Agosto 2017 n. 08 Anno II Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Copia in omaggio Indice Di fronte al razzismo, a cosa serve il sapere? Liszt superstar Taormina: perla internazionale Di fronte al razzismo, a cosa serve il sapere? (di Pierre-Andr� Taguieff, _ "Vita e Pensiero" n. 3/17) - La lotta contro tutte le forme di razzismo deriva da una scelta che non pu� essere dettata dal sapere scientifico. Oggi prevale un antirazzismo che gioca sulle parole: occorre invece un'opera di educazione intellettuale e morale. - Uno spettro si aggira nell'immaginario occidentale dagli inizi dell'epoca moderna: lo spettro delle "razze di uomini" o delle "razze umane". La storia delle sue varianti � un susseguirsi di sparizioni e riapparizioni, di evanescenze e di rinascite. Nella cultura scientifica occidentale, dalla fine del XIX secolo, il concetto di "razze umane", regolarmente dichiarato morto, non cessa di resuscitare, di tornare all'ordine del giorno sotto forme differenti, sotto vocaboli differenti, spesso derivati dalla parola "etnia". Alla met� degli anni Trenta, il biologo Julian Huxley e l'antropologo Alfred Haddon nel loro saggio dal titolo We Europeans: A Survey of "Racial" Problems (trad. it. Noi Europei. Un'indagine sul problema razziale, 2002) proposero, per contrastare l'uso politico delle classificazioni razziali da parte dei nazisti, di sostituire l'espressione "gruppo etnico" alla parola "razza" (e, correlativamente, l'aggettivo "etnico" a "razziale"). Huxley e Haddon non furono i soli a mettere in discussione il concetto stesso di razza. Nell'aprile del 1936, la rivista "Nature" pubblicava un editoriale intitolato The Delusion of Race in cui si sosteneva che "la razza � una pura astrazione". � il caso qui di ricordare la definizione di razza umana secondo le dottrine razziali: una razza sarebbe un gruppo umano fisso, geneticamente distinto e omogeneo, nel quale tratti fisici e attitudini intellettuali, e persino disposizioni morali, si trasmetterebbero per via ereditaria, il che supporrebbe l'esistenza di un'ereditariet� razziale. Una definizione che gi� dagli anni Trenta nella comunit� degli antropologi aveva perso, salvo rare eccezioni, validit� scientifica. Huxley e Haddon furono seguiti da Ashley Montagu, antropologo militante che, durante e dopo la Seconda guerra mondiale, volle confutare le diverse versioni del "razzismo scientifico" - soprattutto la versione nazista, la pi� ributtante - e la sua opera fu il fulcro delle due prime Dichiarazioni dell'Unesco (1950, 1951) sulla "razza" e le "differenze razziali" (si veda in particolare il suo Man's Most Dangerous Myth: the Fallacy of Race [1942], trad. it. La razza. Analisi di un mito, 1966). Basta considerare attentamente qualche articolo della Dichiarazione di esperti sulle questioni di razza del 20 luglio 1950, di cui Montagu fu il principale redattore e relatore, per coglierne le principali contraddizioni interne. Cominciamo dall'articolo 4: "In breve, il termine "razza" indica un gruppo o una popolazione caratterizzata da certe concentrazioni, relative a frequenza e distribuzione, di geni o caratteri fisici che appaiono, variano e spesso scompaiono nel corso del tempo per influsso di fattori d'isolamento geografici o culturali". Si tratta di una definizione naturalistica della "razza" che rompe con la visione tipologica o essenzialista a vantaggio di una visione statistica in termini di popolazioni, e pone l'accento sulla dimensione evolutiva del fenomeno razziale, senza negarne l'esistenza. Gli articoli 2 e 3 riconoscono chiaramente la realt� biologica delle razze umane. L'articolo 2 comincia sostenendo che, "dal punto di vista biologico, la specie Homo sapiens � composta da un certo numero di gruppi, che differiscono gli uni dagli altri per la frequenza di uno o pi� geni particolari". E l'articolo 4 riafferma poi la tesi: "Una razza, biologicamente parlando, pu� quindi essere definita come un gruppo tra quelli che costituiscono la specie Homo sapiens". Ma la definizione data nell'articolo 4 viene subito messa in discussione dall'articolo 6, chiaramente proibizionista: "I gravi errori provocati dall'impiego del termine "razza" nel linguaggio corrente rendono auspicabile che si rinunci completamente a questo termine quando lo si applica alla specie umana e che si adotti l'espressione di "gruppi etnici"". La proposta di riforma lessicale, con le sue implicazioni (che finiscono per "culturalizzare" la questione razziale), entra in contraddizione con il riconoscimento del fatto razziale implicato dalla definizione naturalistica dell'articolo 4. Essa non fa che integrare nel testo dell'Unesco, per non dimenticare o non urtare nessuno, la proposta di Huxley e Haddon, quella di "ribattezzare le razze". Con l'articolo 7, si torna alla triade razzialista classica, che sembrava scientificamente squalificata: "Attualmente la maggioranza di loro [gli scienziati] concordano nel dividere la maggior parte della specie umana in tre grandi gruppi, cio�: il gruppo mongoloide; il gruppo negroide; il gruppo caucasico". Ci� significa semplicemente ribattezzare in termini scientifici le tre grandi razze della vecchia antropologia fisica: gialli, neri, bianchi. Infine, con l'articolo 14, assistiamo al ritorno del rifiuto della realt� contro l'approccio biologico del fenomeno razziale. L'operazione consiste, mediante talune precauzioni retoriche, nel ridurre la "razza" a una finzione sociale: "In realt�, la "razza" pi� che un fenomeno biologico � un mito sociale". L'enunciato, prima formulazione del dogma della razza come "costruzione sociale", � in contraddizione con l'articolo 4, che fornisce una definizione biologica della razza, come con l'articolo 7, che distingue tre gruppi umani corrispondenti alle tre grandi razze identificate dalla dottrina razziale classica. La confusione � sorprendente. In nome della scienza: la razza come mito I genetisti impegnati contro il razzismo, nel periodo che si apre all'inizio degli anni Settanta, condividono in gran parte un fatto per loro scontato: basta squalificare scientificamente la categoria di "razza umana" per privare il razzismo di qualunque legittimit�, riducendolo a un mito, a un'ideologia ingannevole, a un insieme senza consistenza di credenze infondate, di rappresentazioni chimeriche e di giudizi falsi. Per vincere la guerra contro il razzismo, bisognerebbe affidarsi alla scienza, e a essa sola. Essi postulano che il razzismo tragga la sua legittimit� sociale da ci� che si presume scientifico; in breve, prendono alla lettera l'espressione scelta da alcuni teorici razzisti: il "razzismo scientifico". Cos�, che si supponga o meno che il razzismo sia scientifico, l'antirazzismo si riduce a dover trovare le prove del carattere non scientifico del razzismo. E se si pone, come Montagu nel 1997, nella nuova edizione del suo La razza. Analisi di un mito, che "la parola "razza" � anch'essa un termine razzista", allora la lotta contro il razzismo deve iniziare dall'atto di sopprimere il termine "razza" dal vocabolario corrente. Ovviamente, non tutti i genetisti sono ingenui a tal punto da credere che l'eliminazione del termine "razza" costituisca la soluzione pi� semplice del problema del razzismo. Il genetista e antropologo Andr� Langaney e i suoi collaboratori si mostrano pi� cauti quando, mettendo l'accento sull'arbitrariet� delle classificazioni razziali, scrivono: "Chiaramente, la nozione di razze umane � un modo impreciso di designare popolazioni che si sovrappongono, la cui incredibile diversit� non si presta ad alcuna classificazione semplice e scientificamente accettabile. [...] Abbiamo ereditato l'uso comune dei termini "razze umane" da una storia sinistra e da una scienza portata sulla cattiva strada. Non la elimineremo cos� presto dalle nostre conversazioni. Ricordiamoci, almeno, che non appartiene pi� al vocabolario della scienza attuale, e che � quindi arbitraria" (Andr� Langaney et alii, Tous parents, tous diff�rents, 1992). La nuova vulgata antirazzista, formatasi durante gli ultimi tre decenni del XX secolo, pu� essere riassunta da due enunciati riguardanti la "razza" e il "razzismo". Il primo � il seguente: "La razza � una costruzione sociale, non un concetto biologico" (Marek Kohn, The Race Gallery: The Return of Racial Sciences, 1995). Questa visione costruttivista e ipercritica � alla base di un altro enunciato, che ribalta uno dei postulati del vecchio razzismo biologico: "La razza in quanto entit� biologica � una finzione, il razzismo in quanto problema sociale � una realt�" (Audrey Smedley - Brian D. Smedley, Race as Biology Is Fiction, Racism as a Social Problem Is Real, "American Psychologist", vol. 60, n. 1, gennaio 2005). Nel luglio 2001, negli Stati Uniti, passava sugli schermi uno slogan pubblicitario della stessa fattura: "Svegliatevi. La razza � un mito. Il razzismo � reale". Mentre si derealizzava la "razza", si attribuiva una iper-realt� al "razzismo". Si supponeva non solo che il "razzismo" fosse ovunque, ma anche che fosse il "tutto": la grande questione di tutti, il primo nemico da combattere. L'antirazzismo in nome della scienza e il ritorno della "razza" L'argomento scientifico pi� spesso proposto, a partire dagli anni Duemila, per dimostrare che la nozione di "razza umana" � ormai desueta, pu� essere riassunto cos�: se le minuscole differenze che l'analisi del genoma umano ha permesso di scoprire (0,1% di Dna variabile tra individui) non costituiscono demarcazioni nette, allora possiamo concludere che "la variazione genetica tende a ripartirsi secondo un continuum" (Lynn Jorge - Stephen Wooding, G�nome sans fronti�res, "La Recherche", n. 401, ottobre 2006), rendendo impossibile qualsiasi distinzione tra gruppi "razziali". E questo sembra dare una solida base scientifica alla tesi antirazzista secondo la quale "la nozione di razza non ha alcun fondamento genetico n� scientifico", formula standard che fu ripetuta nel giugno del 2000 da Craig Venter, presidente della societ� privata Celera, alla presenza di Bill Clinton, nel corso delle celebrazioni per la pubblicazione del primo abbozzo del sequenziamento del genoma umano. Presente a questa riunione pubblica, il rivale di Craig Venter, Francis S. Collins, direttore del National Human Genome Research Institute (istituto pubblico), mise l'accento sul fatto che gli uomini hanno in comune pi� del 99% del loro genoma, e che lo 0,1 restante codifica probabilmente variazioni come il colore della pelle, che in gran parte non hanno alcun significato biologico. Nel 2004, Craig Venter riaffermava la sua posizione: "Non vedo la necessit� reale di classificare le genti secondo la razza. A cosa serve tutto ci�, se non a discriminare?". Collins invece si chiedeva se esistessero, in quello 0,1% del genoma, variazioni che presentino un interesse per la medicina, la cui identificazione potrebbe permettere di ridurre le disuguaglianze in materia di salute. Come ricorda Bertrand Jordan, un tasso di divergenza dello 0,1% corrisponde a tre milioni di differenze ripartite all'interno dei tre miliardi di basi che il nostro Dna contiene, il che "potrebbe bastare a separare la nostra specie in variet� ben distinte" (Bertrand Jordan, L'Humanit� au pluriel. La g�n�tique et la question des races, 2008). Nel 2015, un giornalista francese presentava l'argomento come una verit� definitiva: "Il Dna rispettivo di due persone prese a caso sul pianeta differisce solo dello 0,1%" (Luc Peillon, Comment les noirs sont devenus blancs, "Lib�ration", 2 ottobre 2015, consultabile in rete). � questo l'argomento centrale che si presenta regolarmente sulla stampa come decisivo e che si chiede ai genetisti di legittimare. Il giornalista di "Lib�ration" parafrasava il testo di presentazione del film documentario Il Dna, i nostri antenati e noi (Franck Gu�rin ed Emmanuel Leconte), diffuso sul canale televisivo Arte il 14 luglio 2011: "Oggi, tutti gli scienziati seri concordano su un punto essenziale: siamo tutti parenti. In altri termini, la diversit� osservata tra gli umani � pi� apparente che reale. Il Dna di due individui presi a caso sul pianeta non differisce che dello 0,1%". Ma sappiamo anche che gli umani condividono pi� del 98% del loro programma genetico con lo scimpanz� comune e con lo scimpanz� pigmeo dello Zaire. La lieve distanza genetica fra umani e scimpanz� mostra che sono anch'essi "tutti parenti". Dovremmo concluderne che gli scimpanz� sono persone umane, che appartengono alla specie umana? Insomma, che sono uomini come gli altri? O, come suggerisce Jared Diamond nel 1991, che bisogna finirla con la nozione di "genere umano" e stabilire che esiste solo un "genere scimpanz�" che raggruppa gli scimpanz�, il comune e il pigmeo, il gorilla, e il "terzo scimpanz�" (Jared Diamond, Le Troisi�me Chimpanz�, trad. it. Il terzo scimpanz�. Ascesa e caduta del primate Homo sapiens, 2006), cio� noi stessi, che crediamo di poterci chiamare "gli uomini"? � questo uno degli sconvolgimenti di quel che � "proprio dell'uomo" di cui sembra non restare altro che la capacit� degli umani d'interrogarsi su ci� che sono (Georges Chapouthier et alii, Que restet-il du propre de l'homme, 2012). Sulla sola base dell'"argomento dello 0,1%", non interpretato, non si pu� fondare seriamente la tesi della non esistenza di gruppi "razziali" in seno alla specie umana. Significherebbe semplificare all'eccesso la questione. Scienza e scientismo, morale e moralismo Il vero punto nodale consiste nel rapporto tra scienza e morale. Ma metterlo sul tappeto significa aprire la porta a falsi dibattiti tanto burrascosi quanto interminabili. Quel che i teorici del razzismo pseudoscientifico della prima met� del XX secolo (riattivato a partire dagli anni Novanta) e i teorici dell'antirazzismo "scientifico" contemporaneo hanno in comune � una stessa visione scientista delle questioni concernenti la diversit� umana e il modo di costituirla a oggetto della ricerca scientifica. Essi condividono anche la tesi secondo la quale conclusioni morali e politiche, implicanti valori, norme e prescrizioni, possono essere logicamente dedotte dai progressi della conoscenza scientifica. In ci� si riconosce il "sofisma naturalistico" che consiste, per dirla con Henri Poincar�, nel supporre che i giudizi all'indicativo abbiano una conclusione logica all'imperativo. Dopo Hume, Poincar� sosteneva che "se le premesse di un sillogismo sono entrambe all'indicativo, la conclusione sar� anch'essa all'indicativo". Dedurre un "tu devi" o un "bisogna" da un "cos� �" costituisce un sofisma ordinario. Nella retorica antirazzista, il ricorso al sofisma naturalistico � accompagnato da una condanna morale e da una denuncia edificante degli individui colpevoli di avere sostenuto proposte giudicate razziste. A tali individui si rimprovera non solo di avere idee false e di esprimerle, ma anche di essere di dubbia moralit�. Tali sono i due orientamenti del catechismo antirazzista: uno ha a che fare con lo scientismo, l'altro con il moralismo. L'ultimo paragrafo della Dichiarazione sulla razza del 20 luglio 1950 espone dogmaticamente l'articolo di fede ereditato dall'antirazzismo scientista e moralizzante: "Le ricerche biologiche finiscono per comprovare l'etica della fraternit� universale; l'uomo � infatti, per innata tendenza, portato alla cooperazione e, se questo istinto non trova modo di soddisfarsi, individui e nazioni ne soffrono ugualmente". Non solamente la moralit� risulta compatibile con la scienza, ma si fonda sugli insegnamenti della conoscenza scientifica. Vi � di che nutrire l'ottimismo storico, che avrebbe finalmente trovato una solida base. La buona novella si traduce in due formule: il sapere costituisce il fondamento del dovere, il progresso della conoscenza assicura il progresso della moralit�. � questa la grande credenza progressista: tutte le cose buone avanzano con uno stesso passo. Essa racchiude una promessa consolante, quella che i conflitti razziali scompariranno un giorno, nello stesso tempo in cui sparir� tutto ci� che spinge all'odio e alla guerra gli umani, fatti per associarsi e cooperare. Chi aderisce a questa visione del mondo pu� dormire sonni tranquilli. Sogna nel senso della Storia. La predizione storica comporta un aspetto antirazzista: le differenze razziali perderanno senso, cessando infine di dividere gli esseri umani fra di loro. � cos� che si realizzer�, grazie al progresso scientifico, l'unit� morale e politica della specie umana. Una unit� post-razziale. La visione di una redenzione del genere umano non � per� condivisa da tutti gli ambienti antirazzisti. Taluni intellettuali antirazzisti hanno fatto osservare che soprattutto negli Stati Uniti la maggioranza delle mobilitazioni contro il razzismo hanno avuto esito positivo solo facendo appello alla "coscienza razziale" o alla "solidariet� razziale" degli ambienti interessati (nel nostro caso, gli "afro-americani"). Da W.E.B. Du Bois alla fine del XIX secolo a Kwame Anthony Appiah un secolo dopo, questo fatto � stato riconosciuto e teorizzato. Appiah conclude cos� un articolo dedicato al "problema della linea di colore": "Riconoscere la razza come una costruzione sociale, artificiale, senza fondamento biologico ma significativa socialmente e politicamente, ha permesso di strutturare la lotta contro il razzismo e per i diritti civili. Cos�, � la solidariet� razziale ad aver reso possibile la lotta contro le leggi Jim Crow negli Stati Uniti, e altrove la decolonizzazione o la battaglia contro l'apartheid. Senza coscienza razziale o etno-razziale, mobilitazioni simili avrebbero avuto luogo? Nel 1897, Du Bois scriveva giustamente che era "dovere degli americani di origine nera, in quanto gruppo, preservare l'identit� della loro razza, finch� alla fine gli ideali di una reale fraternit� umana si concretizzino". Sogno? Utopia? Possiamo immaginare un giorno di sbarazzarci di questa linea di separazione dei colori e di costruire le nostre solidariet� su altre assunzioni? Per ora, il sogno di un mondo senza razza sembra ancora lontano..." (Kwame Anthony Appiah, Ces id�es qui ne veulent pas mourir, "La Revue", 53-54, luglio-agosto 2015). Negli Stati Uniti, la "regola della goccia di sangue" (one drop rule), che permetteva di classificare come "neri" gli individui che si supponeva avessero del "sangue nero", anche quando si trattava di meticci molto chiari che avrebbero potuto essere percepiti come "bianchi", � lungi dall'essere completamente caduta in desuetudine. E in virt� di tale regola razzista, che passa ormai inavvertita, che, ad esempio, Barack Obama � percepito di solito come un "nero". Tale regola ha sviluppato in questi ultimi anni una nuova carriera ideologica per il fatto che degli "afro-americani" ricorrono ad analisi del Dna per provare la loro ascendenza africana. La ricerca delle "radici", lanciata dallo sceneggiato televisivo Roots (1977), tratto dall'omonimo romanzo di Alex Haley del 1976 (trad. it. Radici, 1977), si � trasformata in una ricerca di ascendenza o di origine ancestrale a cui si sono dedicate diverse aziende. Non si tratta solo di un banale rovesciamento del pregiudizio, che mira ad affermare la "fierezza nera". L'"afrodiscendenza" permette ad alcuni "afro-americani", discendenti da schiavi, di provare la loro appartenenza a una "minoranza" al fine di beneficiare dei vantaggi dell'affirmative action, o addirittura di esigere riparazioni dai discendenti di coloro che dirigevano societ� di tratta. Pi� in generale, l'analisi di un prelievo di Dna permette di "determinare se proviene da una persona i cui antenati sono principalmente africani, europei o estremoorientali". Ma, come osserva ancora Bertrand Jordan, se un gruppo di ascendenza � dotato di una certa realt� a livello genetico, esso non si confonde con una "razza umana" in senso tipologico, in quanto "i suoi confini sono indistinti e la sua diversit� interna molto grande". Se l'essenzialismo, altrettanto presente nel nazionalismo quanto il razzismo e il sessismo, � giustamente considerato, sul piano dell'epistemologia o della teoria della conoscenza, come un ostacolo da eliminare perch� favorisce il pensiero rigido e la stereo-tipizzazione, ci sono buone ragioni per difendere, dal punto di vista dell'azione militante, il ricorso a un "essenzialismo strategico", che finisce, molto spesso, per riabilitare o rivalutare l'una o l'altra identit� collettiva. Si tratta dunque di sfumare, a seconda delle situazioni considerate, la critica teorica delle identit� di gruppo, di evitare di cedere alla tentazione, molto diffusa tra gli intellettuali, di decostruire o demistificare tutto, finendo per privarsi di qualsiasi ancoraggio nella realt� sociale, dove le identit� collettive ("etnie", "razze", "nazioni", "comunit�") non hanno mai smesso di svolgere un ruolo determinante. Non sapremmo agire in un mondo di cui avessimo ridotto tutte le componenti a illusioni nocive. Senza punti di appoggio, nessuna azione � possibile. Le "comunit� immaginate" non si limitano a popolare l'immaginario sociale, costituiscono realt� socio-storiche che nessuno ha il potere di cancellare. Trascurarle o sottovalutarle significa correre il rischio di vederle risorgere sotto forme patologiche. Il recente ritorno della "razza" ("identit� etno-razziale", "coscienza razziale", "comunit� etniche") dalla porta posteriore dovrebbe logicamente costringere gli antirazzisti a interrogarsi sulle ragioni della loro battaglia e a ridefinire la loro azione, che fino a oggi era fondata sul presupposto della non-esistenza delle "razze" e, pi� ampiamente, delle identit� di gruppo fondate su diversi sistemi di credenze (origine comune, caratteri condivisi, sentimento di comune appartenenza). Posizione apparentemente confortevole, di cui un'analisi lucida dello stato delle conoscenze mostra per� la fragilit�. L'errore fondamentale nell'analisi del razzismo consiste nello spiegare con la credenza l'esistenza delle "razze", quali ne siano le definizioni proposte. La maggioranza degli antirazzisti ne deduce ingenuamente che, per lottare efficacemente contro il razzismo, basterebbe cancellare la parola "razza" dai manuali scolastici e dai testi di legge. Illusione persistente. Oltre le parole e i miti Siccome gran parte dell'argomentazione antirazzista � fondata su una critica radicale della categoria stessa di "razza umana", gli studiosi antirazzisti sono inclini a considerare come stabilito il duplice fatto che la "razza" si riduce a una finzione nociva in via di scomparsa e che l'umanit� � entrata, certamente in modo ineguale a seconda delle regioni del mondo, in un'et� post-razziale, immaginata dai pi� fiduciosi come post-razzista e post-conflittuale. Il razzismo sarebbe vinto sul terreno del concetto e sul punto di esserlo sul piano degli atteggiamenti e dei comportamenti. In breve, il grande movimento di emancipazione del genere umano proseguirebbe malgrado gli ostacoli e i ritardi spiacevoli ma inevitabili. L'essenziale, espresso dalla credenza secondo la quale il Progresso resta il motore della Storia, sarebbe salvaguardato. Con la pace universale e l'unit� del genere umano all'orizzonte, i nostri contemporanei avrebbero di che nutrire la loro facolt� di sperare. L'umanit� si libererebbe finalmente dal dominio della razza. La solidariet� universale sostituirebbe lo scontro universale. L'ottimismo storico tornerebbe all'ordine del giorno. Per uscire dal circolo vizioso persistente e dallo stadio ideologico-politico della polemica, � opportuno in primo luogo dissociare la questione della "razza" (poco importa la denominazione) da quella del razzismo, dato che la prima dipende dai modi di categorizzare la diversit� umana a livello sia somatico sia genetico, mentre la seconda implica investigazioni di ordine sociologico e psicologico cos� come analisi e prospettive politiche. Conviene poi rendere possibile una libera discussione, secondo le norme degli scambi all'interno di una comunit� scientifica ideale, sui fatti, le ipotesi e i modelli d'intelligibilit� concernenti la diversit� umana, affrontata in modo pluridisciplinare. Non c'� alcun ambito che implichi la conoscenza scientifica in cui la libera discussione sia stata resa a tal punto impossibile. � invece una guerra ideologica quella che si � scatenata, che punta a far tacere in tutti i modi gli avversari e ricorre sistematicamente ai processi alle intenzioni, alla logica del sospetto, alla polemica, alla condanna moralizzante e alla demonizzazione del contraddittore. Abbiamo un antirazzismo d'indignazione sonora e di caccia alle streghe per questioni di parole, quando invece dovremmo avere un antirazzismo di educazione intellettuale e morale, di prevenzione intelligente e di aiuto efficace alle vittime. La lotta correttamente intesa contro tutte le forme di razzismo deriva da una scelta e da un impegno che non possono essere dettati dal sapere scientifico. Questa lotta si fonda sul rispetto della dignit� umana, al di l� di tutte le distinzioni di gruppo osservabili, che del resto possono e devono essere oggetto di indagini scientifiche. � opportuno infatti che non si sacrifichi la conoscenza in nome della preservazione delle credenze dogmatiche o delle evidenze del momento (che spesso viene eretto a "ultimo momento"). La questione delle denominazioni qui � secondaria. Usare la parola "razza" dovrebbe dipendere dalla libert� di scelta degli individui ordinari come pure degli autori ritenuti esperti, alla sola condizione che questi ultimi si preoccupino di definire cosa intendono con quel termine. � lontano il tempo in cui, in Francia, un celebre antropologo come Claude L�vi-Strauss poteva impunemente pubblicare nel 1952, a cura dell''Unesco, un saggio intitolato Razza e storia (trad it. in Antropologia strutturale 2, 1978) o, il 22 marzo 1971, pronunciare una conferenza all'Unesco sul tema Razza e cultura (trad. it. in Lo sguardo da lontano, 1984). Dopo aver notato che la "inadeguatezza delle risposte tradizionali spiega forse perch� la lotta ideologica contro il razzismo si � dimostrata cos� poco efficace sul piano pratico", il grande antropologo non nascondeva il proprio pessimismo storico: "Nulla sta a indicare che i pregiudizi razziali diminuiscano, e tutto fa pensare che, dopo brevi bonacce locali, si ridestino altrove con intensit� accresciuta" (Razza e cultura). Considerazione pericolosa, a suo modo intempestiva: rischiava di portare alla disperazione i militanti. A che pro lottare, in effetti, se tutto � condannato a ripetersi sotto nuove forme? L'epoca di L�vi-Strauss � giunta al termine. L'ottimismo storico dei globalizzatori felici ha dato il cambio al vecchio progressismo, mentre un "virtuismo" quasi ufficiale detta quello che bisogna dire e non dire, e un paternalismo di Stato pretende d'insegnare ai cittadini il vero e il bene, e persino il bello. Pi� che affermare dogmaticamente che "le razze non esistono", credendo cos� di aver sconfitto il razzismo, mi sembra pi� assennato riconoscere semplicemente, con modestia, che "non sappiamo cos'� una razza" (Razza e cultura). Il che non costituisce una ragione sufficiente per rifiutare il termine "razza" come intrinsecamente perverso o criminale. Constatiamo che interminabili dibattiti di esperti si tengono sulla questione e che, nella percezione sociale ordinaria, il vocabolario razziale, a eccezione del termine "razza", non ha mai smesso di essere utilizzato per designare le differenze tra gruppi umani sulla base di diversi tipi di indizi (tra i quali il colore della pelle). A questa ammissione di ignoranza conviene aggiungere una proposta di riorientamento della lotta contro il "razzismo". � buon metodo non prendere ingenuamente le tesi razzialiste alla lettera n� il razzismo in parola - o in parole. Va preso sul serio l'approccio abbozzato da L�vi-Strauss nel 1971: considerare le dottrine razziali e i discorsi razzisti come indizi, sintomi, maschere o pretesti. In questa prospettiva, le idee razzialiste potrebbero costituire semplicemente una "copertura ideologica a opposizioni pi� reali, fondate sulla volont� di asservimento e sui rapporti di forza" (Razza e cultura). Allo stesso modo, possiamo formulare l'ipotesi secondo la quale le "differenze razziali" "continueranno a servire da pretesto alla crescente difficolt� di vivere insieme, percepita a livello inconscio da un'umanit� in preda all'esplosione demografica" (ibidem). Di conseguenza, una lotta frontale contro "il razzismo" sarebbe destinata a prendere per bersagli solo effetti di superficie o fenomeni secondari. Per combattere con efficacia quel che si chiama sommariamente "il razzismo", bisogna rivolgersi ai processi complessi e di diversi ordini che la sua visibilit� sociale, produttrice d'indignazione morale e di mobilitazioni ripetitive, dissimula e al contempo attesta. Quel che � sicuro � che, al pari della genetica, l'antropologia e la sociologia non sono una morale e una politica. Sarebbe ingenuo proiettare sulle questioni della razza e del razzismo le distinzioni ideologico-politiche convenzionali: destra/sinistra, conservatorismo/progressismo. Non senza ironia, un'amara ironia, constatiamo oggi che l'osservazione di G.K. Chesterton, che risale all'aprile 1924, non ha perso nulla della propria attualit�: "Il mondo si � diviso tra conservatori e progressisti. I progressisti si danno da fare per continuare a commettere degli errori. I conservatori si danno da fare per evitare che gli errori vengano corretti" ("Illustrated London News", 19 aprile 1924). Liszt superstar (di Silvia B�chi, "Focus Storia" n. 129/17) - Cento anni prima di Elvis e dei Beatles, il grande pianista scatenava i deliri del suo elegante pubblico femminile. E registrava il sold out ovunque. - Le donne lo adoravano e gli uomini avrebbero voluto essere come lui, Franz Liszt, il pi� famoso virtuoso del pianoforte di tutti i tempi. Solo Niccol� Paganini ebbe una simile celebrit� e Franz, in un certo senso, si ispir� a lui. Vide suonare il grande violinista a Parigi nel 1831 e rimase folgorato dalla sua prodigiosa abilit� tecnica e dall'originalit� delle sue improvvisazioni. "Oh Dio, che pena e sofferenza, che tormento in quelle quattro corde!", scrisse in una lettera nel maggio 1832. Per il giovane Liszt fu uno stimolo a migliorare la sua tecnica pianistica e a sviluppare gli arditi virtuosismi che lo resero poi famoso in tutto il mondo. "Mi esercito per quattro o cinque ore sui trilli, le ottave, i tremoli, le note ripetute", scriveva nella stessa lettera. Ma Liszt, oltre a essere un grande pianista, fu anche compositore, direttore d'orchestra, critico, abate, maestro carismatico con uno stuolo di allievi e allieve adoranti. Per i detrattori, invece, era un misto di talento e ciarlataneria. Sta di fatto che i suoi concerti registravano sempre il tutto esaurito, con un pubblico femminile che si comportava come le teenager di oggi ai concerti delle rockstar. Anzi, il grande pianista ungherese pu� essere considerato la prima vera star moderna, tanto che nel 1844 fu coniato il termine "Lisztomania", pi� di un secolo prima del fenomeno Elvis e della Beatlemania. Tra il 1840 e il 1847 Franz Liszt fece il tour d'Europa e diede pi� di mille concerti con ingaggi altissimi. Decisamente, era molto abile nel gestire la sua immagine e sapeva cosa il pubblico si aspettava da lui. Quando saliva sul palco "la sala era come scossa da una scarica elettrica. La maggior parte delle dame si alzavano, i volti erano raggianti", racconta Hans Christian Andersen che, oltre alle fiabe, amava anche la musica. Liszt si sedeva al pianoforte, sfilava lentamente i guanti e, teatralmente, ne lanciava uno a destra e l'altro a sinistra. Subito le fan, in adorazione, se li contendevano, pronte a tutto pur di accaparrarseli. Poi passava tra i capelli le sue mani eleganti dalle dita affusolate e posava uno sguardo intenso sul pubblico. Breve raccoglimento per concentrarsi e poi, con passione, ecco le mani scorrere velocissime sulla tastiera in uno dei suoi cavalli di battaglia, il Grand galop chromatique. "Era un demone che doveva liberare la sua anima suonando; era come torturato, il sangue scorreva e i nervi fremevano", ricorda ancora Hans Christian Andersen. A quel punto il pubblico era gi� suo. E l'impeto lasciava il campo alla dolcezza: testa leggermente all'indietro, occhi chiusi e sorriso ispirato sul volto. Irresistibile: le donne pi� emotive svenivano e gli uomini, lo si vede nelle illustrazioni del tempo, scrutavano col binocolo il volto di Liszt per capire cosa stesse succedendo. Finito il concerto, Liszt si inchinava leggermente al suo pubblico, la mano sul cuore e un'espressione di divina umilt� sul volto. Applausi scroscianti, fiori che piovevano da tutte le parti e lui, la grande star, con un sorriso raccoglieva una camelia rossa, per infilarla nell'occhiello della giacca. Questo � quanto accadeva, con poche variazioni, in uno dei tanti suoi piano recital, la nuova formula di spettacolo da lui inventata nel 1839, in cui suonava da solo e non con altri artisti, come avveniva abitualmente nei concerti all'epoca. Pur conoscendo a memoria buona parte del repertorio pianistico del tempo, Liszt proponeva al pubblico solo brani di sicura presa, con virtuosismi, arpeggi, trilli, sovrapposizioni e incroci di mani. Il successo era assicurato. A Berlino, per�, nel 1842 l'atmosfera si surriscald� un po' troppo e si verificarono alcuni episodi incresciosi. Due nobili dame si contesero a male parole il bicchiere da cui Liszt aveva bevuto durante il concerto, altre litigarono per un suo fazzoletto di seta. C'era chi gli si avvicinava per tagliargli una ciocca di capelli o chi raccoglieva per terra un mozzicone dei suoi sigari da tenere per ricordo. Una donna fu arrestata perch� in strada aveva chiamato il Maestro con parole amorose troppo sopra le righe. Fu visitata dai medici e poi condotta all'ospedale per essere curata. Questi episodi oggi non stupiscono pi� di tanto, ma ai tempi erano considerati assolutamente scandalosi, anche perch� si trattava di aristocratiche abituate a un dignitoso self control. Se il pubblico era tutto per lui, i critici musicali parigini e i suoi amici Chopin e Berlioz erano infastiditi perch�, secondo loro, aveva declassato il concerto a una performance spesso criticabile. Liszt recitava in pieno il ruolo di uomo di spettacolo ed era conscio delle critiche. In una lettera del 1839 scriveva: "I nostri amici non possono giudicarmi. Solo il successo pu� assolvermi, ed � precisamente il successo che mi condanna ai loro occhi". Nel 1844 Liszt diede altri due memorabili concerti a Parigi, davanti al fior fiore della buona societ�, a cui assistette anche il poeta Heinrich Heine, piuttosto scettico sul successo berlinese di Liszt. "Mi sbagliavo", ammise il poeta, "che reazione convulsiva provoc� anche la sola sua apparizione!". Per capire che cosa provocasse questa Lisztomania, Heine (fu proprio lui a coniare questo termine) si rivolse a un medico: questi gli parl� di fenomeni di "magnetismo e di contagio in una sala afosa piena di innumerevoli candele accese". Ma non lo convinse. Il grande poeta continu� a pensare che nessuno al mondo sapesse organizzare cos� bene i suoi successi, o meglio le sue messe in scena. Il Maestro, pur amareggiato per le critiche, andava avanti per la sua strada. A consolarlo ci pensavano le ammiratrici. La prima donna veramente importante della sua vita fu la contessa Marie d'Agoult, bionda, colta e affascinante. Era il 1834, lui aveva 23 anni e lei 7 di pi�, era sposata e con due figlie. Quando lo vide, fu come "un'apparizione", raccontava Marie. "Alto, magrissimo, un viso pallido, con grandi occhi verdi, un'espressione sofferente e potente...": folgorata, la contessa lasci� marito e famiglia. Con grande scandalo inizi� una storia appassionata che dur� una decina d'anni, da cui nacquero 3 figli, e che si concluse nel 1844. Cio� quando Marie, gi� provata dai numerosi tradimenti di Franz, lo vide arrivare a Parigi con la ballerina Lola Montez. Ma tra le tante rivali di Marie c'era anche la principessa Cristina di Belgiojoso, dalla vita avventurosa e dal cuore di patriota, che si era rifugiata a Parigi nel 1831 per sfuggire alla polizia austriaca. Il salotto della dama divenne presto uno dei pi� famosi della Ville Lumi�re, frequentato anche dal Maestro. "La principessa ha rubato Liszt alla d'Agoult", scrisse Honor� de Balzac alla contessa Eva Hanska. Cristina di Belgiojoso, sempre pronta ad aiutare la causa dell'indipendenza, organizz� il 31 marzo 1837 una vendita benefica e un concerto a favore degli esuli italiani. Vari artisti si alternavano al pianoforte, ma l'attenzione di tutti si concentr� subito sui duellanti Franz Liszt e Sigismund Thalberg, un altro virtuoso del pianoforte, divenuto famoso per una tecnica da lui sviluppata che dava quasi l'illusione che suonasse con tre mani. "Il pi� profondo silenzio cadde su quella nobile arena", scrisse il critico musicale Jules Janin nel Journal des D�bats del 3 aprile. "Mai Liszt fu pi� controllato, pi� riflessivo, pi� energico, pi� appassionato; mai Thalberg suon� con maggiore verve e tenerezza". I fedeli lisztiani non avevano dubbi: Franz aveva messo al tappeto il rivale, ma era un concerto di beneficenza e occorreva diplomazia. La bella principessa riusc� elegantemente a togliersi dall'imbarazzo, proclamando che Thalberg era il primo pianista al mondo, ma Liszt era unico. Insomma, due vincitori e nessun vinto. Il divino ungherese continu� a esibirsi, mietendo successi in giro per l'Europa, fino a Mosca e Costantinopoli, dove suon� per il sultano Abd�il-Mecid. Ma nel settembre 1847 decise, a soli 35 anni, di ritirarsi dalla carriera di virtuoso del pianoforte. Come mai, proprio all'apice del successo? Liszt era un dongiovanni e dunque... Cherchez la femme! Che, in questo caso, aveva il volto della principessa Carolyne von Sayn-Wittgenstein. Fu lei a spingerlo a lasciare le tourn�es e a trasferirsi a Weimar per dedicarsi alla composizione. Tra loro nacque un grande amore e Carolyne, donna intelligente e religiosa, riusc� a mettere ordine nella vita dell'artista superstar. Matrimonio impossibile Franz Liszt e la principessa polacca Carolyne von Sayn-Wittgenstein si conobbero in occasione di un concerto che il celebre pianista tenne a Kiev, in Ucraina, nel febbraio del 1847. Lei aveva gi� una figlia e viveva separata dal marito, molto pi� anziano di lei. Subito si stabil� tra loro una profona intesa e il brillante seduttore capitol� davanti a questa donna intelligente e dalla forte personalit�. La principessa, che era molto religiosa, ci teneva a regolarizzare la loro unione e riusc� a ottenere dal papa l'annullamento del suo matrimonio. Finalmente si potevano sposare, tutto era pronto. Ma la cerimonia, che doveva svolgersi nella chiesa romana di San Carlo al Corso il 22 ottobre 1861, proprio nel giorno del cinquantesimo compleanno di Liszt, all'ultimo momento venne annullata. La famiglia del marito era riuscita infatti a sospendere la cerimonia. Non solo, fecero anche sequestrare buona parte dei possedimenti della principessa. Fu un colpo durissimo e Carolyne, per evitare scandali, and� ad abitare da sola in via del Babbuino, dedicandosi agli studi teologici, mentre Liszt si divideva tra Roma, Budapest, Bayreuth e lunghi soggiorni a Weimar. Quando, tre anni dopo, il marito di Carolyne mor� e finalmente avrebbero potuto sposarsi, Franz si tir� indietro e prese gli ordini minori. Ormai per tutti era l'abate Liszt. Biografia del divo 1811: 22 ottobre. Franz Liszt nasce nella cittadina ungherese di Raiding. 1822: Studia a Vienna pianoforte con Carl Czerny e composizione con Antonio Salieri. Precocissimo, aveva 11 anni quando arriv� nella capitale della musica. 1824: Inizia un'intensa attivit� concertistica a Parigi, dove rimane 12 anni. Stringe amicizia con Fr�d�ric Chopin, Hector Berlioz e Felix Mendelssohn. 1834: Conosce la contessa Marie d'Agoult, da cui avr� 3 figli. 1839: Liszt per 9 anni gira l'Europa in tourn�e e raggiunge l'apice del successo come virtuoso del pianoforte. 1844: Fine della relazione con Marie d'Agoult. Franz Liszt � maestro di cappella a Weimar fino al 1861 e stringe amicizia con Richard Wagner che, pi� avanti, sposer� sua figlia Cosima. 1847: Incontra a Kiev (Russia) la principessa Carolyne von Sayn-Wittgenstein. 1861: Si stabilisce con la principessa Carolyne a Roma fino al 1869. 1865: Papa Pio IX gli conferisce gli ordini minori. 1869: Liszt passa l'ultimo periodo della sua vita tra Roma, Weimar (Germania), e Budapest dedicandosi principalmente all'insegnamento. 1884: Dirige per l'ultima volta a Weimar. 1886: 31 luglio. Muore a Bayreuth (Germania), mentre assiste al festival wagneriano. Taormina: perla internazionale (di Sergio Di Giacomo, "Ulisse" n. 390/17) - Capitale del mito, crocevia di personalit� della letteratura del mondo anglosassone, innamorate dell'isola e delle sue bellezze. - Quest'anno il G7 � sato ospitato nella "perla dello Jonio", localit� turistica unica nel suo genere che ha una prestigiosa tradizione legata al "mito internazionale". "Per tutti coloro che viaggiano in Sicilia, il richiamo di Taormina � insistente e irresistibile. Tu non puoi rinunciarvi o ignorarlo. In Giappone c'� un adagio che afferma che non devi mai dire "kekko" (bellezza) fino a quando non hai visto Nikko. In Sicilia, Taormina mantiene la stessa indiscutibile posizione. Se non hai visto Taormina, non hai conosciuto la bellezza. In queste curiose e ammirate parole, riportate nella preziosa guida edita a Londra nel 1905 Queer things about Sicily ("Cose curiose sulla Sicilia"), scritta da Douglas Sladen, insieme con Norma Lorimer, trapela tutta la passione britannica per la cittadina siciliana arroccata magnificamente sul Monte Tauro. Non � quindi un caso che proprio tra la fine dell'800 e gli inizi del '900, Taormina si avviava a diventare un centro turistico dal respiro sempre pi� internazionale, con gli inglesi tra i protagonisti assoluti nei primi decenni del secolo, tanto che negli anni Trenta la comunit� britannica della perla dello Jonio sar� la pi� folta dell'isola. Tra gli appassionati promoter per la comunit� britannica locale ci furono il duca di Bronte, Alexander Nelson Hood, discendente del celebre ammiraglio, la nobildonna Miss Florence T. Trevelyan, "A'ngrisa", che dedic� la sua vita dell'esilio taorminese, Miss Mabel Frances Hill che divenne beniamina della gente locale per aver realizzato, agli inizi del '900, una scuola di ricamo e cucito, la "Embroidery School", denominata anche "Scuola di Beneficenza". Un'altra figura-simbolo � quella di Miss Daphne Phelps, proprietaria di Villa Cuseni, la residenza nella quale la dama inglese ha ospitato negli anni personaggi del calibro di Russell, Faulkner, T. Williams, Dahl, fondata dallo zio, il celebre pittore Robert Hawthorn Kitson (1873-1947). Il grande Oscar Wilde alloggi� per un mese nell'hotel Victoria, come il grande scrittore inglese D.H. Lawrence (1885-1930), che decise di trasferirsi in una casa di campagna in localit� Fontana Vecchia. La sensualit� dai toni veristici dell'amato Verga, rubata alle atmosfere di questo angolo di Sicilia, fu non a caso la molla che ispir� l'inquieto D.H. Lawrence per i suoi racconti solari come Sun e The Lost Girl, e soprattutto le poesie floreali e naturalistiche della raccolta Birds, Beasts and Flowers. Opere create durante il soggiorno che - come vuole la tesi del giornalista Gaetano Saglimbeni - consapevole dei tradimenti amorosi della compagna tedesca Frieda con un mulattiere della zona, diede vita alle pagine tra le pi� celebri e scandalose della letteratura inglese del Novecento in L'amante di Lady Chatterley.