Settembre 2017 n. 09 Anno II Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Copia in omaggio Indice La riscoperta degli oggetti al tempo della tecnologia L'altra regina Vittoria La riscoperta degli oggetti al tempo della tecnologia (di Remo Bodei, "Vita e Pensiero" n. 2/17) - Bisogna strappare le cose all'ovvio e provare meraviglia, evitando di ridurle a merci ma senza arenarsi in discorsi solo moralistici sul consumismo. L'atteggiamento di rivolgersi alle cose contiene anche un messaggio etico: l'invito ad aver cura del mondo. - Siamo circondati da oggetti cui spesso non facciamo caso: li compriamo, li usiamo, li consumiamo, li abbandoniamo. Essi costituiscono per lo pi� una presenza muta ed estranea. Raramente meritano una qualche attenzione, rivolta solo a quelli cui, per qualche motivo, teniamo: a causa del loro intrinseco pregio, del loro essere legati a particolari esperienze della nostra vita, del valore affettivo da essi posseduto. Ogni generazione � attorniata da un particolare paesaggio d'oggetti, che definiscono un'epoca grazie alle patine, ai segni e all'aroma del tempo della loro nascita e delle loro modificazioni. A modo loro, gli oggetti crescono o deperiscono, come i vegetali e gli animali, si caricano di anni o di secoli, vengono seguiti, accuditi, curati oppure trascurati, dimenticati e distrutti. Diventati desueti, finiscono nei solai, nelle cantine, nel banco dei pegni, nei negozi dei rigattieri e degli antiquari, nelle discariche. Ritrovati o ricomprati, emanano un effluvio di malinconia, somigliano a fiori vizzi che per rinascere hanno bisogno del nostro coinvolgimento. Eppure siamo cresciuti assieme a tecniche e cose in una sorta di reciproca interazione e convergenza. Cambiando con i tempi, i luoghi e le modalit� di lavorazione, esse discendendo da storie e tradizioni diverse, si ricoprono di molteplici strati di senso e incorporano idee, passioni, simboli di cui spesso non siamo consapevoli. Le cose ci spingono a dare ascolto alla realt�, a farla "entrare" in noi aprendo le finestre dell'anima, cos� da ossigenare un'interiorit� altrimenti asfittica. Il privilegiare il punto di vista delle cose rispetto alla centralit� normalmente attribuita al soggetto ha inoltre il vantaggio di mostrarlo nel suo rovescio, nel suo lato pi� nascosto e meno esplorato, quello del mondo che affluisce a lui. Qualsiasi oggetto, se osservato a lungo, rivela qualcosa: dalla moneta alla penna biro, dal tostapane (si veda il libro di Harvey Molototch, Fenomenologia del tostapane, Cortina 2005) al cellulare. Quest'ultimo merita una storia a parte e si pu� dire che, per certi aspetti, grondi di sangue umano. Contiene, infatti, il coltan, un minerale metallico termo-resistente (una combinazione tra colombite e tantalite) e molto caro, che si presenta come una sabbia nera da cui si estrae il tantalio, utilizzato per i microconduttori, le superleghe, alcuni componenti per l'industria aerospaziale e batterie di computer e, appunto, di cellulari. Tale elemento radioattivo, l'80% del quale si trova in Congo, dove viene raccolto a cielo aperto e a mani nude da uno stuolo di improvvisati scavatori, ha scatenato cruente guerre civili e internazionali, che coinvolgono il Rwanda, l'Uganda e, nascostamente, le grandi potenze non africane. Noi confondiamo il termine "cosa" con quello di "oggetto". Il significato di "cosa" (contrazione dal latino causa, quanto ci sta a cuore e per cui ci si batte) �, tuttavia, diverso e pi� ampio sia di quello di "oggetto", vale a dire sia di ci� che si manipola con indifferenza o secondo impersonali procedure tecniche, sia di quello di "merce", quale semplice valore d'uso e di scambio o espressione di status symbol. "Cosa", o in latino res, � l'essenziale di ci� che riguarda tutti, di ci� che merita di essere discusso in pubblico e, di conseguenza, fonda il senso di appartenenza dei cittadini alla propria comunit�. Res - che conserva la stessa radice del greco eiro, parlare, come del latino rhetor - rimanda nella sua radice a ci� di cui si discute perch� ci coinvolge. "Causa" e res, assieme al tedesco Sache (dal verbo suchen, cercare), non hanno niente a che vedere con l'oggetto fisico in quanto tale e neppure con l'uso corrente del tedesco Ding o dell'inglese thing (in contrasto con la loro etimologia, che rinvia all'atto del riunirsi per negoziare, per trattare un determinato affare o affrontare una questione decisiva), ma contengono tutte un nesso ineliminabile non solo con le persone, ma anche con la dimensione collettiva del dibattere e deliberare. Res, Sache (e, solo in origine, Ding e thing) sono parole che rinviano tutte all'essenza di ci� di cui si parla o di ci� che si pensa e si sente in quanto ci interessa. "Oggetto" �, invece, un termine pi� recente, che risale alla scolastica medievale e sembra ricalcare teoricamente il greco pr�blema, "problema" inteso dapprima quale ostacolo che si mette avanti per difesa, un impedimento che, interponendosi e ostruendo la strada, sbarra il cammino e provoca un arresto. In latino, pi� esattamente, obicere vuol dire gettare contro, porre innanzi. L'idea di objectum (o, in tedesco, di Gegenstand, quello che mi sta davanti o di contro) implica quindi una sfida, una contrapposizione con quanto vieta al soggetto la sua immediata affermazione, con quanto, appunto, "obietta" alle sue pretese di dominio. Presuppone un confronto che si conclude con una definitiva sopraffazione dell'oggetto, il quale, dopo questo agone, viene reso disponibile al possesso e alla manipolazione da parte del soggetto. La cosa non � l'oggetto, l'ostacolo indeterminato che ho di fronte e che devo abbattere o aggirare, ma un nodo di relazioni in cui mi sento e mi so implicato e di cui non voglio avere l'esclusivo controllo. Nessuna di queste espressioni (causa, res o Sache) si riferisce, dunque, agli oggetti in maniera specifica ed esclusiva, mentre ciascuna rinvia alla logica, alla ricerca, alla prassi o ai rapporti umani. � invece soprattutto su questo aspetto che si � concentrata la recente ricerca americana e, in alcuni casi, europea: la cosiddetta thing theory a partire, almeno, da un articolo di Bill Brown i cui spunti sono stati da lui successivamente ripresi in forma organica. In questi lavori si sottolinea, specie attraverso la letteratura, non solo la fascinazione degli americani per gli oggetti come semplici valori d'uso, ma anche il loro divenire cose degne di attenzione quando smettono di funzionare o si rompono, quando vi � un'interruzione nel loro distratto impiego. Del resto, in questi due ultimi decenni, si � innescato un dibattito a pi� voci sugli oggetti e le cose da parte di esponenti di varie tendenze sociologiche, storiche e filosofiche. Per comprendere gli oggetti e goderne trasformandoli in "cose", occorre rovesciare l'ottica prevalente, uscire dalla centralit� del soggetto e partire invece, con maggiore attenzione, dal mondo esterno a noi. L'oggetto �ncora il soggetto alla realt� permettendo a noi di guardarlo dal punto di vista del mondo. Per questo l'atteggiamento di rivolgersi alle cose contiene anche un messaggio etico: l'invito ad aver cura del mondo. Solo allora cambiano i rapporti tra il soggetto e le cose e si pone fine, da un lato, alla loro tirannia in quanto oggetti o merci da consumare e, dall'altro, simmetricamente, alla tirannia del soggetto nei loro confronti. Bisogna quindi inoltre uscire dall'abitudine di considerarli semplici valori d'uso o di scambio, ricostruendone, da un lato, la genesi in quanto manufatti umani che si servono sia di materiali presenti gi� in natura allo stato grezzo (metalli, pietra, legno), sia di manufatti, materia su cui l'uomo � intervenuto (si pensi, ad esempio, alle plastiche o polimeri, uno dei tanti derivati dalla lavorazione del petrolio) e, dall'altro, rilevandone l'incidenza sul pensiero, l'immaginazione e le emozioni delle persone. Diceva gi� Plotino che ci meravigliamo delle cose straordinarie e trascuriamo l'ordinario: "Andiamo con stupore di fronte all'inconsueto; mentre avremmo ben ragione di stupirci ancora delle nostre comuni esperienze". � necessario, infine, considerare come unilaterale il punto di vista semplicemente "scientifico" degli oggetti nella loro cartesiana riduzione a res extensae, cos� come nella parallela privazione delle loro "qualit� secondarie" - come il colore o la consistenza - che ha caratterizzato la fisica moderna. Con maggiore o minore consapevolezza, tutti noi conferiamo significato alle cose, ma solo gli artisti lo fanno metodicamente e secondo personali tecniche e percorsi di ricerca. Essi danno la propria voce alle cose mute e, talvolta, come accade frequentemente ai bambini, fingono perfino di farle parlare. � il caso dei "cipressetti" di Carducci in Davanti a San Guido o di Cavalcanti quando fa dire ai suoi strumenti per scrivere e cancellare: "Noi si�n le triste penne isbigotite,/le cesoiuzze e 'l coltellin dolente,/ch'avemo scritte dolorosamente/quelle parole che vo' avete udite./Or vi dici�n perch� noi si�n partite/e si�n venute a voi qui di presente:/la man che ci movea dice che sente/cose dubbiose nel core apparite [...]". Oppure prendono posizione in favore delle cose schierandosi contro ogni eccesso di soggettivit� e osservandole attentamente, come fa il poeta francese Francis Ponge in Il partito preso delle cose. Egli ci invita, infatti, a metterci dalla parte degli oggetti (spugna, arancio, pane, ostrica, candela...), considerando, dapprima, ciascuna "cosa" come nuova e sconosciuta, al fine di svelarne poi, gradualmente, le sue intrinseche differenziazioni e i molteplici strati di senso. Si consideri, mediante un godibile esempio, la finezza con cui viene descritta la pioggia. All'inizio dell'omonima poesia il fenomeno della pioggia viene prismaticamente scomposto in una miriade di sfaccettature: "La pioggia, nel cortile dove la guardo cadere, scende con andature assai diverse. Al centro � un sipario sottile (o reticolato) discontinuo, una caduta implacabile ma relativamente lenta di gocce probabilmente molto lievi, un precipitare sempiterno senza vigore, una frazione intensa della meteora pura. A poca distanza dai muri di destra e di sinistra cadono con maggior rumore gocce pi� pesanti, individuate. Qui sembrano della grandezza di un chicco di grano, l� di un pisello, altrove quasi di una biglia. Sui listelli di ferro, sui davanzali delle finestre, la pioggia corre orizzontalmente, mentre sulla faccia inferiore degli stessi ostacoli si sospende in rombi convessi [...]". O, ancora, nel romanzo illustrato di Umberto Eco La misteriosa fiamma della regina Loana, come i vecchi pacchetti di sigarette, le cartoline, i francobolli o i giornalini illustrati rimandino non solo a ricordi personali di infanzia o di adolescenza dell'autore, ravvivati dalla memoria, ma anche a miti, aspettative, avventure e vicende comuni a un popolo e a un'epoca (al periodo del fascismo, della guerra e dei primi anni della Repubblica italiana). Costituiscono documenti dotati di intrinseca dignit�, capaci di evocare grappoli di ricordi e una messe di informazioni utili alla conoscenza non solo della storia materiale, ma della storia tout court. In termini generali, trasformandosi in cosa dopo un lungo interregno d'oblio, l'oggetto manifesta sia le tracce dei processi naturali e sociali che lo hanno prodotto, sia le idee, i pregiudizi, le inclinazioni e i gusti di una intera societ�. Bisogna strappare le cose all'ovvio (obvius � in latino ci� che si incontra facilmente per strada o, detto di qualcuno, � persona alla mano) e provare meraviglia. Le cose rappresentano, infatti, nodi di relazioni con la vita degli altri, anelli di continuit� tra le generazioni, ponti che collegano storie individuali e collettive, raccordi tra civilt� umane e natura. Il loro rapporto con noi somiglia, in tono minore, a quello dell'amore tra persone, dove il legame convive con la reciproca autonomia e nessuno � propriet� esclusiva dell'altro. Occorre, soprattutto nella nostra fase storica, evitare di ridurre le cose a merci, senza, tuttavia, arenarsi in discorsi moralistici sul consumismo: nel nostro attuale sistema economico se non si consuma, non si produce, e se non si produce, ne risulta l'immediata catastrofe di questa societ�. Permettetemi di ripercorrere a tappe forzate il lungo processo storico che ha portato al nostro presente con la presenza continua e spesso ossessiva degli oggetti prodotti in serie e della pubblicit� che si fa al fine di farli comprare e deperire incessantemente. Secondo l'esempio di Adam Smith ne La ricchezza delle nazioni (1767), mentre prima dell'introduzione delle macchine ci voleva - poniamo - un minuto a fabbricare a mano uno spillo, con la punta e la capocchia, nello stesso tempo la macchina ne produce 400, a prezzo ovviamente molto pi� basso. Contro un facile ottimismo, lo storico ed economista svizzero Sismondi aveva per� osservato nei Principi di economia politica (1817) che la sovrapproduzione ha il suo prezzo: pur con tutta la sovrabbondanza di merci, la societ� industriale non � abbastanza ricca da permettere a tutti di comprarle. Anzi, si allarga la forbice tra sovrapproduzione e sottoconsumo, nel senso che la societ� industriale produce troppo rispetto alle possibilit� di acquisto della maggior parte dei possibili consumatori. Gli operai inglesi, i luddisti, dando la colpa della crisi alle macchine, le spaccavano. Da qui una profonda crisi che attraversa tutta la prima fase della societ� industriale, producendo una disoccupazione, una miseria e un degrado ben descritto dai romanzi di Dickens. Alcuni economisti francesi allievi di Bastiat hanno pensato - alla met� dell'Ottocento - di restringere la forbice tra sovrapproduzione e sottoconsumo, nel senso di aumentare i consumi e, come avrebbe detto Zola, di "democratizzare il lusso". A tale esigenza obbediscono sia la nascita dei grandi magazzini, sia la vertiginosa crescita della pubblicit� per aumentare e orientare i consumi. Il primo grande magazzino al mondo � Au bon march�, aperto nel 1852 da Aristide Boucicault, che esiste ancora a Parigi all'incrocio tra la Rue de S�vre e il Boulevard Raspail. Diverse le novit� introdotte. In primo luogo, si stabiliscono prezzi fissi, cosa non ovvia (anche in Europa si procedeva allora a mercanteggiare come ancora oggi nei suk arabi). L'acquisto di enormi stock di merci portava, in secondo luogo, all'abbassamento del prezzo unitario dei prodotti. Veniva, poi, concessa la possibilit� di restituire la merce che non piaceva e si accettavano, infine, acquisti - come diremmo oggi - rateizzati. Un altro momento simbolicamente epocale � costituito dalla scoperta delle vetrine, nel 1902, da parte di un certo Foucault (che non � n� quello del pendolo n� il filosofo, ma un bravo artigiano). Prima era difficile fabbricare grandi superfici di vetro senza che si incrinassero per gli sbalzi di temperatura o per la loro intrinseca fragilit�. Rispetto al grande magazzino, in cui per essere indotti a comprare occorre prima entrare, la vetrina attira e seduce la gente gi� dalla strada. Questo tipo di tecniche (il carrello negli anni Trenta del secolo scorso, la carta di credito nel 1949 da parte di Frank McNamara, fondatore del Diners Club), assieme alle strategie intese a incrementare i desideri e i consumi, non mira per� soltanto ai prodotti. Promuove anche un consumo di vita, teso ad afferrare ogni godimento che l'occasione possa offrire. Il consumismo ha, di conseguenza, finora salvato la societ� industriale, ma mostra ormai la sua inadeguatezza perch� non � notoriamente in grado di soddisfare le esigenze di una popolazione mondiale che ha superato i sette miliardi e viaggia verso i nove attorno al 2030 e che spreca risorse in parte non rinnovabili e, suscitando desideri inappagati, alimenta l'individualismo. Ma proprio questa situazione di crisi non offre probabilmente una possibilit� di ritorno dagli oggetti alle cose, una attenzione che si sposta dagli oggetti e dalle merci alla loro natura storica e affettiva, a una loro maggiore vicinanza. L'altra regina Vittoria (di Francesco Marroni, "Prometeo" n. 137/17) - Segreti, scandali e censure: una sovrana che difende le sue prerogative ma anche la sua sessualit�. - Nello stesso anno in cui Darwin pubblicava The Origin of Species (1859) Charles Dickens immagin� l'Inghilterra come una nazione che aveva ben poco delle trionfalistiche rappresentazioni che la borghesia industriale dava di s�. Pur saldamente ancorato alla sponda ipocrita del moralismo e del perbenismo vittoriani, lo scrittore si fece portavoce di una diffusa drammatizzazione della paura che, sul piano della storia sociale, rinviava all'instabilit� politica degli anni Trenta e Quaranta: il luddismo, il movimento cartista, la carestia irlandese e una serie di episodi di violenza antiborghese e antindustriale erano ancora ben incisi nella memoria dei vittoriani. Per l'immaginazione dickensiana, la monarchia britannica si trovava a un bivio, sospesa tra conservazione e barbarie, prigioniera dei suoi contrasti e delle sue contraddizioni, dominata dal dubbio religioso e dal timore di una vittoria delle forze dell'anarchia e della distruzione. Suggestionato dalla lettura di The French Revolution (1837) di Thomas Carlyle, Dickens riconduceva tutte le ipotesi nell'ambito del verosimile. Cos�, lo straordinario incipit di A Tale of Two Cities (1859) evoca una societ� che, ciecamente, corre al tempo stesso verso il buio e la luce, e un popolo pronto ad abbracciare la civilt� e la barbarie, l'inferno e il paradiso ("Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l'epoca della fede e l'epoca dell'incredulit�, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l'inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi [...]"). Sotto la spinta della sua poderosa inventiva, Dickens narrativizza nel romanzo la compresenza del bene e del male secondo una fenomenologia sociale in cui l'uno non esclude l'altro, ma spesso - grazie al costante mutare interpretativo degli eventi storici - sembrerebbero scambiarsi i ruoli. Le contraddizioni e i paradossi di quegli anni costituivano il fermento e il tessuto vivo di una societ� che, fra incubi e passioni, si stava trasformando fin troppo rapidamente perch�, in presa diretta, se ne potessero enucleare compiutamente i segni. Le trame storiche dei decenni vittoriani, come dimostrano tanti aspetti della cultura contemporanea, continuano a catturare la nostra attenzione. L'affermarsi del cosiddetto neovittorianesimo - soprattutto nella letteratura e nella cinematografia - � la testimonianza di un interesse nient'affatto superficiale e di breve durata per un'et� i cui fantasmi culturali sembrano essere ancora fra di noi. L'et� vittoriana entra sulla scena di questo terzo millennio esattamente perch� le sue crisi e le sue antinomie ci ricordano le crisi e,le antinomie dei nostri anni. Come ha notato Matthew Sweet, i vittoriani vivevano una doppia morale, nel senso che "la loro cultura era definita [...] da una separazione tra la sua superficie di rispettabilit� e un buio mondo sotterraneo" (Sweet, 2001, p. 9). Naturalmente, il doppio regime interessava tutti i livelli della societ�, a cominciare dall'ambito della pratica religiosa, che, come ironizza Samuel Butler in Erewhon, apparso anonimo nel 1872, divenne una necessit� della borghesia vittoriana per esibire una "valuta" fondata su pietas, morigeratezza e onorabilit�, una triade senza la quale era impossibile conquistare posizioni di prestigio, non solo nella societ� in generale ma anche nel mondo della politica, del commercio e della finanza. L'opposizione tra l'essere e l'apparire era, per cos� dire, il codice di comportamento da tutti condiviso, anche se, per ovvie ragioni, era da tutti sottaciuto, se non psicologicamente rimosso. Questo codice dell'ipocrisia istituzionalizzata coinvolgeva a fortiori la monarchia che, come parte integrante del suo ruolo, aveva avuto l'esigenza di dare un'immagine di s� improntata all'impeccabilit� in fatto di costumi e moralit�. In passato, quando erano solo i ritrattisti a trasmettere volti, fattezze e posture dei potenti, l'iconografia ufficiale � stata sempre molto generosa con i monarchi - per le masse e per la posterit� tutto doveva apparire un modello di perfezione, a prescindere dai vizi, dalle perversioni e dalle zone d'ombra della corte. La stessa regola si applicava anche alla casata degli Hannover, che, a partire da Giorgio I (1660-1727), dal 1714 re d'Inghilterra e d'Irlanda, � stata quella che ha dato il maggior numero di regnanti alla nazione. Come la storiografia ha dimostrato ampiamente, il regno che Vittoria eredit� dallo zio Guglielmo IV non era affatto quell'immagine di virt� e perfezione morale che veniva trasmessa al popolo. Va da s� che la versione ufficiale fornita dalla stampa non corrispondeva alla verit� dei fatti: la corruzione e il vizio che infestavano i bassifondi di Londra dialogavano con la corruzione e il vizio che abitavano i palazzi reali. Diversamente dalle aspettative del popolo, l'avvento della regina Vittoria rappresent� solo in parte una rottura o un elemento di discontinuit� rispetto all'atmosfera frivola e gaudente che caratterizzava la corte. Non � un caso che le ricerche storiografiche degli ultimi decenni abbiano rafforzato l'immagine di una regina impulsiva e idiosincratica, spesso capricciosa e incapace di guardare la realt� in modo oggettivo. Nei suoi aspetti antinomici, il ritratto di una delle donne pi� influenti dell'Ottocento � molto simile al mondo delineato dal genio creativo dickensiano: un autentico paradosso culturale che conteneva in s� tutto il bello e il brutto della societ� vittoriana. O, come ebbe a scrivere Edmund Gosse, "il suo carattere era costruito con elementi che di solito erano antagonistici, ma che nel suo caso stabilivano un equilibrio cos� accorto da rimanere sempre sotto controllo" (Gosse, 1901, p. 303). Grazie a questo equilibrio degli opposti, Vittoria - in anni in cui il ruolo della donna cambiava rapidamente - era la rappresentazione vivente della continuit� per l'intera nazione. Era s� moglie devota e madre premurosa, ma anche una sovrana che, in fatto di potere, non rinunciava mai alle sue prerogative sulla base di un preciso modello di autorit� trasmessole dallo zio materno Leopoldo, principe di Sassonia-Coburgo-Gotha, divenuto nel 1831 re del Belgio. Infatti, fino alla morte avvenuta nel 1865, Leopoldo rimase il consigliere privilegiato di Vittoria che lo consult� costantemente per gli affari di stato, spesso aspettando con ansia i suoi "mirabili consigli" (Strachey, 1985, p. 69). Leopoldo mise in guardia la nipote da tutte le insidie che attendevano coloro che si trovavano alla guida di una nazione, consigliandole di cercare di essere sempre al passo con i tempi. Non solo, ma le sugger� anche di impegnarsi per riguadagnare il potere e il prestigio perduti dagli Hannover che l'avevano preceduta sul trono del Regno Unito. Indubbiamente, la giovane regina apprese la lezione di Leopoldo che, in Belgio, aveva riformulato il ruolo della monarchia in termini borghesi contro una rappresentazione del potere regale retrograda e polverosa, incapace di sopravvivere ai grandi cambiamenti sociali. Su un altro versante, la madre vigilava in modo quasi poliziesco sul comportamento della figlia regina, al punto da mostrare riprovazione per la lettura di Oliver Twist che Dickens stava pubblicando a puntate sul "Bentley's" (1837-38). Esasperata dall'invadenza materna, Vittoria prese una decisione drastica: diede ordine a corte di non dare accesso alla duchessa di Kent nelle sue stanze senza il suo permesso. Vero � che la madre temeva certe leggerezze sentimentali della figlia. Da regina appena salita al trono, Vittoria fu subito affascinata dal primo ministro, Lord Melbourne, con il quale s'intratteneva in colloqui che andavano ben al di l� delle questioni di Stato: il loro rapporto divenne presto una liaison dangereuse: "I due si incontravano socialmente, non solo politicamente: Melbourne faceva lunghe cavalcate con la regina, di solito si vedevano a pranzo o a cena, e il primo ministro rimaneva regolarmente nel castello di Windsor. Di frequente trascorrevano sei ore e pi� insieme e s'incontravano quasi ogni giorno, molto pi� di quanto non si considerasse appropriato per un primo ministro, per quanto amico. Tutto questo fece s� che la giovane sovrana venisse chiamata Mrs. Melbourne" (Bartley, 2016, p. 47). Da un lato, Vittoria sentiva tutta la responsabilit� di una monarchia che stava allargando i suoi confini politici e commerciali ben oltre quelli geografici del Regno Unito; dall'altro, non aveva nessuna intenzione di reprimere sul nascere le passioni e i desideri che alimentavano la sua immaginazione di donna. Ben consapevole di non essere nata per governare il popolo inglese, una volta diventata regina non volle rinunciare ad affermare la sua femminilit�, pur correndo il rischio del gossip nazionale. Per questo, nel 1837, all'inizio del suo regno, non ebbe esitazione alcuna a chiamare Melbourne la capitale dello Stato di Vittoria in Australia, proprio in onore del suo primo ministro. Dietro l'immagine della monarca educata a esercitare il potere regale con saggezza e ponderazione, si nascondeva una ragazza cresciuta nel culto della figura maschile. Il padre Edoardo, duca di Kent, le aveva fornito il modello fondamentale su cui Vittoria aveva costruito un ideale di uomo improntato a una forte virilit� non disgiunta dalla lealt� e dal coraggio. Con questa nozione di mascolinit�, accett� con entusiasmo la moda di un medievalismo che, fin dagli anni Trenta, aveva evocato scene di eroismo da parte di cavalieri assolutamente fedeli alla donna amata. Se nella sfera pubblica si trattava di seguire il corso della storia intesa come progresso, nella rappresentazione privata Vittoria guardava al passato dei Plantageneti, in un movimento regressivo che implicava un'identificazione storica con le versioni medievali della monarchia. La messinscena di tutto questo � evidente nel dipinto di Edward Landseer Queen Victoria and Prince Albert at the Bal Costum� (1842-1846), che pu� essere considerato la messinscena finzionale di una dominanza maschile che, come � noto, non fu mai affermata nella realt�. Tuttavia, nell'esibizione della magnificenza regale, il principe Alberto � in primo piano, con la sua corona di diademi in testa e la spada al fianco, mentre la regina pare mostrare in maniera pi� sobria la propria regalit�. Ed � significativo che, per espresso desiderio di Vittoria, l'artista aveva dovuto dare un'impronta mascolinizzata alla monarchia, le cui manifestazioni visibili, altrimenti, rischiavano di apparire troppo marcate al femminile nei confronti di un'opinione pubblica che non era preparata ad associare la grazia e la dolcezza della donna alle asprezze del potere. Nondimeno, sul piano iconografico, nelle preoccupazioni della regina vi era qualcos'altro: "Oltre a riequilibrare un'anomalia di genere, i costumi plantageneti [del dipinto di Landseer] smussavano talune asperit� di ordine etnologico e genealogico mettendo la sordina alle problematiche origini tedesche di Alberto" (Munich, 1996, p. 32). Del resto, non era forse vero che, subito dopo la successione al trono, "[Leopoldo] raccomand� alla giovane regina di mettere in evidenza, ad ogni possibile occasione, la sua nascita inglese, e di celebrare la nazione inglese"? (Strachey, 1985, p. 69). Le esortazioni dello zio servirono non poco alla giovane regnante. Cos�, dopo il matrimonio con il principe Alberto, celebrato il 10 febbraio 1840 in un giubilo di folla, la popolarit� della monarchia continu� a crescere in modo esponenziale, grazie anche a una serie di decisioni che portarono a escludere dagli ambienti di corte tutte quelle persone (nobili e non) che, in passato, avevano conquistato prestigio e potere approfittando della loro posizione. Cessarono le voci riguardanti il legame con Melbourne e, ben presto, la sequenza impressionante di maternit� della regina costitu� il giusto "alimento" per un popolo e un giornalismo desiderosi di saperne di pi� sulla vita privata della coppia regale. Gli anni Quaranta non vollero dire soltanto medievalismo, nascite regali e balli di corte. I problemi che investirono la giovane regina riguardavano una nazione che, mentre stava mutando nel suo quadro socioeconomico, reclamava pi� giustizia sociale e meno soprusi ai danni dei pi� indifesi. Tutto questo accadeva in anni in cui Vittoria passava da una maternit� all'altra, tanto che alla fine del decennio, nel 1850, sar� madre di sette figli. Nella sua mente la regina aveva vagheggiato una nazione armoniosa e unita nella continuit� politica e istituzionale, ma le cose andarono diversamente. La sua lontananza dal potere cre� non poco scontento in parlamento, anche se il principe Alberto si dimostr� sempre pronto a darle una mano nella gestione del suo ruolo. Tuttavia, non avendo nessun potere decisionale, il principe consorte mancava di credibilit� almeno rispetto ai grandi problemi. Infatti, proprio all'inizio degli anni Quaranta, questa concezione di armonia sociale parve trasformarsi in una disarmonia senza alcuna possibilit� di mediazione. Il primo forte segnale giunse dal parlamento, in cui i due partiti politici - tory e whig - si contendevano il primato a suon di voti. Nell'estate del 1841 Melbourne e il partito whig furono sconfitti alle elezioni generali: il potere pass� nelle mani di Robert Peel, il capo del partito conservatore. Il sogno della regina di una nazione armoniosa costruita dal fidato amico Melbourne fu improvvisamente infranto. Nel suo diario Vittoria registra il suo senso di sgomento per il fatto di non poter contare pi� su Lord Melbourne, l'amico di sempre e il suo modello ideale. Dopo questa perdita annota: "la realt� di quello che � accaduto mi segna profondamente e mi sgomenta moltissimo. Ed � duro doversi separare da amici cari e, contro i miei sentimenti privati, dover assumere persone di cui non ho molta fiducia" (cit. da Bartley, 2016, p. 88). � evidente che Vittoria auspicava coerenza e continuit� in tutti gli affari del regno - il cambiamento nella guida del governo ai suoi occhi assumeva il significato di una frattura. Dal punto di vista pi� strettamente privato, era la perdita di un'amicizia che, dietro l'immagine dell'ufficialit�, conferiva a Melbourne la doppia funzione di primo ministro e mentore della giovane regina. Su questo particolare momento della storia inglese, vale la pena leggere quanto scrive Lytton Strachey: "Quando giunse alfine il terribile momento, e la regina angosciosamente dovette dare l'addio al suo amato ministro, convennero che, se non era consigliabile che si incontrassero molto spesso, avrebbero tuttavia continuato la corrispondenza" (Strachey, 1985, p. 111). Infatti, se le ragioni di stato imponevano un allontanamento politico del capo del partito whig, vi erano ragioni private che opponevano una strenua resistenza a tale ipotesi. Difficile stabilire se sia stata la regina o Melbourne a decidere la strategia, fatto sta che l'ex primo ministro continu� a dare consigli a Vittoria che, di buon grado, si affidava alle parole del suo mentore anche in fatto di nomine e di affidamento di incarichi. Tutto questo, ovviamente, parve un affronto al parlamento e allo stesso Peel, ma ancor pi� al versante tedesco della dinastia regnante. Non � un caso che, con l'intento di riconquistare uno spazio di influenza politica, il barone tedesco Stockmar - segretario privato di re Leopoldo I - stil� un duro memorandum per denunciare l'incostituzionalit� del comportamento di Lord Melbourne. Fu in questi anni che il principe Alberto guadagn� in autorit� anche nei confronti del ministro conservatore, con cui, dall'agosto 1841 al giugno 1846, Vittoria dovette avere incontri periodici mai sfiorati da amicizia e franchezza nello scambio di opinioni. Sicuro di s� e fattivo, Peel era in tutto e per tutto diverso dall'aristocratico Melbourne, sempre galante, simpatico e iperattivo nella vita mondana londinese. Di poche parole per carattere, mai coinvolto nel pettegolezzo della corte, Peel era figlio di un ricco industriale del cotone che aveva fatto fortuna negli anni dell'espansione industriale. Nel suo approccio ai problemi il primo ministro incarnava perfettamente lo spirito della nuova borghesia, che detestava la pigrizia dell'aristocrazia del latifondo e basava tutto sui principi di operosit� e autodisciplina elogiati da Samuel Smiles nel suo Self-Help (1859). Se, come Walter Bagehot scrisse nel 1867, la costituzione riconosceva ai monarchi inglesi "il diritto di essere consultati, il diritto di incoraggiare, il diritto di consigliare" (Bagehot, 1873, p. 139), Vittoria, soprattutto in questa fase, colloc� tali diritti al centro del suo ruolo, spesso enfatizzandone il valore in termini di azione politica. Negli anni Quaranta, fra le molte preoccupazioni della sovrana, spiccava la questione irlandese, dal momento che la carestia stava mietendo molte vittime con conseguenze disastrose per la fragile economia dell'isola. Anzich� seguire il suo primo ministro, che suggeriva una immediata revoca delle leggi sul grano, Vittoria spos� inizialmente la causa dei proprietari terrieri che volevano tenere alto il prezzo del cereale. Solo nel 1846, quando ormai era troppo tardi, Peel ebbe il sopravvento e, spaccando il suo stesso partito, riusc� a porre termine alla politica protezionistica. Nel frattempo, in Irlanda la carestia aveva fatto circa un milione di vittime, senza che la monarchia fosse mai stata mossa a piet� per tanta sofferenza patita dalla popolazione. Per questa immane tragedia, in seguito, l'intransigente Vittoria sar� soprannominata "Famine Queen", cio� Regina Carestia. L'atteggiamento politico della sovrana non fu casuale. Dietro le sue esitazioni vi era un profondo sentimento anticattolico che condizionava pesantemente l'approccio al tema della fame. Questo sentimento di calcolata indifferenza era parte della sua formazione protestante e del suo bagaglio culturale che, a proposito dell'Irlanda, le facevano guardare con un certo disprezzo non solo il clero cattolico ma anche il nazionalismo del popolo irlandese. Per un altro verso, faziosamente, Vittoria era molto protettiva nei confronti della nobilt� europea, con cui, in maniera diretta o indiretta, era imparentata - una genealogia di regnanti che andava dal Portogallo alla Russia e, oltreoceano, includeva anche il Messico. Era una vera e propria rete di rapporti su cui teneva molto ad essere informata. Di qui il suo interesse per la politica estera e per i destini delle monarchie, cui si contrapponeva la sostanziale disattenzione per gli affari interni, affidati alla parte pi� fredda e cinica della sua personalit�, fin troppo volubile e spesso condizionata pi� dai pregiudizi che da un'analisi oggettiva dei problemi nazionali. Di qui anche la conflittualit� con il primo ministro, che si rendeva conto di quanto irrazionali e moralmente riprovevoli fossero alcune posizioni assunte da Vittoria. Conseguentemente, durante il suo regno, gli scontri con i suoi ministri non di rado avvenivano pi� sul piano personale che sui grandi temi delle riforme sociali e dell'amministrazione dell'Impero. Non solo, ma il fatto che un primo ministro le fosse simpatico e comunque conoscesse in qualche modo le strategie di conversazione per stimolare la sua vanit� di donna o la sua affettivit�, finiva per diventare un enorme vantaggio per la politica del partito che era al governo. Stimolata nella sua vanit�, inorgoglita dalle lusinghe maschiliste, Vittoria in questi casi si mostrava pi� accondiscendente e meno pronta a far valere i suoi diritti. Dopo Lord Melbourne, negli anni dell'espansione dell'Impero, solo Benjamin Disraeli riusc� a ottenere l'amicizia e le confidenze di Vittoria. La quale, cedendo all'assalto dei suoi sentimenti, alla morte dello statista, avvenuta il 19 aprile 1881, scoppi� in lacrime di fronte alla sua segretaria privata e, fra un singhiozzo e l'altro, dichiar�: "Non ho mai avuto un ministro cos� gentile e devoto e pochissimi amici di tale devozione. Anche al di fuori del suo ruolo ufficiale, la sua affettuosa comprensione e i suoi saggi consigli avevano per me un valore immenso" (cit. da Hibbert, 2000, p. 370). Gladstone, invece, non stabil� mai con lei questo tipo di legame, ma dovette ricorrere a tutta la sua pazienza di fronte alla rigidit� e alla testardaggine della sovrana che, non senza ironia, era solito paragonare al mulo - recalcitrante e cocciuto - che aveva montato durante un suo viaggio in Sicilia. Come spiegare tanta umoralit�, tante oscillazioni psicologiche negli atteggiamenti della regina? Vittoria era assetata di affetto e non riusciva a disancorare questo suo bisogno dal ruolo di sovrana. Ovviamente, non si trattava di un disturbo psichico, ma indubbiamente la sua persona chiedeva continue conferme affettive che, a volte in modo determinante, pesavano sulle scelte politiche della nazione. La privazione di un affetto, quindi, era vissuta come un dramma che intaccava nell'intimo il suo equilibrio interiore, innescando una risposta di passivit� e di solitudine depressiva. Per questo motivo, alla morte del principe Alberto, il 14 dicembre 1861, non nascose ai sudditi il suo profondo dolore, facendo un passo indietro in termini di visibilit� come vedova patologicamente legata al ricordo del marito. La sovrana mise in scena il suo dolore dichiarando che, nel suo caso, non si dava elaborazione del lutto - lo avrebbe portato sempre dentro di s�. In questa occasione, la vedova in gramaglie veniva prima della regina; l'isolamento e la non visibilit� pubblica furono le sue scelte. E nei mesi successivi Vittoria tenne fede a questa promessa in modo rigoroso. Questa autoreclusione avveniva mentre il paese reclamava la sua sovrana, che ormai da troppo tempo era chiusa in un lutto che per lei voleva dire depressione, insonnia e apatia. Fu questo il momento in cui la vita privata della regina entr� in rotta di collisione con la vita pubblica, per la quale si rifiutava di mettere a disposizione ruolo e immagine. La conseguenza diretta di un simile rifiuto fu che la sua popolarit� cominci� a diminuire giorno dopo giorno - dentro e fuori dalla corte circolavano voci che mettevano in cattiva luce la Corona. Non solo, ma dopo la prima fase di occultamento di s�, a peggiorare le cose intervenne l'entrata in scena dello stalliere scozzese John Brown, che ufficialmente venne chiamato a Windsor perch� Vittoria potesse coltivare la sua passione per le escursioni a cavallo che, si riteneva, l'avrebbero aiutata a superare il persistente stato di melanconia. Chi era questo personaggio che avrebbe dovuto risollevare l'umore della sovrana? Qui vale la pena ricordare la sintetica ancorch� efficace descrizione che ne diede lo storico Christopher Hibbert: "John Brown era un uomo brusco, forte, di bell'aspetto e fin troppo sicuro di s�, con una capigliatura folta e riccia e con una barba che non nascondeva pienamente il mento determinato e veemente. Cresciuto in una piccola fattoria delle alture insieme a otto fratelli, aveva cominciato come garzone di stalla a Balmoral e, in seguito, era diventato l'assistente di caccia della regina e del Principe Consorte" (Hibbert, 2000, p. 323). Quindi Vittoria aveva gi� conosciuto Brown a Balmoral alcuni anni prima, notandone la prestanza fisica e lo sguardo intenso e virile. La sovrana da sempre aveva mostrato un debole per gli uomini forti, che esibivano la loro mascolinit�, e lo scozzese corrispondeva perfettamente a questa categoria. L'uomo rimase al fianco di Vittoria come un'ombra fino alla sua morte nel 1883, svolgendo un ruolo cruciale nell'universo privato della sovrana, non solo come amico a cui confidare angosce, dubbi e segreti, ma anche come oggetto di culto virile e di fantasmatizzazione erotica da parte di una donna che aveva uno straordinario bisogno di appagare la propria sessualit�. Per lei il muscoloso stalliere, sempre diretto nei modi, era la personificazione dell'eros, contro le raffinatezze e le ipocrisie di una nobilt� che imbellettava parole e comportamenti. Brown costituiva l'alternativa polemica a questo stato di cose e, al tempo stesso, nella sua personalit� trovava la risposta immaginativamente pi� eccitante alle sue pulsioni sessuali. Non a caso, fra lo stupore della societ� aristocratica, nel febbraio 1865 l'uomo divenne una presenza fissa a corte con il titolo di "Queen's Highland Servant", che gli conferiva facolt� di frequentare le stanze della regina al pari dei pi� intimi. La biografa Paula Bartley, oltre ad avere scritto del "grande appetito sessuale della regina Vittoria" (Bartley, 2016, p. 182), � abbastanza esplicita sulla natura del loro rapporto: "La regina Vittoria - apparentemente attratta dalla virilit� selvaggia e dalla rozza franchezza di Brown - parve subito farne un idolo e non tollerava critica alcuna all'indirizzo dell'amato servitore. [...] Infatti, la coppia dormiva in due stanze attigue e insieme bevevano un bicchierino o due di whisky, il che faceva pensare a una familiarit� maritale piuttosto che a una relazione fra sovrana e suddito. Ben presto cominci� a circolare la voce che la regina lo avesse sposato" (ibid.). Vera o falsa che sia l'ipotesi del matrimonio segreto, non pu� essere taciuto un dato: il reverendo Norman McLeod (1812-1872), decano della Cappella reale e amico fidato della regina, in punto di morte rivel� al suo confessore di avere celebrato in segreto il matrimonio tra la sovrana e lo stalliere scozzese. Pi� di un biografo sottolinea come, in un contesto di silenziosa riprovazione da parte della nobilt� londinese, circolarono anche alcuni libelli scurrili che, con ogni probabilit�, furono ispirati dagli ambienti di corte. La presenza di Brown era fin troppo ingombrante anche per gli stessi figli della regina che, indignati e scandalizzati, a pi� riprese mostrarono il loro fastidio di fronte a un servitore a cui veniva concessa la libert� di mostrarsi rozzo nel linguaggio e, non di rado, impertinente nei comportamenti. Per la regina invece, come annota nel 1866 nel suo diario, "[Brown] possiede tutta l'indipendenza e i nobili sentimenti tipici della razza delle Highlands, ed � singolarmente franco, semplice, gentile e disinteressato" (citato in Lee, 1904, p. 328). Quindi uno dei tanti paradossi che circondano la sovrana riguarda i suoi costumi sessuali. L'immagine che la storiografia ha consegnato ai lettori � quella di una donna considerata come un paradigma di morigeratezza, repressione sessuale, razionalit�, senso del pudore e dell'equilibrio. La regina era esattamente il contrario. Giustamente Munich osserva: "Laddove dopo la sua morte Vittoria divenne un simbolo di repressione sessuale, i suoi contemporanei la immaginarono sempre come una potenza erotica [an erotic powerhouse]. [...] Sin dalla sua ascesa al trono, riserv� la sua stima agli uomini che facevano battere pi� forte il suo cuore" (Munich, 1996, p. 156). E John Brown era stato l'uomo che, dopo la scomparsa del principe Alberto, aveva risvegliato in lei quell'energia sessuale che il lutto aveva tenuto a freno. Per l'opinione pubblica il rustico servitore era in realt� "the Queen's Stallion", lo stallone personale della regina. Mentre continuava a conservare una viva passione per il marito scomparso, Vittoria trovava naturale spostare questo suo desiderio su Brown. La relazione amorosa con lo stalliere creava uno scandalo che le sembrava solo qualcosa di trascurabile rispetto all'esigenza di tenere accesa in lei la fiamma del desiderio, che accomunava i due uomini della sua vita. Fatto sta che Brown, per circa un ventennio, fu una presenza fissa nella vita della sovrana, che senza di lui si sentiva insicura; lo scozzese era per lei il porto sicuro in cui concedere una tregua alle fluttuazioni dell'umore e ai dilemmi politici che affollavano la sua mente. Per questo, ignorando quello che potevano pensare gli aristocratici di corte, la stampa satirica e l'opinione pubblica, non volle nascondere l'intensit� dell'affetto che legava inestricabilmente la sua vita a quella dello scozzese. Talvolta la sovrana assunse il punto di vista di Brown, soprattutto nei confronti della nobilt�, che considerava troppo frivola e dedita ai piaceri, mentre le classi disagiate sprofondavano sempre pi� in basso. Significativamente, subito dopo l'approvazione della Seconda riforma elettorale, nel 1867, la sovrana attacc� duramente "la nobilt� meschina e ignorante che vive solo per ammazzare il tempo" (cit. in Longford, 2000, p. 383), senza curarsi del bene della nazione e della condizione dei pi� poveri. Dietro questa invettiva contro l'aristocrazia britannica, pi� che una reale preoccupazione per le classi inferiori vi era il risentimento per il modo in cui la gente di corte aveva reagito ai privilegi concessi allo stalliere. Quando il 29 marzo 1883 John Brown mor�, la regina cadde in una profonda depressione. Il triste evento per lei significava la perdita di un compagno prezioso, la cui presenza, per molti versi, dava un senso alle sue giornate. Il 28 giugno dello stesso anno scrisse nel suo diario: "Ho passeggiato solo per un po' ma ogni mio tentativo era destinato all'insuccesso. Quanto mi manca il braccio forte di Brown che mi aiutava ad andare avanti!" (cit. da Longford, 2000, p. 493). Vittoria volle che a Balmoral fosse eretta una statua dello stalliere, che fu prontamente realizzata dallo scultore viennese Joseph Edgar Boehm, mentre Alfred Tennyson compose l'iscrizione per il piedistallo. Non solo, ma volle che anche a Osborne House, la residenza reale sull'Isola di Wight, Brown venisse ricordato in una "memorial bench", con l'immagine di profilo del defunto e alcuni versi di Byron incisi sulla spalliera. L'importanza che Vittoria stava attribuendo allo scozzese sembrava superare ogni limite e la sua insistenza nel celebrarne la memoria pareva replicare la sua reazione alla morte del principe Alberto. Contro ogni aspettativa, il desiderio della sovrana invece di diminuire cresceva sempre di pi� in una sorta di parossistica commemorazione del defunto. Ma non � tutto. Il panico si diffuse a corte quando si venne a sapere che la regina progettava di fare scrivere una biografia di John Brown, per la quale era stato incaricato segretamente Sir Theodor Martin, autorizzato ad attingere liberamente dai diari dello scozzese. La stampa satirica e scandalistica venne a sapere dell'incarico, per cui Martin, spaventato, adducendo come scusa la malattia della moglie, rinunci� a scrivere la biografia. In realt�, furono soprattutto i membri della famiglia reale a complottare contro la realizzazione di un simile progetto, che a tutti parve di pessimo gusto. Dopo la rinuncia di Martin, la regina cominci� a scrivere lei stessa una Life of John Brown, che tuttavia non fu mai pubblicata perch� i consiglieri le fecero capire che una simile impresa sarebbe andata a detrimento del prestigio della Corona. Alla sovrana rimase semplicemente la consolazione di dedicare all'amato stalliere More Leaves from a Journal of Our Life in the Highlands, la seconda parte delle sue memorie apparse il 12 febbraio 1884. La dedica, che indign� non poco il principe di Galles, suonava cos�: "Ai miei leali abitanti delle Highlands e in special modo alla memoria del mio devoto attendente personale e fedele amico John Brown dedico con gratitudine queste pagine sulla mia vita da vedova in Scozia". Si trattava di memorie che facevano seguito al volume Leaves from a Journal of Our Life in the Highlands, apparso nel 1868, in cui Vittoria ricordava le ore trascorse con il principe Alberto in Scozia. Di nuovo s'impose l'associazione tra il principe Alberto e lo stalliere che alla famiglia Hannover parve una provocazione. L'episodio non fu superato facilmente dai figli di Vittoria, che affrontarono la questione anche sul piano dell'affetto e dell'immagine della casata. Ma, come osserva Elizabeth Longford, "dopo quarantacinque anni di regno, la sovrana sapeva bene quello che voleva il popolo e quello che serviva per il suo bene" (Longford, 2000, p. 495). Incurante e ostinata come sempre, Vittoria continu� per la sua strada senza deflettere dalle sue intenzioni. Sentiva di avere gi� fatto una grande concessione ai consiglieri di corte rinunciando a scrivere la biografia del suo amato servitore. Inoltre, a Windsor e nell'ambiente familiare, si sapeva che, negli anni trascorsi al seguito della regina, Brown aveva registrato ogni cosa nei suoi diari che, probabilmente, scriveva sotto la supervisione della stessa Vittoria. Rimane il fatto che alla morte della sovrana i diari furono immediatamente distrutti, privando gli storici di materiale prezioso per fare luce sulla vita privata della regina. Indubbiamente le ragioni di stato consigliarono di procedere alla distruzione integrale di un documento che si riteneva compromettente non solo per Vittoria ma per la stessa monarchia. � facile ipotizzare che nei suoi resoconti quotidiani Brown avesse trascritto non pochi segreti riguardanti la sua vita a corte. Del resto, se non ci fosse stato nulla da nascondere, perch� distruggere ogni traccia dello scozzese? La verit� sul matrimonio tra la regina e lo stalliere rimane un segreto. Mrs. Brown continua ad essere una ipotesi, una figura virtuale che, pur rimanendo dietro le quinte di una delle esistenze pi� significative dell'Ottocento, continua a stimolare biografi e storici della corte britannica. Appare comunque significativo che, prima di spirare il 22 gennaio 1901, con la solita precisione, la regina avesse preparato ogni dettaglio per l'organizzazione del suo funerale. Dentro la bara volle che fossero collocati alcuni ricordi: la vestaglia di Alberto e il calco della sua mano, una ciocca di capelli di John Brown, la sua fotografia e l'anello nuziale della madre dello stalliere. Quasi a voler confermare il fatto di essere figlia di un soldato, volle un funerale militare quale capo supremo delle forze armate, specificando di voler essere vestita in bianco, dopo aver indossato gli abiti neri del lutto per quarant'anni. La fine di Vittoria non signific� la fine di una regina che, nel suo lungo regno, aveva edificato il mito di s� quale esempio di continuit� storico-politica e certezza morale in una fase di grandi cambiamenti sociali e di continue tensioni internazionali. Sul piano privato, la fine di Vittoria signific� la fine di John Brown, la cui memoria venne sistematicamente cancellata, sia per volont� di Edoardo VII sia per una pi� generale strategia politico-culturale della stessa stampa. Dopo la stagione dello scandalismo giornalistico e delle vignette sarcastiche, per la pubblicistica era arrivato il tempo di celebrare la donna che aveva costruito l'Impero. Mentre nelle pi� grandi citt� britanniche e dell'Impero s'innalzavano monumenti a Vittoria, a Balmoral si provvedeva a distruggere non solo la statua di John Brown voluta dalla regina, ma, come si � detto, anche tutti i documenti, i disegni e le tracce che potessero fare riferimento al "Queen's Stallion". Le conseguenze storiografiche di una simile operazione di "pulizia" sono ovvie: tutte le biografie della regina Vittoria, per quanto complete e dettagliate, lasciano il lettore alle prese con un grande punto interrogativo. Uno spazio vuoto che difficilmente potr� essere colmato: la vera storia di John Brown non sar� mai scritta. Naturalmente, gli studi biografici dedicati a Vittoria non mancano mai di illustrare, anche in modo dettagliato, il tema del suo rapporto con lo stalliere, ma quasi sempre questa presentazione � condizionata dal genere. Dal punto di vista delle genealogie regali, alle donne non si perdonano i peccati e i vizi che, invece, gli uomini possono permettersi ed esibire con disinvoltura. Non fa inorridire nessuno sapere che questo o quel re inglese abbia avuto una dozzina di amanti con figli sparsi nelle varie contee nel regno, magari portando nel suo letto anche prostitute raccolte in mezzo alla strada. Al contrario, questo suscita grande scandalo quando si tratta di una regina. Soprattutto se si tratta della regina Vittoria. Perch� in questo caso sarebbe intollerabile parlare di sessualit� e di desideri, che offuscherebbero, come un acido corrosivo, il ritratto tramandato ai posteri dalla storiografia. Del resto, per capire il culto che circondava la regina Vittoria e la sua centralit� nella coscienza dei sudditi inglesi, basta leggere la lettera che George Gissing scrisse alla madre quando apprese della sua morte: "� impossibile non essere colpiti dalla notizia, perch� la sovrana � stata parte di tutte le nostre vite, e ora che se ne � andata il mondo non � pi� lo stesso" (Gissing, 1997, p. 131). Nella sua semplicit� epistolare, Gissing esprime il sentimento popolare: la regina era stata la parte luminosa della vita di tutti i sudditi, che avevano visto in lei una grande protettrice e un impeccabile esempio di moglie e madre (diede al mondo nove figli). All'inizio del Novecento, il Regno Unito aveva ancora bisogno di Vittoria, regina e imperatrice, pi� di quanto, in vita, la sovrana non avesse avuto bisogno del suo popolo. Nessuno pi� ricordava lo stalliere di umili origini, mentre "nell'accesa immagine dei suoi sudditi Vittoria saliva a volo teso verso le regioni della divinit� cinta da un nimbo di purissima gloria" (Strachey, 1985, p. 267). A parte la glorificazione post mortem, ricordata con un filo d'ironia da Lytton Strachey, rimane l'unicit� storica di Vittoria che, inattesa e giovanissima, irruppe sulla scena della monarchia britannica per portare scompiglio nei codici di corte e, senza rinunciare mai al desiderio di comando e alle prerogative della Corona, per affermare il suo diritto di essere donna e "antivittoriana".