Agosto 2016 n. 8 Anno I Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Copia in omaggio Indice Piani di vita Che cosa insegna la letteratura Giacomo Manz�: l'artista bergamasco amico di Papa Giovanni Piani di vita (di Valeria Ottonelli, "il Mulino" n. 3/2016) In Italia il 36% dei giovani � disoccupato. Il tasso di disoccupazione generale rimane al di sopra dell'11%. L'et� in cui le donne hanno il primo figlio � sempre pi� alta. Molti rinunciano ad avere figli, o non ci riescono come conseguenza ultima di una serie concomitante di fattori economici e sociali avversi. Quasi la met� degli italiani fra i 25 e i 34 anni vive ancora con i genitori. Il quadro generale che dipingono questi dati, a tutti noti ormai da tempo, � quello di una generazione svantaggiata, che sa gi� ora che non avr� accesso a beni e traguardi che per le generazioni precedenti potevano essere sperati, se non garantiti. Cos� si � sentito spesso ripetere, in questi anni, che "ai giovani � stato rubato il futuro". Ma ovviamente, e fortunatamente, questa espressione non � vera in senso letterale. E non � giustificata dal mero novero delle afflizioni economiche e sociali che toccano le ultime generazioni. � vero che i trentenni e i ventenni di adesso, in media, hanno accesso a risorse economiche e sociali pi� scarse rispetto alle generazioni precedenti. � presumibile che molti di loro godranno, nel corso della loro vita, di un benessere minore. Avranno accesso a servizi sanitari di qualit� pi� scadente. Molti non avranno la possibilit� di mettere al mondo dei figli, o lo faranno in condizioni di grande difficolt�. Forse si adatteranno a fare lavori per i quali sono sovraqualificati, o a cambiare spesso lavoro senza mai accumulare sufficienti competenze in nessuno. Ma si pu� per questo dire che i giovani non hanno un "futuro"? Se presa in senso letterale, o semplicemente intesa come un giudizio comparativo di povert�, questa affermazione non risulta convincente. Tuttavia c'� un senso diverso nel quale si pu� dire che le nuove generazioni sono private del loro futuro. Questo senso fa riferimento non alla durata temporale delle loro vite, o alla quantit� delle risorse di cui disporranno, ma alla capacit� di gestire l'una e le altre facendo piani a lungo termine su come spendere la propria esistenza. Il futuro in gioco, in altre parole, � la proiezione nell'avvenire che ciascuno fa delle proprie aspettative, dei propri progetti e delle proprie mete. � questa capacit� progettuale a lungo termine che per le nuove generazioni � significativamente decurtata. Il "futuro", se inteso in questo modo, non � una risorsa fra le altre, ma in un certo senso � il bene stesso per cui abbiamo bisogno di ogni altra risorsa, compreso il tempo. � la capacit� di formare e portare a termine un "piano di vita". Questo � il bene fondamentale che viene sottratto alle persone quando la mancanza di opportunit�, la precariet� dell'impiego, la paura di subire cambiamenti drastici e improvvisi delle proprie condizioni di vita senza un'adeguata rete di protezioni sociali e istituzionali le costringe a vite provvisorie e a piani di breve periodo. Non si tratta solo di una perdita in termini di soddisfazione di bisogni, di tenore di vita o di appagamento di desideri, ma un danno che tocca pi� profondamente la stessa capacit� di concepire la propria esistenza. Ma perch� la capacit� di formare un "piano di vita" a lungo termine dovrebbe essere cos� importante? Perch� ci si dovrebbe lamentare di "non poter progettare il futuro", anzich� semplicemente di non poter fruire di certi servizi, o di godere di certi beni? Ad alcuni la risposta a questa domanda parr� ovvia. Ad altri, in un'epoca di esaltazione della flessibilit�, della mobilit�, del cambiamento costante, non lo sembrer� affatto. La convinzione che il bene delle persone consista nel realizzare un piano di vita, e che le persone stesse debbano essere concepite come vite vissute secondo un piano, � stata definita come "quintessenzialmente moderna". In realt�, gi� Aristotele nell'Etica a Eudemo afferma che "chi � in grado di scegliere come vivere deve adottare un qualche fine per la propria vita", ossia deve ragionare su quali siano i valori e gli obiettivi degni di essere perseguiti e organizzare le proprie azioni di conseguenza. La concezione della felicit� personale come esecuzione di scelte pianificate e pensate, dunque, non � affatto nuova. Ci� che � quintessenzialmente moderno sono invece due presupposti ulteriori, che hanno avuto un enorme impatto e significato politico. Il primo � che la scelta dei fini fondamentali intorno ai quali organizzare la propria esistenza debba essere guidata non solo dalla morale, dalla ragione e dalla prudenza, ma anche dalla ricerca di quello che esprime realmente la nostra personalit� e quindi ci render� felici. Ciascuno di noi, secondo questa idea, ha un senso speciale e particolare di "quello che vuole fare nella vita" ed � non solo legittimo, ma anche auspicabile che la vita delle persone sia guidata da questo senso speciale della propria esistenza. Il secondo presupposto � che questo tipo di vita non sia appannaggio di pochi privilegiati - coloro che, come dice Aristotele, "sono in grado di scegliere" - ma di tutti, ossia che esista un diritto fondamentale di ciascuno, come recita la Dichiarazione di indipendenza americana, alla "ricerca della felicit�" secondo i propri fini. L'idea che le persone siano "vite vissute secondo un piano", come scriveva Josiah Royce all'inizio del secolo scorso, non si applica solo alle vite grandi, esemplari o eccellenti, ma a ogni singola esistenza umana. La ricerca della felicit� come realizzazione del proprio piano di vita coniuga ed estende a ogni singolo individuo due dimensioni diverse dell'autonomia personale. La prima riguarda la scelta della propria concezione del bene e dei valori e fini fondamentali che dovranno regolare la propria esistenza. � solo in epoca moderna che questo ideale si afferma pienamente sotto forma di "realizzazione di s�". Le persone non sono pi� definite dai ruoli sociali, dalla tradizione o dall'appartenenza familiare. La loro opposizione alle convenzioni non � pi� richiesta o giustificata solo da ragioni di coscienza religiosa o di lealt� verso il proprio gruppo sociale di origine, ma prima di tutto dalla rivendicazione della propria individualit� e del diritto a scegliere come vivere. A met� dell'Ottocento John Stuart Mill, nel suo Saggio sulla libert�, produce una delle perorazioni pi� famose e convinte di questo principio fondamentale della scelta individuale: "Perch� la natura di ciascuno di noi abbia ogni opportunit� di esplicarsi, � essenziale che sia consentito a persone diverse di condurre vite diverse... Se una persona � dotata di un minimo tollerabile di buon senso e di esperienza, il suo modo di plasmare la propria esistenza � il migliore, non perch� lo sia di per se stesso, ma perch� � il suo". La seconda dimensione dell'autonomia personale che � costitutiva dell'idea di piano di vita ha a che fare con la programmazione nel tempo delle azioni necessarie per realizzare i propri fini. Siamo agenti autonomi non solo nel senso che scegliamo i valori e la concezione del bene che riteniamo pi� giusti o migliori per noi, ma anche nel senso che ci impegniamo in prima persona per la loro realizzazione e facciamo in modo di perseguire fini e scopi adeguati alla nostra visione del mondo. Quando scegliamo che cosa fare della nostra vita dobbiamo contemperare e bilanciare i nostri valori morali, i doveri che riconosciamo nei confronti degli altri, le nostre aspirazioni, la nostra visione di ci� che conta veramente nella vita e la nostra cura per il soggetto che saremo nel futuro. Nell'idea di "piano di vita" l'autonomia come autorealizzazione e l'autonomia come pianificazione sono strettamente interrelate. La pianificazione ha valore e senso in quanto � messa al servizio di scelte autonome e volontarie, ossia di ci� che il soggetto realmente vuole. Ovviamente ci pu� essere agency e dispiego di intelligenza anche nelle situazioni drammatiche in cui bisogna lottare per sopravvivere, o si � costretti a far fronte a infortuni imprevisti che sconvolgono le nostre vite. Per� uno stato di necessit� costante, che costringe all'esercizio di una razionalit� di breve periodo e finalizzata alla mera sopravvivenza, mina il senso stesso in cui la pianificazione � espressione di autonomia personale. Solo la pianificazione che obbedisce a un progetto volontario di vita possiede per l'individuo quel particolare valore che � dato dalla realizzazione della visione speciale e unica che ciascuno ha della propria esistenza. D'altro canto, e per converso, la semplice scelta dei propri fini o della propria "concezione del bene", se non � accompagnata da una pianificazione volta a realizzarli e a metterli in pratica, rende sterile e inutile il senso stesso della scelta. � solo la pianificazione che d� significato e unit� alle scelte che facciamo, rendendole decisioni di un soggetto unico e indivisibile, anzich� esercizi discreti di gusti idiosincratici ed estemporanei. Fare scelte di vita significa prendere un impegno rispetto a fini e obiettivi e trovare il modo migliore, per noi, per armonizzarli e farli parte di un unico percorso esistenziale. I nostri piani di vita e le scelte concrete che facciamo per metterli in pratica testimoniano a noi stessi l'importanza e il valore dei fini e dei principi che abbiamo scelto a guida delle nostre esistenze. L'idea delle persone come portatrici di un piano di vita ha avuto un ruolo fondamentale nella giustificazione non solo delle libert� fondamentali, ma anche dell'egualitarismo liberale. Le istituzioni devono eguale considerazione a ogni individuo, secondo questa visione, esattamente perch� ciascuno � portatore di un progetto che � espressione di un modo unico e infungibile di interpretare la vita, e per questo ha valore insostituibile. Bernard Williams, in un importante saggio sui fondamenti dell'egualitarismo, ha sostenuto che nella nostra epoca la concezione dell'individuo come portatore di piani, progetti e aspirazioni � la ragione per cui, a dispetto delle differenze di capacit�, indole e ruolo sociale delle persone, riteniamo di dover riconoscere a ciascuno pari dignit�, importanza e rispetto. Nel manifesto dell'egualitarismo liberale pubblicato all'inizio degli anni Settanta da John Rawls, la Teoria della giustizia, non solo le libert� e i diritti civili, ma anche politiche economiche fortemente redistributive sono difese in nome dell'idea che la societ� debba creare le condizioni in cui ciascun individuo pu� disporre del massimo di risorse per perseguire il proprio piano di vita. Sono i piani di vita delle persone, e la loro possibilit� di perseguirli, a essere l'oggetto proprio di una teoria della giustizia. Nonostante abbia avuto un ruolo fondamentale nella nostra tradizione culturale e nella difesa dei valori di libert� e di eguaglianza, l'idea che il perseguimento di un piano di vita costituisca il bene principale delle persone, come dicevamo, non risulta affatto ovvia a tutti. In effetti, nel nostro discorso pubblico tende ad essere screditata. Le critiche provengono da due versanti opposti. Da un lato, questa concezione appare appiattita su un ideale ragionieristico del senso della vita. Le esistenze completamente pianificate, nelle quali � deciso sin dall'inizio che lavoro si far�, quando ci si sposer�, quando si avranno dei figli, quanti se ne avranno, e magari anche dove si vuole vivere, sembrano terribilmente noiose. Nella letteratura filosofica, questa critica � stata sviluppata da autori che hanno messo in discussione l'idea che il bene o la felicit� delle persone dipenda dalla pianificazione. Come ha osservato Charles Larmore, spesso accade che eventi inattesi e certamente non progettati ci conducano alla felicit� senza che abbiamo nessuna parte attiva nel processo. Il nostro bene, a volte, pu� essere "scoperto" attraverso esperienze inaspettate che cambiano completamente il corso della nostra vita. Nel nostro discorso pubblico, queste considerazioni si traducono spesso in un giudizio censorio sull'atteggiamento nei confronti della vita di chi ritiene di poter pianificare la propria felicit�. Le esigenze di sicurezza, le garanzie, la continuit� delle relazioni e la stabilit� dell'impiego, che sono le condizioni necessarie per sviluppare piani di vita a lungo termine, sono liquidate come espressioni di un'indole pavida e di una mentalit� chiusa e retriva, incapace di aprirsi al nuovo e al cambiamento. L'impiegato devoto al "posto fisso", o il giovane che recalcitra all'idea che per trovare lavoro dovr� trasferirsi a migliaia di chilometri dal luogo in cui aveva progettato di vivere, sono ormai diventati emblemi caricaturali di una radicale incapacit� di vivere pienamente. L'esaltazione dell'ignoto e dell'imprevisto come fattore di felicit� umana, in realt�, tende a sovrastimarne l'importanza nelle nostre vite, e soprattutto la desiderabilit�. � vero che, come nota Larmore, a volte sconvolgere la nostra vita � l'unico modo in cui possiamo trovare la felicit�. Per� non � una cosa che ci auguriamo che ci capiti. Questo perch� per noi � importante pensare di poter controllare le nostre vite e sapere che non siamo semplicemente in bal�a degli eventi. Ma ancora di pi� perch� il sapere che la felicit� che otteniamo � frutto dei nostri sforzi e delle nostre scelte aumenta la nostra soddisfazione. � ci� che ci d� il senso di essere creatori di valore anzich� - quando ci va bene - semplicemente beneficiari di fortune inaspettate. Ma la condanna di chi non riesce ad "aprirsi all'ignoto" che spesso si incontra nel nostro discorso pubblico � opinabile anche per un'altra ragione. Dietro a questa estetica dell'incognito e della conversione come elementi essenziali del bene umano spesso si cela un senso elitario di commiserazione per quelle che vengono considerate come "piccole vite". Ci� che si contesta a queste esistenze non � la mancanza di apertura all'ignoto, ma i fini prescelti, che vengono considerati poco ambiziosi o mediocri. Questi discorsi, cos�, contestano l'idea di piano di vita esattamente per una delle ragioni per cui questa nozione ha avuto un ruolo fondamentale come ideale politico egualitario, ossia il principio che, se si guardano le vite dall'interno, cio� dal punto di vista dei soggetti, non si pu� fare alcuna distinzione fra "piccole vite" e "vite eccellenti". L'unica distinzione importante � fra le vite che sono soffocate dalla mancanza di risorse e opportunit� di scelta e quelle che sono invece libere di essere condotte secondo i fini e i gusti di chi sta cercando la propria felicit�. Su un fronte opposto, ma egualmente critico dell'idea di piano di vita, c'� il sospetto che questa visione delle persone sia improntata a un'etica dell'autoimprenditorialit�, a una concezione fortemente atomistica della societ�, alla riduzione del soggetto a homo oeconomicus e a una responsabilit� assoluta per il proprio destino che sono funzionali alla rampante ideologia neoliberale. Secondo questa linea di pensiero, la "riflessivit�" incoraggiata dall'etica del piano di vita andrebbe di pari passo con la destrutturazione dell'universo sociale e una solitudine sempre maggiore dell'individuo di fronte alle insidie della societ� del rischio. In base a questa visione, la societ� contemporanea non � affatto avversa alla pianificazione individuale. Anzi, vale il contrario: per tutti, ma soprattutto per le nuove generazioni, si afferma sempre di pi�, e con sempre maggiori rinforzi e pressioni sociali, un'etica dell'autoimprenditorialit� che richiede al soggetto un vaglio costante e accurato dei propri talenti e potenzialit�, un'attenzione spasmodica per le occasioni di affermazione, la coltivazione della stima di s� come presupposto del successo personale e un'accurata pianificazione delle proprie energie e delle proprie risorse. Questa denuncia delle richieste continue e pressanti di pianificazione alle quali la societ� sottopone l'individuo in misura sempre crescente � basata su fatti innegabili e ormai documentati da una copiosa letteratura sociologica. Tuttavia, � sicuramente sbagliato considerare questi fenomeni come uno sviluppo inevitabile della concezione moderna della persona come piano di vita. L'idea di piano di vita che � al centro della riflessione di autori come John Stuart Mill o Josiah Royce non � affatto espressione di una visione economicista e atomistica della societ�. � certamente vero, infatti, che la possibilit� di concepire le persone come portatrici di un piano di vita � un prodotto tipicamente moderno, reso possibile dalla liberazione degli individui dalle strutture e modelli sociali tradizionali. Tuttavia, come ha osservato Anthony Appiah, ha senso concepire un piano di vita solo laddove � possibile la scelta fra modelli e ruoli dotati di significato, la cui esistenza � necessariamente data da un contesto sociale e culturale di riferimento. Inoltre, la scelta e il perseguimento dei piani di vita � profondamente dipendente dal contesto sociale anche in un altro senso. Quando Josiah Royce, all'inizio del secolo scorso, produce la sua influente difesa dell'idea che le persone siano "vite vissute secondo un piano", ci� che intende contrastare � esattamente la convinzione che rivendicare l'autonomia personale significhi agire in base a un vuoto principio di autoaffermazione individuale. Ciascuno di noi diventa soggetto, secondo Royce, solo attraverso l'adesione a una "causa", ossia a valori che riteniamo debbano essere perseguiti nel contesto della societ� in cui agiamo. Il bene individuale, secondo questa idea, � intimamente legato agli scopi pi� generali della societ� di appartenenza. E laddove la societ� � disgregata dalla perdita di fini comuni, o corrotta dall'ingiustizia, il senso stesso delle vite individuali viene compromesso; anche se ci � dato di scegliere la nostra vita, il significato di quello che facciamo, infatti, � dato dall'orizzonte sociale pi� ampio in cui si inseriscono le nostre azioni. Ma l'idea che la possibilit� di formare piani di vita dipenda strettamente dal contesto sociale di appartenenza � vera anche in un altro senso, pi� prosaico. La capacit� di progettare a lungo termine e di scegliere la propria vita non � un fatto naturale, ma dipende dall'esistenza di strutture sociali in grado di proteggerci dai rischi associati alle scelte che facciamo e dagli eventi fortuiti che possono sconvolgere la nostra esistenza. Cos�, se � certamente vero che la concezione moderna delle persone come "piani di vita" � stata resa possibile dall'affermazione delle libert� personali, dalla liberalizzazione delle professioni, e dall'apertura del mondo della conoscenza e dell'informazione, � anche vero che la possibilit� di progettare la propria vita dipende essenzialmente non solo da libert�, ma anche da garanzie e sicurezze. La nozione di piano di vita, nel pensiero egualitario liberale, � servita esattamente a spiegare perch� le istituzioni dovessero offrire tutele capaci di accomodare e proteggere ogni esistenza - e specialmente quelle apparentemente pi� eterodosse - in modo da non svantaggiare nessuno dei percorsi individuali che ciascuno di noi sceglie di compiere. � in nome di questo ideale, ad esempio, che sono stati rivendicati diritti e tutele speciali per le minoranze culturali e religiose, affinch� potessero conciliare la propria fede e le proprie tradizioni con ogni altro ambito della vita sociale. � in nome del principio dell'accomodamento dei piani di vita che � stato rivendicato il diritto a un reddito di cittadinanza che metta le persone al riparo da qualsiasi ricatto economico, compreso l'obbligo del lavoro, e le renda effettivamente libere di perseguire i loro progetti di vita. Esiste cos� una differenza di scopi e di intenti fondamentale tra la concezione dei piani di vita come espressione della dignit� e della eguaglianza di ogni individuo e l'iperpianificazione oppressiva denunciata da molte analisi della costruzione del soggetto nella societ� contemporanea. La linea di demarcazione di questa differenza sta nell'allocazione dei rischi associati alle scelte individuali. Se prendiamo sul serio l'idea che ogni individuo abbia il diritto di provare a fare ci� che vuole della propria esistenza, allora i costi delle scelte, comprese quelle che possono apparire rischiose, improduttive o dispendiose, saranno socializzati. Questo significa ad esempio che la societ� sar� pronta a fornire le risorse e i cambiamenti istituzionali necessari a far s� che coloro che perseguono attivit�, professioni e stili di vita che non risultano particolarmente redditizi avranno comunque garantito un tenore di vita dignitoso. Le istituzioni faranno in modo di accomodare i piani di chi sceglier� di avere molti figli (o di non averne), senza che queste scelte abbiano ricadute negative sul resto della sua esistenza. Inoltre, le istituzioni saranno fatte in modo da tutelare le persone contro cambiamenti repentini delle condizioni di vita e del mercato del lavoro, permettendo loro di non dover gettare alle ortiche le conoscenze e l'investimento personale nella professione che hanno scelto. Cercheranno di garantire un mondo sociale per quanto possibile stabile, in cui le persone siano in grado di fidarsi del futuro e pianificare a lungo termine coltivando i propri interessi genuini. D'altra parte, se la pianificazione individuale potr� trasformarsi in un esercizio oppressivo nella misura in cui sar� semplicemente messa al servizio di fini ulteriori e diversi rispetto alla libert� dell'individuo, come l'efficienza economica del sistema, allora ci� risulter� evidente dal fatto che in questo caso i rischi delle scelte di vita tenderanno ad essere sempre pi� internalizzati, cio� fatti ricadere sulle spalle del soggetto che pianifica. I piani di vita, allora, saranno trattati come qualsiasi altro progetto e investimento, che � soggetto a fallimento e ha successo solo nella misura in cui riesce a sopravvivere sul mercato. In uno scenario del genere potr� sembrare che le scelte e le opzioni per gli individui si moltiplichino all'infinito, addirittura al punto da creare un'abbondanza paralizzante. In realt�, questa apparente sovrabbondanza di opzioni sar� semplicemente funzionale a rendere l'individuo responsabile dei rischi e a spostare interamente sulle sue spalle il peso delle sue scelte di vita, rendendole rischiose e costosissime, e perci� spesso impraticabili. La richiesta di pianificazione accurata di ogni scelta di vita e il calcolo ossessivo dei rischi che sembrano gravare sempre pi� sul soggetto contemporaneo, cos�, non sono la piena e compiuta realizzazione dell'idea che le persone siano "vite vissute secondo un piano", ma ne costituiscono l'esatta negazione. Addossare all'individuo i costi delle sue scelte di vita significa semplicemente, in molti casi, privarlo della possibilit� di scegliere. Ma implica innanzitutto disconoscere il valore dei piani di vita delle persone e il fatto fondamentale che il modo in cui ciascuno individuo plasma la sua esistenza ha valore - per dirla con Mill - non per via dei suoi ritorni o dei suoi costi, ma semplicemente per via del fatto che "� il suo". Si pu� ritenere che la socializzazione dei costi dei piani di vita sia un'ideale troppo ambizioso per una societ� come la nostra, che si trova ad affrontare ormai da anni una pesante crisi economica. Tuttavia, la chiusura del discorso pubblico rispetto a questo tema non dipende solo da mancanza di risorse ed � iniziata ben prima dell'avvento della crisi; � la stessa idea che le persone abbiano diritto a perseguire il loro piano di vita ad essere screditata. Si pu� ritenere che un'ampia porzione di quei giovani che sono ritenuti eccessivamente "choosy", di coloro che appartengono alla nuova categoria emergenziale dei "neet" e molti di coloro che protestano perch� non riescono a trovare il lavoro per il quale hanno studiato non siano cattivi pianificatori, ma solo persone i cui piani di vita non trovano spazio n� ascolto. Sempre meno sembrano disponibili non solo le risorse e le strutture sociali che garantirebbero il diritto a perseguire il loro piano di vita, ma le stesse parole e gli argomenti per rivendicarlo. Che cosa insegna la letteratura (di Carola Barbero, "Prometeo" n. 123/13) - Secondo Italo Calvino "poche ma insostituibili" verit� sulla vita, sul mondo e su noi stessi. - "Le cose che la letteratura pu� ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell'amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura pu� insegnare la durezza, la piet�, la tristezza, l'ironia, l'umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili. Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare ad impararlo" ( I. Calvino, Il midollo del leone, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e societ�, Einaudi, Torino 1980). Secondo Italo Calvino la letteratura ha il compito di insegnarci "poche ma insostituibili" verit� sulla vita, sul mondo e su noi stessi. Possiamo quindi concluderne - entrando cos� nel pieno del dibattito, ravvivatosi negli ultimi anni, di estetica letteraria - che la letteratura ha un valore cognitivo? Si tratta di una questione particolarmente centrale, in primo luogo perch� la letteratura, a differenza di tutte le altre forme d'arte, � costituita da insiemi di proposizioni, che sono precisamente quel genere di cose delle quali � legittimo domandarsi se siano vere o false. In secondo luogo perch�, in quanto costituita in senso proprio (e non in senso metaforico, come potremmo dire per le altre forme d'arte) dal linguaggio in funzione semantica, la letteratura si propone esplicitamente come un mezzo del quale un autore si serve per trasmettere dei significati. In terzo luogo perch�, se con "valore cognitivo" intendiamo "conoscenza", allora � evidente come sia fondamentale capire che cosa di preciso si impari o si capisca leggendo un romanzo. Ci sono moltissime conoscenze riguardanti le opere letterarie che mai nessuno oserebbe mettere in discussione: per esempio, che Anna Kar�nina sia stato scritto da Lev Tolstoj, che sia stato pubblicato nel 1877 e che sia un capolavoro della letteratura russa del XIX secolo. Questo � ci� che solitamente etichettiamo come "storia letteraria". Non sono, ovviamente, conoscenze di questo genere che mettiamo in discussione quando ci interroghiamo sul contenuto cognitivo delle opere. Ma che dire dell'aristocrazia russa di fine Ottocento, dell'ipocrisia religiosa di Kar�nin o dell'incapacit� di Anna di riuscire a trovare la felicit�? Possiamo dire di avere imparato qualcosa a tale riguardo leggendo il romanzo? E nel caso, che cosa avremmo imparato? Ossia: come possiamo stabilire il contributo che la letteratura (eventualmente) fornisce all'ampliamento o all'approfondimento di un determinato ambito di conoscenze? Quali sono gli obiettivi, le abilit� e credenze che essa consente di acquisire e/o mettere in discussione? Tra i filosofi � molto diffusa l'opinione, di matrice kantiana, che l'arte - e quindi la letteratura - sia in grado di aprire le porte della conoscenza. Tuttavia, come si legge nell'Analitica del bello (1790), ci� che la fruizione delle opere d'arte rende possibile non � tanto l'apprendimento di qualcosa sul mondo, bens� di come funzionano e cooperano le nostre facolt� conoscitive. A partire da questa idea si � sviluppato un interessante dibattito - che vede schierati cognitivisti contro anticognitivisti - incentrato sul tipo di verit� di cui la forma d'arte letteraria sarebbe portatrice. La maggior parte dei cognitivisti ritiene che quelle artistiche si caratterizzino come verit� generali, talvolta di contenuto filosofico, sul mondo o sul genere umano. Gli anticognitivisti obiettano che, mentre quelle scientifiche sono chiaramente verit� sul mondo, quelle artistiche non � chiaro di che cosa siano verit�; inoltre, anche ammesso che ci siano delle verit� artistiche, sembra che dovrebbero anche esserci delle credenze artistiche corrispondenti, che per� non ci � dato rilevare. Oltre a ci�, gli anticognitivisti osservano come sia parte della definizione stessa di verit� l'idea di poter essere smentita, almeno in linea di principio, ovvero di poter avere un contrario; ma anche in questo caso non sembra semplice riuscire a spiegare quale possa essere il contrario di una verit� letteraria. Queste sono le ragioni per cui gli anticognitivisti - che fanno propria una concezione della conoscenza chiaramente derivata dalla metodologia scientifica, secondo la quale "conoscere" significa "stabilire delle leggi alle quali ricondurre i fenomeni particolari osservati") - accusano la letteratura non solo di non essere scientifica, ma anche di non essere lontanamente paragonabile alla scienza. Una posizione intermedia tra cognitivisti e anticognitivisti � quella che prende il nome di cognitivismo debole (Barbero 2009) e che ritiene possano avere ragione sia i cognitivisti nel sostenere che la letteratura veicoli un contenuto cognitivo, sia gli anticognitivisti, convinti che le opere letterarie non enuncino verit� sul mondo, sulla base dell'idea che la letteratura veicoli verit� sul mondo della finzione e sugli oggetti ed eventi che ne fanno parte. Per certi versi quella tra cognitivisti e anticognitivisti pu� anche essere considerata come una disputa verbale (Lamarque 2006), dal momento che, per fare un esempio, non � chiaro che cosa si debba intendere per "valore cognitivo", se si limiti al contenuto proposizionale, o si estenda a quello non-proposizionale, e inoltre se per "contenuto proposizionale" si debbano intendere solo gli enunciati esplicitamente asseriti dall'autore, oppure anche quelli che possono essere legittimamente inferiti da questi, e cos� via. Ma soffermiamoci brevemente sulle principali posizioni sostenute dagli uni e dagli altri, per capire quali siano i termini della questione e se ci sia un reale disaccordo tra le parti. Secondo Stolnitz (1992) non � possibile derivare un valore cognitivo dalla letteratura che, in quanto composta da enunciati che sono o banali o falsi, non pu� contribuire ad ampliare il dominio delle nostre conoscenze. Stolnitz difende la sua posizione paragonando la presunta verit� della letteratura ad altri tipi di verit� ampiamente condivisi (come le verit� scientifiche), o accettati e difesi da pochi (come le verit� religiose); e ne conclude che non esiste un metodo per arrivare a scoprire la verit� della letteratura per la semplice ragione che non si d� una tale verit� in senso proprio o anche solo una credenza ad essa relativa (c'� forse qualcuno che crede nella letteratura cos� come si crede nella scienza o nella religione?). La letteratura e l'arte, in generale, non sono quindi portatrici di ulteriori verit� diverse da quelle che abilmente importano da altri settori. Stolnitz chiude la sua critica sottolineando come, se paragonata non solo alla scienza, ma anche alla storia, alla religione o a conoscenze ordinarie, la verit� artistica non appaia in realt� molto diversa da un passatempo o un semplice divertimento. Un altro tipo di posizione anticognitivista insiste invece sulla specificit� e particolarit� dell'esperienza estetica, per sua natura incompatibile con qualsivoglia genere di conoscenza (Diffey 1995). Ovviamente, dicono i difensori di questa posizione, se si adotta un approccio estetico all'opera letteraria non si pu� imparare da essa: il medium artistico, infatti, mostra le cose senza asserirle e quindi non si impegna sull'esistenza o sulla sussistenza di ci� che afferma. Dall'arte quindi non si pu� imparare nulla che riguardi la realt�, se con "imparare" si intende l'acquisizione di verit� e fatti che prima ci erano sconosciuti; l'opera d'arte letteraria, anzich� insegnare delle cose, invita alla contemplazione. Ci� non toglie, ovviamente, che ci� che � messo in mostra possa poi di fatto essere vero, e quindi sia, in un secondo momento, asserito; il punto � che tutto questo � irrilevante per l'esperienza estetica dei prodotti artistici in quanto tali. L'arte, secondo chi difende questa posizione, ha indubbiamente valore, ma questo non � di tipo cognitivo. Sul versante cognitivista, Wilson (1983) sostiene che le opere d'arte letterarie possano essere legittime fonti di conoscenza proposizionale (il "sapere che"), la cui acquisizione influisce sui nostri giudizi, sulle nostre idee e sulle nostre posizioni teoriche; Elgin (2002) invece difende l'idea che la letteratura, pur avendo indubbiamente un valore cognitivo, non ne abbia uno di tipo proposizionale perch� le opere letterarie non aggiungono nulla alla lista delle proposizioni gi� incamerate, spingendoci invece a riflettere sui nostri schemi concettuali (invitandoci a integrare, considerare e correggere alcune nostre concezioni). Da quest'ultimo punto di vista l'opera d'arte letteraria non ha quindi una portata cognitiva in quanto trasmette verit� particolari, bens� perch� disorienta e mette in discussione alcune nostre convinzioni. Cos� Elgin riesce a mostrare come le opere letterarie, e in generale l'arte, possono avere un valore cognitivo senza per questo doverlo ridurre alla mera conoscenza proposizionale che se ne pu� evincere. Condividono l'idea che il valore cognitivo dell'arte consista in una forma di conoscenza non proposizionale coloro secondo i quali la letteratura rappresenta una sorta di chiave magica di accesso all'autocomprensione (Currie 1998; Robinson 2005), alla quale giungiamo riflettendo su noi stessi, sulle nostre credenze e sulla nostra vita, a partire dalle vicissitudini dei personaggi delle storie narrate. Spostando lievemente l'ambito della discussione, Nussbaum (1990) difende invece energicamente la posizione secondo la quale la letteratura dev'essere intesa come una fonte di conoscenza specificamente morale, comunicando verit� morali, invitando a fare esercizi con il pensiero e offrendo spunti per la riflessione. Il fatto che trasmetta conoscenze morali non la rende in ogni caso dipendente da sistemi etico-conoscitivi ad essa estranei, come sottolinea Nussbaum insieme a Lamarque e Olsen (1994), rivendicando l'autonomia della letteratura e insistendo sul fatto che le opere letterarie abbiano un valore loro proprio, fondamentale per l'interpretazione e la valutazione, indipendente da eventuali connessioni con altri ambiti del sapere o con la realt�. Per�, mentre Lamarque e Olsen guardano con sospetto all'interesse che le altre discipline possono nutrire verso la letteratura, nel timore che questa possa essere presa in esame in termini che non le sono propri, Nussbaum dichiara esplicitamente di non avere questo tipo di preoccupazione, ritenendo invece che sia persino auspicabile che gli obiettivi e i temi dei letterati e di altri studiosi convergano, dal momento che si tratterebbe di un importante arricchimento per entrambi. Anche Gaut (2006) crede fermamente che sia importante riconoscere all'arte un contenuto cognitivo, quindi ammette che la letteratura ci insegni qualcosa e che il suo valore stia, almeno in parte, in questo suo didascalismo, facendosi cos� difensore di una forma moderata di cognitivismo estetico. La sua � una posizione pi� sfumata rispetto a quelle prese in esame precedentemente perch�, pur riconoscendo l'importanza del contenuto cognitivo (che si articola ulteriormente in tipi di conoscenza diversa: proposizionale, fenomenica, pratica, concettuale), non ritiene che questo sia l'unico (o il pi� importante) valore dell'opera, anzi ammette come del pari importanti altri aspetti come le qualit� espressive e quelle affettivo-emozionali. Si pu� quindi sostenere che le opere letterarie trasmettano contenuti cognitivi e, di conseguenza, che ci insegnino qualcosa. Ma che cosa si intende quando si sostiene che � possibile imparare dalla letteratura (Barbero 2009)? Come pu� il prodotto dell'immaginazione di un autore trasmettere un contenuto capace di impartire un insegnamento? Un argomento abbastanza forte a favore del cognitivismo estetico (Szab� Gendler, Kovakovich 2006) � quello secondo il quale, se � vero che molti enunciati riguardanti il mondo attuale implicano degli enunciati controfattuali - e se � vero che con l'ausilio dell'immaginazione possiamo sapere se questi sono veri o falsi -, allora ne deriva che effettivamente l'immaginazione ci dice qualcosa sul mondo attuale. A questo argomento si potrebbe tuttavia obiettare che scoprire delle possibilit� concettuali, logiche, � cosa ben diversa rispetto a scoprire possibilit� sulla natura umana: d'altronde, si pu� immaginare quasi tutto (sicuramente tutto ci� che � possibile), ma come possiamo stabilire se abbiamo immaginato in maniera corretta? A una simile obiezione i sostenitori di questo argomento rispondono che il fatto che reagiamo a stati di cose immaginati fa s� che la nostra conoscenza si basi su una certa esperienza; inoltre, ci� che di fatto immaginiamo rivela il tipo di persone che siamo, il che significa che la nostra esperienza e biografia influenzano la nostra immaginazione e ne condizionano il procedere. La letteratura richiede un lavoro di immaginazione molto complesso: bisogna immaginare un certo ambiente, determinati personaggi con le loro vicissitudini, una storia con un certo andamento che li contenga, e cos� via. E "immaginare" una certa situazione non significa semplicemente intrattenere la proposizione che la descrive, ma in un senso pi� forte significa invece proiettarsi in quella situazione e immaginare di fare determinate cose, prendere ben precise decisioni (A. Damasio, Tranel, H. Damasio 1991). Si potrebbe quindi dire che l'immaginazione sottopone la letteratura a una sorta di test sulla base di ci� che riusciamo o non riusciamo a immaginare (non a caso, quei libri con cui non riusciamo a fare partire il processo immaginativo di solito non ci piacciono). Questo capita, appunto, perch� l'immaginazione, seppur libera, mantiene dei vincoli normativi la cui importanza diventa fondamentale quando si tratta di spiegare come avvenga l'apprendimento attraverso di essa. Ma che dire delle vicende che abbiamo difficolt� a immaginare? Questo � l'interrogativo alla base del cosiddetto "puzzle della resistenza immaginativa", che sorge a partire da quelle situazioni, descritte in alcune opere letterarie, che non riusciamo a fare rientrare nella nostra attivit� immaginativa. Le prime discussioni su questo argomento erano prevalentemente incentrate sulle situazioni moralmente devianti descritte in alcune opere (si potrebbe avere difficolt�, per esempio, a immaginare i fremiti del professor Humbert Humbert quando sfiora Lolita per come li descrive Nabokov), ma � presto risultato evidente come si tratti di un fenomeno dalla portata decisamente pi� ampia. Come infatti � stato messo in evidenza (Szab� Gendler 2006), sarebbe riduttivo pensare che solo nei confronti di variazioni e deviazioni dalle norme morali si possa provare una qualche forma di resistenza e non anche verso, poniamo, esseri bizzarri (fisicamente, biologicamente, psicologicamente, culturalmente), del tutto diversi da quelli che incontriamo nella realt�. Perch� dovrebbe essere difficile immaginare alieni morali pi� di quanto non lo sia anche solo immaginare individui o mondi alieni? Alla base di questa tanto semplice quanto incisiva domanda vi � l'idea che siano moltissime le cose che i lettori non riescono a immaginare, e questo per svariate ragioni: perch� sono troppo improbabili, oppure perch� incutono timore e angoscia o suscitano ribrezzo, e cos� via. In ogni caso, non vi � alcuna prova che la difficolt� a immaginare sia pi� forte per le questioni morali rispetto alle altre. Il puzzle della resistenza immaginativa � all'opera ogni volta che i soggetti hanno difficolt� a immaginare ci� che l'autore descrive o non sono disposti ad accettare che quanto descritto sia vero nella storia. Si tratta quindi di un puzzle che sorge non solo (Weatherson 2004) relativamente ai concetti normativi (che includono i concetti morali, quelli estetici e quelli epistemici), bens� anche quando � in questione l'attribuzione di stati mentali e il riconoscimento di uno statuto ontologico. Prendiamo infine in considerazione l'importanza che l'eventuale contenuto cognitivo pu� esercitare sul valore estetico delle opere. Se da un lato � evidente che gli elementi cognitivi connessi a un'opera letteraria sono molteplici e non influiscono sempre tutti sul valore estetico, dall'altro � chiaro come l'apprezzamento delle opere spesso dipenda dal loro contenuto cognitivo, e pertanto come la separazione netta del giudizio sul valore cognitivo da quello estetico non sia, in generale, una buona mossa (Barbero 2009). Sull'imprescindibilit� della portata estetico-cognitiva delle opere letterarie si sofferma anche Gibson (2003), sostenendo che, mentre i saggi o i trattati scientifici ampliano la nostra conoscenza sul mondo, la letteratura � cognitivamente importante perch� aumenta la nostra capacit� di riflettere, di sapere rispondere alle diverse questioni avanzate, e ci consente di sperimentare, tramite le vicende di personaggi fittizi, una serie di situazioni emotive al riparo dalla vita reale (Barbero 2012), aiutandoci cos� a comprendere meglio noi stessi e il mondo circostante. I testi scientifici e quelli letterari trasmettono, spiega Gibson, due tipi di conoscenze differenti: da un lato c'� la conoscenza tipica della scienza (knowing), dall'altro c'� una sorta di riconoscimento, un importante spunto per la riflessione che deriva dalla letteratura (acknowledging). Lamarque (2006), assumendo invece una posizione diametralmente opposta a Gaut (2005) e parzialmente opposta a Gibson (2003), sostiene che il valore di un'opera d'arte non possa risiedere nella sua capacit� di veicolare forme di conoscenza o contenuti veri. Questo per due ragioni: innanzitutto perch� il cognitivismo estetico sostenuto da Gaut, se � vero, lo deve essere per tutte le forme di artefatti artistici, mentre di fatto sembra funzionare bene solo con le opere di tipo rappresentazionale o di tipo narrativo; poi, perch� se si considerasse il contenuto cognitivo un valore, si dovrebbero automaticamente escludere dal novero delle opere d'arte quelle puramente formali, il che sarebbe assurdo. Questo non significa ammettere che il contenuto cognitivo delle opere sia irrilevante, bens� semplicemente che esso debba essere affiancato alle caratteristiche stilistico-formali. Non bisogna cedere alla tentazione, tipica dei cognitivisti, di ridurre la nostra fruizione della letteratura al mero apprendimento, e occorre riuscire a riconoscere la complessit� dell'esperienza artistica anche nel caso della fruizione delle opere letterarie. Quanto sostenuto dai cognitivisti in termini di conoscenza e verit� riguardo alle opere letterarie, secondo Lamarque (2006) pu� in realt� essere riformulato facendo a meno di tali nozioni: le realizzazioni sono apprezzate dai fruitori perch� soddisfano determinati requisiti, presentano una particolare struttura, affrontano argomenti di interesse generale, sono suscettibili di una molteplicit� di interpretazioni, e cos� via. Da questo punto di vista si pu� quindi affermare che il valore artistico di un'opera risieda nella sua capacit� di suscitare interesse o apprezzamento e in alcune sue propriet� formali - e non invece esclusivamente nel contributo che il contenuto dell'opera pu� fornire alle discussioni sui grandi temi filosofici o su una presunta verit� extraletteraria dei temi trattati. Per spiegare meglio la posizione di Lamarque, prendiamo ad esempio in considerazione la poesia Mattina di Giuseppe Ungaretti, tra i versi pi� belli mai scritti, e che per� chiaramente non presenta, in senso proprio, un contenuto definito, infatti non c'� accordo n� sulla verit� n� sulle possibili interpretazioni del famoso "M'illumino d'immenso". Per�, se siamo certi del valore di questa strofa, nonostante il suo contenuto ci sfugga, evidentemente non � vero che il valore dell'opera dipende dal contenuto trasmesso, dal momento che il verso di una poesia pu� essere bellissimo senza comunicarci assolutamente nulla. In ogni caso, se contro Lamarque si volesse assumere una posizione cognitivista estrema, si potrebbe ancora sostenere che quando un verso ci piace pur non cogliendone il contenuto, � perch� in realt� ne stiamo afferrando la forma, la quale pu�, a sua volta, essere fonte di conoscenza. Anzi, nel caso specifico delle opere letterarie sarebbe precisamente come � detto ad avere una valenza cognitiva, perch� la forma racchiuderebbe al tempo stesso il valore artistico e il valore cognitivo (Huemer 2007). Gli esempi migliori a questo proposito sono forniti dalla poesia e da alcune forme di prosa sperimentale, in cui il linguaggio, svincolato dal contenuto, � utilizzato per trasgredire, sperimentare e stupire, e le parole sono combinate nei testi in maniera talvolta indipendente dal loro significato. Da questa breve esposizione del dibattito emerge come la discussione non abbia ancora trovato un punto fermo. Rimane viva l'impressione che parte del disaccordo tra cognitivisti e anticognitivisti derivi dal diverso modo di intendere "conoscenza" e "verit�" (e quindi come le loro posizioni non siano di per s� incompatibili); inoltre, le stesse tesi cognitiviste sembrano basarsi su assunti talvolta considerati controversi o comunque poco chiari, primo fra tutti quello secondo cui l'immaginazione sarebbe uno strumento di conoscenza di verit� attuali. Su questo versante sono particolarmente importanti i contributi offerti dalla filosofia della mente, dalle scienze cognitive e dagli studi sulla simulazione (Davies, Storie 1995a e 1995b), che aiutano a definire meglio che cosa significhi nello specifico immaginare situazioni non attuali e in quale misura una simile attivit� possa influenzare il nostro approccio con ci� che invece � reale. Secondo i risultati di Damasio (A. Damasio, Tranel, H. Damasio 1991) le risposte emotive a situazioni genericamente non attuali sono una caratteristica fondamentale del nostro repertorio cognitivo, e seguendo questi esiti alcuni studiosi (Szab� Gendler, Kovakovich 2006) hanno ritenuto di poter concludere a favore del valore cognitivo della finzione, in base all'analogia che, se possiamo imparare e conoscere tramite le esperienze simulate, come Damasio sostiene, allora possiamo fare lo stesso attraverso le opere letterarie di finzione. A favore dell'analogia tra simulazione e lettura si erano peraltro gi� pronunciati Oatley e Gholamain (1997), richiamandosi esplicitamente al concetto aristotelico di "mimesis" e riprendendo in gran parte la proposta avanzata da Oatley (1992) secondo la quale la tragedia sarebbe simulazione di azioni umane. Anche Nussbaum (1990), soffermandosi sul concetto di "k�tharsis", insiste sul fatto che si tratti di un processo di tipo cognitivo, mettendo in evidenza come la letteratura, implicando un coinvolgimento che ci induce a simulare azioni da cui conseguono determinati effetti, ci aiuta a comprendere meglio noi stessi e la realt� circostante. Quando siamo a teatro o leggiamo un libro ci concentriamo sulle nostre emozioni e riflettiamo su di esse, nel tentativo di riuscire a capire meglio la loro relazione con le nostre credenze, le nostre azioni, i nostri valori: anche questo � un modo di rispondere all'oracolo delfico che diceva "conosci te stesso". Giacomo Manz�: l'artista bergamasco amico di Papa Giovanni ("RivistAmica" n. 5/16) - Uno dei maggiori scultori del Novecento, riconosciuto a livello internazionale. Molte delle sue opere sono raccolte nella Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo. Nei pressi di Roma il museo a lui dedicato. - Bergamo, inizio secolo. � il 22 dicembre 1908 quando nasce Giacomo Manzoni, poi noto come Giacomo Manz�, dodicesimo figlio di Angelo, calzolaio e sagrestano, e della moglie Maria Pesenti. � stato uno dei maggiori scultori che il Novecento ricordi, vissuto fino al 1991. Nelle sue opere emergono i valori della cultura classica e un'alta ispirazione religiosa e civile. � suo il Monumento al Partigiano sito a Bergamo, inaugurato nel 1977. Nella Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea della citt� lombarda sono raccolte numerose delle sue opere. � nelle botteghe degli artigiani che impara a scolpire e dorare il legno e a conoscere altri materiali come pietra e argilla. Frequenta la scuola serale di plastica decorativa a Bergamo e, dopo un breve viaggio a Parigi, nel 1929 si stabilisce a Milano dove entra in contatto con l'avanguardia milanese e ottiene la sua prima commissione, nel 1932, dall'Universit� Cattolica: lavora alla decorazione della Cappella dell'ateneo per due anni. Intanto realizza le sue prime opere in bronzo, si dedica al disegno, all'incisione, all'illustrazione ed alla pittura. Comincia a modellare teste in cera e bronzo. La prima grande mostra arriva nel 1934, alla Galleria della Cometa di Roma. L'opera "Ges� e le Pie Donne" gli vale il premio Grazioli dell'Accademia di Brera per lo sbalzo e il cesello. Alla fine degli anni Trenta � gi� considerato tra le personalit� pi� significative della scultura italiana. Tra il 1938 e il 1939 inizia la serie dei "Cardinali". In bronzo, dalla schematica struttura piramidale, avvolte nella stola, assorte in meditazione. Produrr� oltre 300 versioni del tema. Il primo "Cardinale seduto", di 65 cm di altezza, verr� esposto alla Quadriennale di Roma del 1939. Con il ciclo di bassorilievi in bronzo dallo stile classicheggiante - "Deposizioni" e "Crocifissioni" - si richiama nella poetica a Donatello. Dal 1941 al 1954 insegna scultura all'Accademia di Brera. Si dimette per dissensi sul programma di studio. Vince, nel 1942, il Gran premio di scultura alla Quadriennale di Roma con il nudo di "Francesca Blanc" e, nel 1948, alla Biennale di Venezia, la medaglia d'oro per la serie dei "Cardinali". Ottiene il Premio Lenin per la pace (1966) e il Premio internazionale Feltrinelli (1984). Prima sposato con Antonia Oreni, � all'Accademia estiva di Salisburgo, dove insegner� fino al 1960, che conosce Inge Schabel, sua compagna di vita e con cui avr� due figli. Lei e la sorella Sonja sono le modelle di tutti i suoi ritratti. Nel 1964 Manz� va a vivere in una villa vicino Ardea (Roma), nel comune di Aprilia, localit� oggi ribattezzata Colle Manz�. Tra il 1965 e il 1968 realizza la Porta della Pace e della Guerra per la chiesa di Saint Laurens a Rotterdam e infine torna all'opera a figura intera, dedicandosi a figure femminili in bronzo, che comprendono i ritratti della moglie. Si occupa anche di teatro disegnando scenografie e costumi: sono suoi alcuni notevoli contributi per l'"Oedipus rex" di Igor Stravinskij (1965), per "Tristano e Isotta" di Richard Wagner (1971) e per il "Macbeth" di Giuseppe Verdi (1985).