apprezzava la grande raffinatezza della sposa italiana, passavano fra feste, spettacoli teatrali, balletti, concerti. L'elettrice fece addirittura edificare un teatro dove si rappresentava Moli�re e insieme al marito costruirono un sontuoso castello a Bensberg dove poterono sfogare la passione per il mecenatismo, chiamando maestri fiamminghi, olandesi, italiani e tedeschi. Ma il loro matrimonio rest� senza eredi. E quando l'elettore mor� nel 1716, la principessa vedova torn� nella citt� che le era sempre rimasta nel cuore. Negli anni vissuti in Germania, infatti, visitando molti borghi, aveva continuato a pensare che per �voler che queste citt� paressero belle, bisognerebbe non essere nata a Firenze�. Il suo ricordo non l'aveva mai abbandonata, e l'elettrice aveva sempre mantenuto fitti legami epistolari con il padre, parenti e amici. Al ritorno �a casa�, un anno dopo la scomparsa del marito, Anna Maria Luisa trov� una situazione difficile: il fratello maggiore, Ferdinando, era morto di sifilide nel 1713 e non aveva avuto figli, il fratello Gian Gastone, sposato a forza ad Anna Maria Francesca di Sassonia (lui era omosessuale), la detestava per aver caldeggiato le sue nozze infelici e si era rivelato sterile pure lui. Sugli ultimi tre Medici sembrava essere caduta una maledizione. Il padre, ormai molto anziano, fu l'unico che l'accolse con gioia e visto il disastro compiuto dai figli maschi cerc� con ogni forza di fare di lei il suo successore. Ma dall'Europa ancora una volta arriv� un no deciso a una granduchessa regnante e ad Anna Maria Luisa rest� solo il titolo di prima donna del Granducato. Nel 1723, dopo aver regnato per 53 anni (il regno pi� lungo della dinastia), Cosimo III mor�. A succedergli fu il debole e debosciato Gian Gastone. Quando anche lui se ne and�, nel 1737, lasci� la Toscana in bal�a delle mire di Spagna e Austria. A prevalere furono gli Asburgo e quindi, con l'estinzione del casato Medici per mancanza di eredi, il Granducato di Toscana pass� sotto il controllo del duca di Lorena; ad Anna Maria Luisa andarono tutti gli sbalorditivi tesori d'arte della famiglia, le vesti di Stato, le propriet� nel Ducato d'Urbino (eredit� della nonna Vittoria della Rovere), oltre a un'ingente somma di denaro. E le venne concesso di rimanere a vivere in un'ala di Palazzo Pitti come un'ospite: riceveva sotto un baldacchino listato di nero nella sala delle udienze e viveva tra mobili tutti d'argento, dai tavoli ai paraventi. Tutto sembrava finito tristemente, per i Medici. In citt� era arrivato un pacchiano principe francese a governare in nome degli Asburgo-Lorena. Ma � qui che avvenne il colpo di scena. La volitiva Anna Maria Luisa, orgogliosa della sua dinastia, del suo cognome e della sua splendida citt�, aveva consultato febbrilmente gli avvocati per evitare quello che aveva visto avvenire a Parma, a Urbino e a Ferrara: i capolavori di propriet� della casata decaduta portati nelle capitali dei nuovi dominatori o dispersi in mille rivoli sul mercato. Cos�, al momento di nominare suo erede universale Francesco di Lorena, quella donna intelligente, coltissima e lungimirante tir� fuori dalla manica l'asso di cuori: il cosiddetto Patto di Famiglia. Con questa Convenzione stipulata nel 1737, al terzo articolo la principessa �cede, d� e trasferisce al presente S.A.R. (Sua Altezza Reale) per Lui, e i Suoi Successori Gran Duchi, tutti i Mobili, Effetti e Rarit� della successione del Serenissimo Gran Duca suo fratello, come Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche, Gioie ed altre cose preziose, siccome le Sante Reliquie e Reliquiari, e loro Ornamenti della Cappella del Palazzo Reale, che S'A'R' si impegna di conservare, a condizione espressa che di quello [che] � per ornamento dello Stato, per utilit� del pubblico e per attirare la curiosit� dei Forestieri, non ne sar� nulla trasportato, o levato fuori della Capitale, e dello Stato del Gran Ducato�. Capita la mossa? Molto tempo prima delle moderne leggi di conservazione e tutela del patrimonio culturale, Anna Maria Luisa de' Medici sapeva che quelle opere erano Firenze e che Firenze era quelle opere, allora come oggi. Nel Patto di Famiglia menzionava gli oggetti appartenenti alla sua casata, realizzati o acquistati per passione dai Medici uno per uno: non dovevano servire per pagare i debiti degli austriaci! La principessa decise cos� di legare tutto il complesso dei beni delle collezioni medicee alla citt�, rendendo impossibile spostarli dai luoghi originari o venderli. Con il Patto di Famiglia vincol� quei preziosi tesori a Firenze, alla sua storia e alla sua gloria. E l'accordo era cos� chiaro che quando arriv� Napoleone non riusc� a portare via nulla, proprio perch� mai l'avevano potuto fare i Lorena, astutamente definiti �conservatori� di bellezze inamovibili. Cos�, Anna Maria Luisa fu l'ultima grande mecenate di casa Medici, al pari di Lorenzo il Magnifico e il Piero il Gottoso. Ma quanti di quelle migliaia di turisti che si accalcano a Firenze la conoscono e sanno ci� che aveva acutamente pensato e tenacemente voluto per �utilit� del pubblico e attirare i forestieri�? Se vi capiter� di andare o di tornare alla Galleria degli Uffizi, appena entrati, guardate il grande ritratto di una bella donna bruna in abiti settecenteschi, proprio sopra la biglietteria. Vedrete lei, l'ultima dei Medici, pronta ad accogliervi in quella che per tre secoli � stata la casa della sua �magnifica� famiglia. In morte e in malattia Sulla salute (e sulla morte) di Anna Maria Luisa de' Medici, girava voce che fosse malata di sifilide, infezione a trasmissione sessuale passatale, sempre secondo le malelingue, dal marito. Proprio questa malattia sarebbe stata la causa della sua sterilit� (si rec� anche alle terme di Aquisgrana per curarla) e, in seguito, della sua morte. Ci ha pensato la scienza, molti anni dopo, a fare chiarezza. Quando nel 2012 sono state riesumate le ossa della Medici (dalla Chiesa di San Lorenzo, all'epoca non ancora completa e per la quale la nobildonna aveva destinato una parte delle proprie rendite in perpetuo fino alla conclusione dei lavori), l'esame del Dna ha escluso la sifilide e ha rivelato un probabile tumore al seno. In effetti era difficile a quell'epoca arrivare a 75 ani - et� in cui mor� - con il morbo gallico, mentre anche il console britannico sir Horace Mann parl� di morte per un �forte peso al petto�. Quanto al marito, mor� a 58 anni per attacco al cuore.