Settembre 2016 n. 9 Anno I Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Copia in omaggio Indice Il lavoro, dopo il jobs act Integrazione: che cosa significa? La saggezza degli psicopatici La maestrina terrorista Il lavoro, dopo il jobs act (di Patrik Vesan, "il Mulino" n. 485/16) Si possono scorrere le pi� recenti statistiche sul mercato del lavoro scrutando l'orizzonte in cerca di qualche segnale positivo. � un esercizio salutare soprattutto quando si fa riferimento alla popolazione in et� giovanile, ovvero a quel gruppo di persone che pi� di altri ha conosciuto i morsi della recente crisi economica. Il problema � che dietro quei pochi punti percentuale di riduzione del tasso di disoccupazione per le persone al di sotto dei 30 anni, registrato dall'Istat nel 2015 rispetto all'anno precedente, traspare una situazione tutt'altro che rosea. Pur a fronte di un'inversione di tendenza, gli ultimi dati disponibili restituiscono la fotografia di un Paese che appare ancora molto lontano dalla condizione in cui si trovava prima della crisi economica del 2008, quando i gi� elevati tassi di disoccupazione giovanile erano pari a circa la met� di quelli di oggi. Negli anni della recessione e delle politiche di austerit�, il significativo aumento tra le giovani generazioni delle persone in cerca di un lavoro � stato accompagnato anche da una crescita del tasso dei neet (+3,1%), dei giovani assunti con contratti a termine (+9,2%) e di coloro che risultano involontariamente occupati a tempo parziale (+13,3%) (cfr. Ilo, Global employment trends for youth 2015, Ilo, 2016, con riferimento al periodo 2010-2014). Questi dati indicano la presenza di una situazione di disagio multiforme che va oltre la semplice perdita di lavoro, e che diventa ancora pi� complessa se si tiene conto delle forti disparit� di genere e territoriali presenti in Italia. Anche se l'economia e il mercato del lavoro mostrano timidi segnali di ripresa, la condizione occupazionale giovanile continua a essere un'emergenza nazionale. La mancanza di lavoro rappresenta - lo ha ricordato recentemente anche Mario Draghi - una vera e propria tragedia che riduce le "chance di vita" delle persone e che tende ad accompagnarsi a una crescita del disimpegno sociale e della sfiducia nei confronti delle istituzioni. Il lavoro, espresso sia sotto il profilo della quantit� sia della qualit�, pi� che un diritto riconosciuto dalla Costituzione � diventato per molti, specie per i pi� giovani, una variabile fortemente instabile. Dal punto di vista dei redditi, le coorti di persone nate dopo la met� degli anni Settanta hanno visto progressivamente peggiorare la loro condizione rispetto alle generazioni precedenti e questo � avvenuto in particolare con riferimento alle persone pi� istruite (P. Natticchioli, M. Raitano e C. Vittori, La meglio giovent�: earning gaps across generations and skills in Italy, Iza discussion paper, 2014). In altre parole, i figli stanno peggio dei padri e lo svantaggio intergenerazionale rischia di trasformarsi in frattura, come mostra anche il recente dibattito sull'adeguatezza, equit� e sostenibilit� del sistema pensionistico italiano. La disoccupazione giovanile ha comunque radici ben pi� profonde della recente crisi economica. Si tratta di un problema strutturale che si � aggravato soprattutto in quei Paesi dove la recessione ha colpito pi� duramente. Non a caso, il tema della disoccupazione giovanile � stato posto al centro delle agende politiche di numerosi governi nazionali e istituzioni internazionali. Nel 2013, l'Unione europea ha finanziato una strategia specificamente rivolta al problema dei neet denominata "Garanzia per i giovani", la cui capacit� di fornire risposte efficaci nel breve periodo appare per� ancora limitata. � chiaro che una strategia cos� impegnativa richiede tempo e risorse adeguate, soprattutto laddove mancano le precondizioni per farla funzionare a pieno regime (P. Vesan e R. Lizzi, La Garanzia giovani e l'approccio del new policy design: tra aspettative, speranze e delusioni, "Rivista italiana di politiche pubbliche", n. 1/2016, pp. 57-86). L'emergenza occupazionale giovanile necessita per� anche di soluzioni rapide, per evitare che troppe persone entrino in una spirale di svantaggi cumulativi. Forse anche per questo per il governo Renzi la "vera" Garanzia giovani non � coincisa con l'attuazione dell'omonimo programma di derivazione europea, quanto con l'introduzione dei contratti a tutele crescenti avvenuta con il jobs act e la generosa decontribuzione associata ai nuovi contratti a tempo indeterminato. Nell'intento dichiarato dal governo, la riforma delle politiche del lavoro ha mirato alla crescita dell'occupazione di maggiore qualit�, soprattutto al fine di contrastare il fenomeno della segmentazione del mercato del lavoro che interessa in particolare le fasce pi� giovani. La strategia messa in atto ha avuto come perno centrale l'incentivazione dei rapporti di lavoro "permanenti" sia sul piano normativo (la revisione dell'articolo 18) sia sul piano economico (la politica degli sgravi). I principali fattori che hanno spinto il governo in tale direzione sono tre. Primo: si � cercato di "dare una scossa al sistema", tentando di influenzare le scelte degli imprenditori in materia di assunzioni. Per questo occorreva adottare provvedimenti d'impatto immediato e di facile attuazione, volti a sfruttare e indirizzare la ripresa occupazionale in un contesto macroeconomico che si stava risvegliando dopo tredici trimestri consecutivi di calo tendenziale del prodotto interno lordo. Secondo: le riforme varate rispondevano alle richieste provenienti da Bruxelles e da molte istituzioni internazionali, accogliendone di fatto l'implicita diagnosi dei problemi e l'orientamento normativo. Al contempo, la pronta adozione delle riforme si sarebbe rivelata utile al nuovo governo Renzi, chiamato a dar prova di credibilit� nelle negoziazioni avviate con le istituzioni comunitarie nell'ambito del semestre europeo. Terzo: l'adozione di queste riforme ha rappresentato un elemento importante nella promozione di un'immagine di leadership di rottura da parte dall'attuale presidente del Consiglio. Semplificando, la logica politica del jobs act pu� essere cos� sintetizzata. Il governo ha deciso di puntare sulla liberalizzazione dei contratti a tempo indeterminato e su uno strumento - gli incentivi occupazionali - che la letteratura economica riconosce fra quelli che hanno maggiore possibilit� di esibire qualche risultato, anche se spesso solo nel breve periodo. Tale approccio trovava il consenso della parte datoriale e di un'ampia fetta dell'elettorato, mentre l'avvenuta contrazione dei diritti sociali sarebbe stata legittimata dai buoni risultati occupazionali su cui il governo sperava. La scelta di un'ulteriore liberalizzazione del lavoro a tempo indeterminato era inoltre caldeggiata a livello internazionale, in particolare dalla Commissione europea con la quale Renzi e Padoan stavano negoziando la concessione di margini di flessibilit� nel processo di avvicinamento al pareggio di bilancio strutturale (P. Vesan, I giovani e le politiche del lavoro, in La politica in Italia 2016. I fatti e le interpretazioni, a cura di M. Carbone e S. Piattoni, il Mulino, 2016). L'adozione della legge delega 183/2014 (il jobs act) e la rapidit� con la quale sono stati varati i suoi otto decreti di attuazione ha rappresentato infatti un asset che il governo ha speso sulla scena politica europea. Sul fronte interno, invece, tale solerzia � servita ad affermare uno stile di policy assertivo, su cui Matteo Renzi ha investito fortemente nella sua strategia di costruzione del consenso personale. Anche se � ancora presto per trarre un bilancio definitivo del jobs act a partire dalle intenzioni dichiarate dal governo, � possibile avanzare alcune prime riflessioni soprattutto con riferimento alla condizione occupazionale giovanile. Sulla base dei dati riportati dall'Osservatorio sul precariato dell'Inps (report mensile gennaio-febbraio 2016), nel corso del 2015 le assunzioni tramite contratti a tempo indeterminato sono aumentate di circa il 58% rispetto all'anno precedente, mentre le trasformazioni da tempo determinato a indeterminato del 73%. Se consideriamo la crescita netta, ovvero il saldo complessivo tra assunzioni e cessazioni, si registra un incremento di 605.000 posizioni lavorative rispetto al dato negativo del 2014 (meno 47.000 contratti). Tale risultato � dovuto all'incremento netto di pi� di 900.000 contratti a tempo indeterminato, a fronte di una contrazione sia dei contratti di apprendistato, sia di quelli a tempo determinato. Sul complesso delle assunzioni realizzate nel 2015, circa il 31% ha riguardato persone di et� inferiore ai 30 anni; di queste pi� del 60% sono avvenute con contratti a termine. Pertanto, sono stati soprattutto i lavoratori pi� anziani a essere interessati dalla ripresa occupazionale e dalle assunzioni a tempo indeterminato. Le stime prodotte dall'Istat a partire dai dati raccolti attraverso l'indagine sulle forze di lavoro confermano la tendenza al calo dei disoccupati e degli inattivi, nonch� all'aumento del numero di occupati, soprattutto con riferimento agli over cinquantenni. La situazione appare meno incoraggiante per i pi� giovani dove, nel corso del 2015, pur a fronte di una diminuzione dei disoccupati, non si osservano cambiamenti significativi nel numero degli occupati e degli inattivi. In sintesi, le condizioni del mercato del lavoro italiano segnano una tendenza al miglioramento che � dovuta all'azione congiunta di una pluralit� di fattori tra cui l'andamento dell'economia, gli sgravi contributivi e la revisione della disciplina sui licenziamenti illegittimi. Il jobs act ha prodotto indubbiamente alcuni risultati, ma occorre pi� tempo per valutarne gli effetti complessivi. Al contrario, voler scovare a tutti i costi una conferma o una smentita della bont� dei provvedimenti assunti dal governo nelle oscillazioni mensili della disoccupazione appare poco utile. All'impazienza di una lettura politica di dati congiunturali va contrapposta un'analisi che sappia raffrontare la logica complessiva della strategia di riforma con le trasformazioni del mercato del lavoro nel medio periodo, senza per� dimenticare i segnali di immediato allarme. Tra questi ultimi vi sono quelli relativi alla persistenza del fenomeno della precariet� dei lavoratori. La scelta di abolire con il jobs act i contratti a progetto, considerati a torto o a ragione come forme mascherate di lavoro dipendente, non pu� far dimenticare alcune criticit� che emergono nell'impostazione complessiva dell'azione del governo. L'ulteriore flessibilizzazione dei contratti a tempo determinato, realizzata dal decreto Poletti nel 2014 e confermata con alcune variazioni dal jobs act, sembra porsi in contraddizione con il tentativo di modificare la composizione del mercato del lavoro, promuovendo i contratti a tempo indeterminato come il rapporto di lavoro preminente. Tale incoerenza mette in luce l'incertezza della riforma, i cui obiettivi dichiarati rischiano di non essere raggiunti soprattutto una volta che gli sgravi verranno meno. Lo stesso ricorso ai contratti a tutele crescenti, formalmente pi� stabili, non implica una "stabilizzazione" automatica dei lavoratori. Il mercato del lavoro italiano ha sempre mostrato elevati livelli di mobilit� per i dipendenti privati, anche per coloro assunti a tempo indeterminato. Per questo � improbabile che la sola introduzione del contratto a tutele crescenti possa incidere in maniera profonda sulle scelte degli imprenditori che dipendono soprattutto dalle caratteristiche della struttura produttiva e dalla trasformazione del lavoro. La scommessa del jobs act si basa inoltre, come abbiamo detto precedentemente, sul fatto che la diffusione dei contratti a tutele crescenti possa consentire ai lavoratori, soprattutto ai pi� giovani, di godere di migliori condizioni nelle loro pi� o meno brevi esperienze lavorative. Posto che questo sia vero per coloro che provengono da una situazione di disoccupazione o da rapporti di lavoro fortemente precari, la promozione della presunta stabilit� � stata realizzata trasferendo i rischi dai datori di lavoro ai lavoratori, senza intervenire in maniera strutturale per rendere i contratti a tempo prefissato meno convenienti. Un ulteriore segnale preoccupante arriva dal crescente ricorso al lavoro accessorio, testimoniato dall'aumento esponenziale dell'utilizzo dei voucher. Dall'inizio della sua sperimentazione nell'estate nel 2008, quando i voucher erano stati introdotti per lavori di breve durata come le vendemmie, il numero di buoni venduti del valore nominale di 10 euro ciascuno � passato da circa 536.000 a poco pi� di 115 milioni alla fine del 2015 (Inps, Osservatorio sul lavoro accessorio, aprile 2016). Il numero dei lavoratori interessati � invece salito nel 2015 a 1 milione e 380.000 persone, registrando una crescita del 66% rispetto all'anno precedente. Si tratta per lo pi� di giovani adulti (et� media di 36 anni) che percepiscono dei voucher a importi ridotti (pari in media a circa 450 euro netti all'anno). Se il voucher pu� svolgere la preziosa funzione di regolarizzare lo svolgimento di alcune attivit� lavorative, la loro diffusione incontrollata apre per� la strada a una nuova frontiera del precariato. Un discorso analogo va fatto anche in merito alla diffusione degli stage e dei tirocini, l'unica misura ad aver riscosso un qualche successo nell'ambito della Garanzia giovani. Questi strumenti possono certamente rappresentare una occasione importante per i pi� giovani, al fine di acquisire nuove competenze e agevolare una pi� rapida e piena transizione nel mercato del lavoro. Ma il rischio del loro abuso non dovrebbe essere sottovalutato, soprattutto nel momento stesso in cui il governo li incentiva economicamente. La valutazione del jobs act pu� essere infine svolta non solo in termini occupazionali, ma anche con riferimento all'onere complessivo per ottenere i risultati raggiunti. Secondo alcune stime (cfr. M. Fana e M. Raitano, Il jobs act e il costo della nuova occupazione: una stima, "Etica ed Economia", 4 maggio 2016), gli sgravi contributivi saranno particolarmente esosi per le casse dello Stato. Al di l� del loro costo elevato, la critica alla politica degli incentivi occupazionali poggia su due rilievi. Il primo � di aver sprecato risorse pubbliche per risultati che rischiano di essere modesti: � infatti plausibile che una quota significativa dei nuovi contratti a tempo indeterminato fortemente incentivati si sarebbe realizzata egualmente. Questo effetto di spreco avrebbe in teoria potuto essere contenuto indirizzando gli incentivi verso alcuni gruppi di lavoratori o di aziende. Il governo Renzi ha invece preferito la loro distribuzione generalizzata, forse anche memore del fallimento degli incentivi occupazionali voluti dal governo Letta nel 2013, i quali erano, per l'appunto, riservati prevalentemente ai giovani lavoratori e condizionati all'incremento netto dell'occupazione. Il secondo aspetto critico riguarda il fatto che sarebbe stato meglio indirizzare da subito le ingenti risorse messe in campo a favore della crescita della domanda di lavoro e degli investimenti nei settori pi� innovativi, anche al fine di incrementare per questa via la produttivit�. Non che il problema della produttivit�, storicamente bassa in Italia, non fosse da tempo al centro dell'attenzione dei policy makers. Tutte le riforme del lavoro adottate a partire dalla seconda met� degli anni Novanta hanno condiviso l'idea che l'aumento della produttivit� si sarebbe ottenuto liberalizzando i contratti a tempo prefissato, al fine di favorire un'allocazione pi� efficiente della forza lavoro. In realt�, tale liberalizzazione ha prodotto dei riflessi negativi sulla produttivit� per via del fatto che i contratti precari sono stati per lo pi� utilizzati dalle aziende come strumenti di riduzione dei costi, portando a un disinvestimento nella formazione dei lavoratori e nell'innovazione. Se dunque i contratti a tempo prefissato possono in parte favorire le transizioni verso rapporti di lavoro a tempo indeterminato, al contempo la ridotta accumulazione di capitale umano che spesso li accompagna � causa e conseguenza della situazione di precariet� (cfr. F. Berton, M. Richiardi e S. Sacchi, The political economy of work security and flexibility: Italy in comparative perspective, Policy Press, 2012). Consapevole di questo problema, l'incentivazione dei contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti � stata giustificata proprio con il fine di rompere tale "trappola della precariet�" che affligge in particolare i lavoratori pi� giovani. In altre parole, la liberalizzazione portata avanti dal jobs act dovrebbe essere - perlomeno stando agli intenti del governo - non solo potenzialmente compatibile, ma anche favorevole a incrementi della produttivit� del lavoro, a differenza di quanto avvenuto con le riforme degli anni passati. I primi dati sull'utilizzo degli sgravi contributivi non sembrano per� dare segnali incoraggianti in tale direzione. Si tratta dunque di una scommessa tutta ancora da verificare, nonch� fondata, come abbiamo argomentato, su deboli presupposti. Sullo sfondo di questi propositi, il jobs act � entrato nel 2016 nella sua seconda fase, anche se al momento � difficile coglierne l'effettiva traiettoria. Il governo ha confermato la politica degli sgravi contributivi, dimezzandone per� l'entit� sul massimo periodo di godimento. Allo stesso tempo ha riavviato, dopo la pausa del 2015, lo strumento della tassazione agevolata per i premi di produttivit�. Si assiste dunque a una graduale revisione della precedente strategia. Se nella "fase uno" questa era centrata sulla promozione della flessibilit� esterna (minori costi di licenziamento) e sulla forte incentivazione delle nuove assunzioni a tempo indeterminato, nella "fase due" si cerca di combinare la riduzione della dose del doping degli sgravi contributivi con la promozione degli strumenti di flessibilit� interna, favorendo la contrattazione decentrata. Un altro fronte di intervento aperto riguarda le riforme in materia di transizione scuola-lavoro e di politiche attive. Si tratta di provvedimenti gi� avviati nel 2015, ma il cui possibile effetto dipende strettamente da come e in che misura verranno effettivamente implementati. Un primo importante intervento riguarda l'introduzione di un sistema duale di alternanza scuola-lavoro, una soluzione fortemente auspicata nel dibattito internazionale sulle politiche per l'occupazione giovanile: il jobs act e la legge 107/2015 (la cosiddetta "Buona scuola") mirano infatti in quella direzione. L'obiettivo dovrebbe essere soprattutto la promozione del ricorso all'apprendistato che ancora langue in Italia. Al di l� degli interventi normativi, � comunque necessario che si crei un terreno favorevole al consolidamento di questa innovazione sia dal punto di vista culturale e della percezione collettiva, sia dei comportamenti degli imprenditori. Rimane inoltre da verificare quali siano le condizioni tali per cui il canale dell'apprendistato possa funzionare anche in quelle aree del Paese dove, a fronte di un elevatissimo tasso di disoccupazione giovanile, manca anche un tessuto economico dinamico. Per quanto riguarda le politiche attive, nonostante l'implementazione della Garanzia giovani e le novit� introdotte dal jobs act, al momento non si intravedono cambiamenti significativi. La costituzione dell'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro potrebbe essere foriera di nuovi sviluppi. A ogni modo, la piena riorganizzazione dei servizi per l'impiego rimane sospesa al destino del referendum costituzionale, dato che la riforma prevede una ricentralizzazione della materia in capo allo Stato. Indipendentemente dal futuro assetto istituzionale, � difficile che le politiche attive del lavoro possano sortire qualche risultato senza un investimento massiccio di risorse e senza l'effettiva realizzazione di partenariati in grado di attivare dal basso, e in accordo a una logica sussidiaria, i soggetti presenti sul territorio, a cominciare dalle imprese. La strada da compiere � dunque ancora molto lunga e tortuosa. Ma si tratta di un investimento necessario se si vuole effettivamente prendere di petto l'annosa questione della discrepanza tra competenze e occupazione (il cosidetto skills mismatch). Quest'ultimo rappresenta uno dei problemi strutturali del mercato del lavoro italiano, che si caratterizza per la presenza di un fenomeno sia di sottoqualificazione, sia di sovraqualificazione dell'offerta di lavoro. � importante osservare che se lo skills mismatch costituisce un aspetto nevralgico della condizione occupazionale giovanile, la soluzione va ricercata non tanto nelle politiche di flessibilizzazione e incentivazione dei contratti a tempo indeterminato (la Garanzia giovani di Renzi), ma nella realizzazione di strategie composite che intervengano sia sul lato della formazione orientata al lavoro, sia su quello imprenditoriale. Se infatti il sistema educativo va riformato al fine di rafforzare reciprocamente le sinergie tra scuola (universit�) e mondo del lavoro, occorrono anche progetti e investimenti che consentano la crescita di una domanda di lavoro qualificata. Ci� significa favorire cambiamenti della struttura produttiva e delle strategie imprenditoriali, puntando sulla "via alta" della competitivit�. In caso contrario, la politica del jobs act rischia di fermarsi al primo tempo, ovvero quello della liberalizzazione dell'occupazione a tempo indeterminato, che ha reso meno nitidi i confini tra la condizione di outsiderness e insiderness dei lavoratori senza per� intaccare i problemi strutturali del nostro mercato del lavoro. Di fronte a un simile scenario, � difficile che quel fenomeno di svantaggio intergenerazionale, di cui abbiamo parlato in apertura, possa essere interrotto e invertito. Integrazione: che cosa significa? (di Giuseppe Mantovani, "Psicologia contemporanea" n. 212/09) - Le parole che usiamo sono spesso nate per classificare, per amministrare persone e cose e soprattutto per separare "noi" e "loro". Oggi, che si sta formando un nuovo "noi" inclusivo anche dell'"altro", non abbiamo parole per esprimerlo. - Media di tutto il mondo hanno salutato l'elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti come il trionfo del "melting pot", il pentolone in cui tutte le differenze culturali si incontrano, si fondono e si annullano. L'elezione di Obama � certamente un evento di grande significato, se consideriamo che "la discriminazione non � un incidente, un'imperfezione della democrazia americana, ma un suo elemento fondante, strutturante. All'origine, gli americani erano degli inglesi individualisti, scarsamente inclini alla parit�. La presenza dei nativi indiani e dei neri ha permesso via via di compattare un corpo di cittadini bianchi ed uguali, in grado di assimilare immigrati culturalmente diversi: irlandesi, tedeschi, scandinavi, ebrei, italiani [...] anche se va ricordato che riguardo agli italiani l'America ha esitato per un attimo se considerarli dei veri bianchi" (Todd, in Cicala, 2008). In realt�, l'apparizione di Obama e della moglie sul palco del Grant Park di Chicago, la notte della vittoria, con il vicepresidente eletto Biden e la sua bionda moglie segna un passaggio storico nella possibilit� di accesso dei neri alle stanze dei bottoni del potere politico americano pi� che un trionfo del "melting pot". Lo sarebbe stato se avessimo visto sul palco Obama con una moglie bianca e Biden con una moglie nera o vietnamita o afgana. L'immagine di Obama "scioccantemente" interculturale - raramente comparsa sui media - � quella che lo mostra ragazzo con l'aria un po' smarrita su una panchina in mezzo ai due nonni "bianchi" che lo hanno allevato, lei con il tailleurino rosso e la borsetta in grembo e lui con completo grigio e cravatta blu: due bravi pensionati del Kansas che si prendono cura del nipotino che non � "nero" o "bianco" ma � tutte e due le cose, un miscuglio, un mutt (il nome che si d� ai cuccioli di razza mista), come Barack stesso si � definito. Integrazione e assimilazione Ma che cosa si intende dire quando si parla di "integrazione"? "Integrazione" � un'espressione garbata, liberal, tollerante che contiene dentro di s�, implicita, un'altra parola che non � per niente liberal, la parola "assimilazione", che implica che chi viene da fuori, lo straniero, si deve uniformare agli usi e costumi degli autoctoni. Questa � l'opinione di van Dijk (1991; 1997), grande esperto di razzismo nei media, che considera la retorica dell'"integrazione" e quella dell'"assimilazione" come forme di discorso razzista per il fatto che in entrambi i casi l'insuccesso nell'acculturazione viene attribuito alle minoranze, nel nostro caso agli "immigrati", accusati di non sapersi o volersi formare una immagine positiva degli autoctoni, i "padroni di casa" che li "ospitano". La questione dell'"integrazione" suppone che gli insuccessi nell'"adattamento" siano da attribuire ad una inadeguatezza - cognitiva o motivazionale o entrambe - dell'immigrato che non sa o non vuole venire a patti con il nuovo ambiente in cui si trova. L'approccio cross-culturale Le retoriche dell'"integrazione" non soltanto sono presenti nei media e nel senso comune dei paesi "occidentali", ma sono anche uno dei cardini della ricerca cross-culturale sull'acculturazione (Berry, 2001; van de Vijer e Phalet, 2004), che ritiene che l'"adattamento" psicologico sia il risultato degli atteggiamenti delle persone che fanno parte di gruppi minoritari (gli immigrati, nel nostro caso) verso la "cultura" propria e altrui. A seconda degli atteggiamenti positivi o negativi dei vari individui (immigrati) nei confronti delle "culture" della maggioranza (gli autoctoni, i padroni di casa) e della minoranza (gli immigrati), si avrebbero quattro tipi di adattamento (Berry, 1997): l'"integrazione", che corrisponderebbe alla situazione delle persone che rispondono, nei questionari, che vogliono mantenere la loro "cultura" ma anche interagire con gli autoctoni; l'"assimilazione", che definirebbe le persone che vogliono acquisire la "cultura" degli autoctoni e perdere la propria; la "separazione", che caratterizzerebbe le persone e i gruppi che vogliono mantenere la loro "cultura" ed evitare i contatti con altri gruppi; la "marginalizzazione", che condannerebbe all'isolamento le persone che svalutano o hanno perduto contatto con la loro "cultura" ma non hanno capacit� o interesse ad acquisirne altre. I limiti della ricerca sull'acculturazione La ricerca sull'acculturazione � andata incontro a critiche severe, che ne hanno messo in discussione i riferimenti teorici e le metodologie di indagine. Una prima critica investe la rigida tipologia quadripartita (integrazione - assimilazione - separazione - marginalizzazione) che � alla base della ricerca cross-culturale. Questa tipologia appare infondata sul piano dell'analisi, essendo basata su dicotomie rozze (decontestualizzate) tra posizioni favorevoli/sfavorevoli nei confronti della "cultura" propria/altrui. � facile invece vedere che nella realt� ogni contesto di immigrazione � diverso dagli altri ed � caratterizzato da coordinate socio-storiche ed ambientali uniche (Bowskill et al., 2007). Una seconda critica riguarda il fatto che per la ricerca cross-culturale il successo o l'insuccesso dei processi di acculturazione dipende dagli atteggiamenti dei singoli individui, ed in particolare dei membri delle "minoranze" (nel nostro caso, gli immigrati); ne segue che gli eventuali insuccessi sarebbero da imputare alla "minoranza", assolvendo da ogni responsabilit� le posizioni e le decisioni della "maggioranza". Una terza critica mette in discussione la cornice usata dalla ricerca cross-culturale sull'acculturazione, che si riduce ad un confronto/contrapposizione tra "maggioranza" e "minoranza". Nelle situazioni di vita reale, invece, non abbiamo, se non eccezionalmente, due soli gruppi che si fronteggiano. Nei contesti di immigrazione, infatti, si incontrano una pluralit� di gruppi, ciascuno dei quali molto diversificato al suo interno. Una quarta ed ultima critica, che riassume in s� le precedenti, contesta e respinge la concezione fondamentalista ("reificata") di "cultura" come un contenitore chiuso ed esclusivo, separato all'esterno e omogeneo all'interno (Mantovani, 2004). "Noi" e "loro": etnocentrismo Le parole che usiamo sono spesso nate per classificare, per amministrare persone e cose, e soprattutto per separare "noi" e "loro". I concetti che usiamo e che i media ci ripropongono continuamente incorporano e riproducono logiche di dominio e di controllo che appartengono al passato. La parola "integrazione", attualmente usata nei contesti pi� vari, implica che qualcuno che viene da fuori finisca con l'essere "dentro" il "nostro" mondo. Essa pu� apparire come un successo solo se si suppone che il "nostro" mondo culturale sia superiore agli altri, come pensavano i sostenitori della missione civilizzatrice della colonizzazione "occidentale". Scrive Shweder (2003), che insegna antropologia all'Universit� di Chicago: "Allora come ora il gradino su cui le varie culture erano collocate dipendeva da un ristretto numero di indici di progresso, o sviluppo, o evoluzione che si ritenevano oggettivi ed altamente correlati tra loro. La direzione di marcia si pensava che andasse da povero a ricco, da magico a scientifico, da illetterato a capace di leggere e scrivere, da ineducato a educato, da semplice a complesso, da malato a sano, da autoritario a democratico, da poligamico a monogamico, da pagano a cristiano, da oppresso a libero. L'essenziale era che il nostro modo di vivere fosse il pi� vero, buono, bello ed efficiente e che le credenze, i valori, le pratiche degli altri, nella misura in cui differiscono dalle nostre, fossero false, vergognose, sgradevoli ed irrazionali". Le parole di un "nuovo noi" L'esperienza dei migranti � caratterizzata da Bhatia (2002) come un "costante movimento avanti e indietro fra posizioni culturali incompatibili". Quali parole usare per descrivere queste esperienze frammentate, piene di buchi e di silenzi? Quali retoriche, che non siano quelle dell'assegnazione a stereotipi "etnici", come avviene tuttora nelle ricerche che confrontano "adolescenti marocchini e adolescenti italiani"? Quali strategie di ricerca adottare per cogliere ci� che di nuovo sta nascendo sotto i nostri occhi? Occorreranno teorie e metodologie qualitative, etnograficamente orientate, attente a come le persone e i gruppi sociali fanno esperienza delle cose che incontrano e a come attribuiscono significati alle relazioni e all'ambiente (Mantovani, 2008). La centralit� del discorso e della narrazione che si sta ora affermando nelle scienze sociali libera dall'ossessione del quantificare cose che non si conoscono, o si conoscono solo superficialmente, e ci introduce all'attenzione per la specificit� delle situazioni in cui le supposte barriere "culturali" vengono aggirate, scavalcate o - come accade spesso - semplicemente ignorate. Invece delle parole che ripropongono la contrapposizione statica tra dei "noi" sempre uguali a s� stessi e degli "altri" anch'essi consegnati alla loro alterit� culturale, dobbiamo scoprire i modi in cui si sta formando un nuovo "noi", inclusivo di chi era fino ad ora "altro" - e soprattutto dobbiamo inventare le parole per dire questo "nuovo noi". La saggezza degli psicopatici (di Kevin Dutton, "Le Scienze" n. 532/12) - Si pu� imparare molto dagli psicopatici, perch� alcuni aspetti della loro personalit� e del loro intelletto sono spesso l'impronta del successo. - Ci sono tratti caratteriali degli assassini seriali psicopatici (grandioso senso di autostima, persuasivit�, fascino a prima vista, spregiudicatezza, assenza di rimorsi e capacit� di manipolazione) che si ritrovano spesso anche tra i politici e i leader mondiali. Una simile personalit� permette a chi ce l'ha di fare ci� che vuole quando vuole, senza curarsi delle conseguenze sociali, morali o legali delle sue azioni. Se siete nati sotto la stella giusta, e avete un potere sulla mente umana simile a quello che ha la Luna sul mare, potreste ordinare il genocidio di centomila curdi e poi salire sul patibolo dando prova di una tale arcana ostinazione da suscitare una tacita e pervertita deferenza perfino nei vostri pi� veementi detrattori. "Non abbia paura, dottore", ha detto Saddam Hussein sulla forca, qualche attimo prima dell'esecuzione. "Questa � una cosa da uomini". Se si � violenti e astuti come Robert Maudsley, il vero Hannibal Lecter, si pu� attirare un altro prigioniero nella propria cella, spaccargli il cranio con un martello e assaggiarne il cervello con un cucchiaio con la tranquillit� di chi sta assaporando un uovo alla coque. (Maudsley, tra l'altro, � in isolamento da trent'anni in una gabbia a prova di proiettile, nel sottosuolo della prigione di Wakefield, in Inghilterra.) Oppure se si � un brillante neurochirurgo, freddo e capace di concentrarsi sotto pressione in modo del tutto spregiudicato, come un dottore che chiamer� Gerarghty, si pu� cercare la propria fortuna in un campo completamente diverso: alla frontiera della medicina del XXI secolo, dove il rischio regna incontrastato e lo spazio per prendere decisioni vitali � strettissimo: "Non provo compassione per i pazienti che opero", mi ha detto. "� un lusso che non posso permettermi. In sala operatoria, io rinasco sotto le spoglie di una macchina fredda e senza cuore, un tutt'uno con bisturi, trapano e sega. Quando si cerca di imbrogliare la morte oltre i confini del cervello non c'� posto per i sentimenti. L'emozione � entropia, � pericolosissima. Le ho dato la caccia per anni, fino a eliminarla". Gerarghty � uno dei migliori neurochirurghi del Regno Unito e, bench� da un lato le sue parole gelino il sangue, da un altro punto di vista sono molto sensate. Nelle profondit� di alcuni dei recessi pi� pericolosi del cervello, lo psicopatico appare come un predatore solitario e spietato, che esercita un fascino effimero e mortale. Basta la parola, e immagini di serial killer, stupratori e bombaroli pazzi iniziano a infestare i vicoli della nostra mente. Potrei per� raccontarvi una storia completamente diversa. Potrei dirvi che il piromane che brucia la vostra casa, in un universo parallelo potrebbe essere l'eroe che sfider� il fuoco e si lancer� tra le fiamme per salvare i vostri cari. Oppure che il ragazzino armato di coltello che si nasconde nell'ombra di un cinema, negli anni a venire potrebbe impugnare un tipo ben diverso di lama, in un tipo ben diverso di sala. Affermazioni di questo genere sono difficili da credere. Eppure sono vere. Gli psicopatici sono audaci, sicuri, carismatici, spietati e focalizzati sul loro obiettivo. Per�, al contrario di quanto si crede, non sono necessariamente violenti. Non si tratta di un'alternativa secca (o sei uno psicopatico o non lo sei): ci sono, invece, zone interne ed esterne della sindrome, un po' come i quartieri di una citt�. Esiste uno spettro della psicopatia lungo il quale ognuno di noi ha il suo posto, e solo una piccola minoranza risiede nella zona centrale. Dobbiamo pensare ai tratti psicopatici come ai cursori del banco di missaggio di uno studio di registrazione. Se si mettono tutti al massimo, il risultato sar� inascoltabile, ma se vengono calibrati, mettendone alcuni pi� in alto di altri (per esempio il coraggio, la concentrazione, la mancanza di empatia e la forza mentale) allora il risultato pu� essere un chirurgo d'eccezione. La chirurgia � solo uno dei casi in cui il "talento" psicopatico pu� risultare vantaggioso, ma ce ne sono altri. Nel 2009, per esempio, decisi di iniziare una ricerca per determinare se la capacit� degli psicopatici di percepire la vulnerabilit� (dimostrata in alcuni studi) potesse avere qualche applicazione utile. Ci doveva pur essere un modo per mettere quest'abilit� al servizio della societ�, piuttosto che contribuire alla sua rovina. E ci doveva essere anche un modo di studiare questa possibilit�. L'illuminazione mi arriv� incontrando un amico all'aeroporto. Tutti siamo un po' nervosi quando passiamo la dogana, anche quando siamo completamente innocenti. Ma che cosa si prova quando si ha qualcosa da nascondere, e se c'� un doganiere abbastanza bravo da percepire quel sentimento? Per scoprirlo feci un esperimento con 30 studenti universitari: met� avevano punteggi alti sulla scala di autocertificazione psicopatica, e l'altra met� punteggi bassi. Furono coinvolti anche cinque "contrabbandieri". Gli studenti dovevano stare seduti in classe, e osservare i contrabbandieri che entravano, attraversavano una passerella, e uscivano. Il compito degli studenti era scoprire il "colpevole": chi, dei cinque, aveva in tasca un fazzoletto rosso? Per rendere il gioco pi� interessante, e motivare i giocatori, all'assistente con il fazzoletto rosso venivano dati anche cento dollari. Se gli osservatori lo scoprivano (cio�, se alla fine, contati i voti, lui era il pi� votato), allora doveva restituire il denaro; se invece riusciva a farla franca, e un altro veniva accusato al suo posto, poteva tenerli. Quali studenti sarebbero stati pi� bravi come "doganieri"? L'istinto predatorio degli psicopatici sarebbe risultato affidabile o invece il loro fiuto per la vulnerabilit� li avrebbe abbandonati? Pi� del 70 per cento degli studenti con punteggi alti nella scala di autocertificazione psicopatica indovinarono correttamente il contrabbandiere di fazzoletti rossi, contro il 30 per cento degli altri. Individuare le debolezze altrui fa sicuramente parte del talento di un assassino seriale, ma pu� tornare utile anche in aeroporto. Vagonologia Joshua Greene, psicologo alla Harvard University, ha studiato il modo in cui gli psicopatici risolvono i dilemmi morali. Come ho descritto nel mio libro Split-Second Persuasion, si � imbattuto in un fenomeno interessante. L'empatia non � affatto uniforme, � schizofrenica. Ve ne sono due tipi: calda e fredda. Prendiamo un classico dilemma (caso 1) proposto per prima dalla filosofa Philippa Foot. Un vagone sfreccia sui binari, e sulla sua strada ci sono cinque persone immobilizzate, che non possono scappare. Fortunatamente c'� uno scambio che voi potete azionare, e che devier� il vagone su un altro binario, salvando le cinque persone. Ma c'� un prezzo da pagare: sul secondo binario c'� un'altra persona intrappolata, che il vagone uccider�. Azionerete lo scambio o no? Quasi tutti non fanno fatica a decidere che cosa fare in questa situazione. La prospettiva di azionare lo scambio non � certo piacevole, ma sicuramente l'opzione utilitarista (uccidere una persona invece di cinque) � il male minore. Giusto? Ora consideriamo la seguente variante (caso 2), proposta dalla filosofa Judith Jarvis Thomson. Come nel caso precedente, un vagone sfreccia senza freni sui binari verso cinque persone intrappolate. Ma questa volta voi siete su un ponte sopra la ferrovia, proprio dietro un signore molto corpulento. L'unico modo per bloccare il vagone � buttare dal ponte lo sconosciuto, che andr� incontro a morte certa, ma la sua considerevole stazza fermer� il vagone, salvando le cinque persone. Domanda: lo buttate? Si potrebbe dire che qui siamo di fronte a un dilemma "reale". Anche se il conto delle vite in gioco � lo stesso del primo caso (cinque a uno), stavolta la decisione ci innervosisce e ci rende pi� circospetti. Perch�? Greene � convinto che la risposta abbia a che fare con diverse regioni del cervello. Il caso 1, suggerisce, � un dilemma morale impersonale, e interessa le regioni del cervello principalmente coinvolte nell'esperienza obiettiva dell'empatia fredda, nel ragionamento e nel pensiero razionale, cio� la corteccia prefrontale e la corteccia parietale posteriore (in particolare la corteccia paracingolata anteriore, il polo temporale e il solco temporale superiore). Il caso 2, invece, � ci� che potremmo chiamare un dilemma morale personale, che coinvolge il centro emotivo del cervello, l'amigdala: il circuito dell'empatia calda. Come la maggior parte delle persone, gli psicopatici risolvono il dilemma del caso 1 abbastanza in fretta. Per�, e qui il mistero s'infittisce, al contrario della maggior parte della popolazione risolvono abbastanza in fretta anche il caso 2. Gli psicopatici buttano il ciccione gi� dal ponte senza batter ciglio. A complicare ulteriormente le cose, questa differenza di comportamento si rispecchia piuttosto distintamente nel cervello. Di fronte ai dilemmi morali impersonali, l'immagine dell'attivazione neurale � molto simile negli psicopatici e nelle persone normali, ma diventa considerevolmente diversa quando le cose entrano nella sfera personale. Supponiamo di infilare un volontario in un apparecchio per la risonanza e di presentargli i due dilemmi. Che cosa potremmo osservare mentre si muove nel campo minato della morale? Quando la natura del dilemma passa da impersonale a personale si vedrebbero illuminarsi come un flipper l'amigdala e i circuiti cerebrali collegati (la corteccia orbitofrontale mediale, per esempio). In altre parole, si riuscirebbe a osservare l'istante in cui le emozioni entrano in gioco. In uno psicopatico, invece, si vedrebbe solo buio. Il cavernoso casin� neurale rimarrebbe sprangato e vuoto: il passaggio da impersonale a personale avverrebbe senza lasciare traccia. Il sonno tranquillo dello psicopatico Che cosa serve per riuscire in una certa professione, mantenere gli impegni e portare a termine un lavoro? Tutto sommato, non � difficile rispondere. Insieme alle particolari qualit� legate a una specifica professione (nella legge, negli affari, in qualunque campo) esiste un insieme di tratti caratteriali che aiutano a raggiungere il successo. Nel 2005 Belinda Board e Katarina Fritzon, all'Universit� del Surrey, in Inghilterra, fecero un sondaggio per scoprire i segreti dei grandi manager, alla ricerca delle caratteristiche chiave della personalit� che separano chi viaggia in aereo in prima classe da chi viaggia in classe economica. Board e Fritzon presero in considerazione tre gruppi (dirigenti d'azienda, pazienti psichiatrici e pazienti di un manicomio criminale, sia psicopatici sia affetti da altre patologie) e confrontarono i loro profili psicologici. La loro analisi rivel� che un certo numero di attributi psicopatici erano pi� frequenti negli uomini d'affari che nei cosiddetti pazzi criminali: e precisamente attributi come il fascino superficiale, l'egocentrismo, la persuasivit�, la mancanza di empatia, l'indipendenza e la concentrazione. La differenza principale tra i tre gruppi esaminati si trovava negli aspetti pi� "antisociali" della sindrome: nei criminali si riscontravano valori pi� alti nella tendenza a trasgredire la legge, all'aggressione fisica e all'impulsivit�. Altri studi sembrano confermare la metafora dei cursori di un banco di missaggio: il confine tra gli psicopatici funzionali e disfunzionali non dipende dalla presenza degli attributi psicopatici in s�, ma piuttosto dai loro livelli, e da come sono combinati. Mehmet Mahmut e i suoi colleghi della Macquarie University a Sydney hanno recentemente dimostrato che le immagini di un cervello disfunzionale (in particolare le immagini del funzionamento della corteccia orbitofrontale, l'area del cervello che regola quanto le emozioni influiscono sulle decisioni) osservate nel caso di psicopatici criminali e non criminali, hanno differenze dimensionali pi� che qualitative. Questo, sostiene Mahmut, significa che i due gruppi non si dovrebbero considerare come popolazioni distinte qualitativamente, ma piuttosto come gruppi che occupano posizioni diverse nello stesso spettro. In un esperimento simile, ma assai meno tecnologico, ho chiesto a un gruppo di studenti universitari del primo anno di immaginare di essere dirigenti in un'agenzia di collocamento. "Immaginate di avere un cliente con le caratteristiche che seguono: spietato, coraggioso, affascinante, amorale e concentrato", ho detto, "quale occupazione gli suggerireste?". Le loro risposte sono state estremamente illuminanti. Amministratore delegato, spia, chirurgo, politico, militare... Queste professioni sono saltate fuori tutte. Insieme a serial killer, assassino su commissione e rapinatore di banche. "L'abilit� intellettuale, da sola, � semplicemente una maniera elegante per arrivare secondi", mi disse una volta un amministratore delegato di grande successo. "Ricorda, salire fino alla cima � difficile. Ma la scalata diventa pi� facile se si fa leva sopra gli altri. Ed � ancora pi� facile se pensano che ci stanno guadagnando qualcosa". Jon Moulton, uno degli investitori finanziari di maggior successo di Londra, � d'accordo. In una recente intervista rilasciata al "Financial Times" ha citato la determinazione, la curiosit� e l'insensibilit� come le sue tre caratteristiche pi� preziose. Le prime due non stupiscono particolarmente. Ma l'insensibilit�? La cosa migliore dell'insensibilit�, spiega Moulton, � che "ti permette di dormire mentre gli altri non ci riescono". La maestrina terrorista (di Valeria Palumbo, "Focus Storia" n. 118/16) - Maria Pasquinelli, assassina politica nel 1947. - Maria Pasquinelli indossava un cappotto rosso. E una donna con il cappotto rosso non vuole certo passare inosservata. Il brigadiere generale britannico Robert De Winton, l'ufficiale pi� alto in grado nel governo militare alleato di Pola (Istria), fino a quel momento italiana, era appena sceso dalla sua auto e aveva fatto pochi passi. Erano le 9:30 di un freddo 10 febbraio 1947 e nella citt� istriana era ancora pi� gelido: quel giorno l'Italia firmava a Parigi il Trattato di pace che la privava dell'Istria, di gran parte della provincia di Gorizia, delle isole egee e delle colonie in Africa. Inoltre, lasciava Trieste in un limbo da cui sarebbe uscita soltanto nel 1954. Mentre De Winton stava per passare in rassegna i soldati del comando inglese, la donna col cappotto rosso usc� da un gruppo di curiosi, si mosse verso di lui, gli arriv� alle spalle, estrasse una pistola Beretta dalla borsetta e spar� quattro colpi. L'ufficiale mor� quasi subito e un soldato rimase ferito. Dopodich� Maria lasci� cadere la rivoltella e rimase l�, immobile: ai piedi del cappotto rosso si allargava rapidamente una macchia di sangue. Maria Pasquinelli era una maestra, nata a Firenze il 16 marzo 1913. Sosteneva una strana alleanza tra partigiani e X MAS fascista per impedire il passaggio dell'Istria alla Iugoslavia e, come quasi tutto il Paese, riteneva il trattato di Parigi inaccettabile. Alla Iugoslavia andavano infatti terre dove si parlava italiano, un pezzo d'Italia martoriato dalle persecuzioni degli sloveni e dalle violenze dei fascisti, dalle foibe e dall'esodo di massa dei nostri compatrioti. Maria era una bella donna dai capelli scuri, lo sguardo acuto e, come raccontarono poi i testimoni al processo, con un carattere impetuoso: decise che contro quel trattato bisognava agire. E scelse il gesto pi� doloroso: uccise un uomo che era padre di un bambino di due mesi, che non aveva altra colpa se non quella di rappresentare le truppe alleate. Dopo gli spari, la arrestarono e la portarono via. In tasca aveva un biglietto con la rivendicazione: "Mi ribello, col proposito fermo di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi" (Stati Uniti, Regno Unito, Unione Sovietica e Francia). Il 10 aprile 1947, quando Maria fu condannata a morte dalla Corte suprema alleata, il pubblico protest� rumorosamente. Lei, dopo essersi dichiarata colpevole, era rimasta impassibile, come una statua. Anzi, fraintendendo una frase del presidente della corte, il colonnello John W. Chapman, che le ricordava il suo diritto all'appello, aveva dichiarato che mai avrebbe chiesto la grazia. Maria, in ogni caso, non fin� davanti a un plotone di esecuzione, anche perch� i britannici volevano evitare di fare di quella donna un simbolo. Per questo l'accusa, rappresentata dal capitano Leaning, si limit� ai fatti e non calc� troppo la mano. E questo anche se Maria aveva ucciso De Winton pur sapendo che l'ufficiale non aveva alcuna responsabilit� sul trattato, n� sulle violenze dei partigiani iugoslavi contro gli italiani d'Istria. La difesa sostenne che la Pasquinelli aveva agito in "stato di necessit�", per evitare altre uccisioni di italiani. Molti speravano in una dichiarazione di infermit� mentale, ovvero che il suo patriottismo fosse dichiarato "morboso" e che potesse sfuggire alla condanna a morte. La corte militare non accett�. Lei, del resto, fece di tutto per apparire normale. Se ne stava seduta quasi distratta fra le suore che le erano state assegnate come "scorta" durante il processo, ringrazi� la corte e non disse nulla quando, anzich� finire sul patibolo, fu portata in carcere con la pena commutata in ergastolo, prima a Venezia e poi a Firenze. Resta da capire come matur� l'idea dell'attentato. Maria era pi� che una nazionalista: era fascista convinta. Nel 1933 si era iscritta al partito e dal '39 aveva fatto parte della Scuola di mistica fascista a Roma. Era una donna "moderna", nonostante il maschilismo del regime. Figlia di Umberto Pasquinelli, direttore del settimanale cattolico Il campanone, nel 1930 aveva ottenuto l'abilitazione come maestra a Bergamo, poi il diploma di direttrice didattica e quindi quello di insegnante di storia e filosofia (materie precluse alle donne) a Urbino nel 1939. Dal 1932 al 1941 insegn� alle elementari a Milano poi pass�, fino al 1943, alle medie di Spalato, in Dalmazia. Il suo temperamento le cost� la diffidenza dei superiori. Mentre era crocerossina volontaria in Libia, per esempio, fu rimpatriata perch� si era presentata per combattere al fronte, con la testa rasata e vestita da uomo. Per il suo carattere di lei diffidarono anche i partigiani d'Istria, che aveva tentato invano di coinvolgere in un piano di "difesa dell'italianit�" sul confine orientale. Cos�, Maria fu arrestata sia dai fascisti sia dai partigiani comunisti del maresciallo Tito. Si � parlato, in alcune ricostruzioni, dei legami di Maria con i servizi segreti e dell'ipotesi che l'attentato di Pola avesse lo scopo di accendere la miccia di una rivolta anti-titina. La giornalista Claudia Cernigoi ha svelato recentemente che i servizi segreti britannici erano informati delle sue intenzioni, ma si "dimenticarono" di avvisare De Winton. � vero comunque che il gesto di Maria, che mise in imbarazzo persino il governo di Alcide De Gasperi, interpretava un umore diffuso: il giorno in cui il Corriere della Sera annunciava in prima pagina: "Generale inglese ucciso da una donna a Pola", titolava anche "Abbiamo firmato, chiediamo giustizia per l'Italia". E commentava: "Una triste giornata per l'Italia". Dopo 17 anni di carcere, nel 1964, Maria si decise a chiedere la grazia, che ottenne, per poter curare la sorella malata. Ma non avrebbe mai rinnegato l'attentato. Anche se, ormai anziana, confess� alla giornalista triestina Rosanna Giuricin: "La morte del brigadiere mi peser� finch� vivo. Sento il suo fiato sul collo e il tempo non riuscir� a cambiare la tragedia che � stata". La ragazza col cappotto rosso visse cent'anni: � morta il 3 luglio 2013, in una casa di riposo a Bergamo, celebrata come un'eroina dagli esuli istriani. La spinosa questione dei confini orientali Il 10 febbraio 1947 il diplomatico Antonio Meli Lupi di Soragna firm� a Parigi, a nome del governo italiano, il Trattato di pace seguito alla fine della Seconda guerra mondiale. Oltre a cedere territori alla Francia, all'Albania, alla Grecia e perfino alla Cina (la Concessione di Tientsin), l'Italia perse le colonie d'Africa. E dovette cedere alla Iugoslavia una vasta area: Fiume, il territorio di Zara, gran parte dell'Istria, le isole di Lagosta e Pelagosa, il Carso triestino e goriziano e l'Alta Valle dell'Isonzo. Trieste rimase "territorio libero" e solo nel 1954, pur perdendo la sua provincia meridionale, torn� all'Italia, grazie anche all'inasprirsi della Guerra Fredda. E pensare che per Trieste (e Trento) l'Italia si era gettata nella Prima guerra mondiale. L'Austria, sconfitta, le aveva ceduto altri territori dell'impero, non tutti di lingua italiana. Tra questi, l'Istria (oggi croata) aveva una percentuale di italofoni tra il 36,5%, censito dagli austriaci, e il 58,2%, registrato dagli italiani. Nel 1924 anche Fiume, dopo l'impresa di Gabriele D'Annunzio che la occup� per 16 mesi, e dopo un lungo tira e molla, fu annessa al Regno d'Italia. I fascisti scatenarono una violenta repressione ai danni dei non italiani e questo port� alla successiva catena di vendette. E anche alla particolare severit� delle potenze alleate nelle trattative di pace.