Ottobre 2020 n. 10 Anno V Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Mssimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del MiBACT. Indice Il primo Parlamento Famiglia tradizionale e nuove famiglie: oltre gli estremismi Il dilemma del nostro tempo Psychomachia Il primo Parlamento (di Gigi Di Fiore, "Focus Storia" n. 168/20) - Nel 1820 i Borbone concessero obtorto collo all'Italia preunitaria la carta costituzionale pi� antica e un'assemblea legislativa. Ma dur� poco. - Duecento anni fa veniva inaugurato a Napoli, capitale del Regno delle Due Sicilie, il primo Parlamento dell'Italia preunitaria, nata nel 1815 dal Congresso di Vienna che aveva restaurato le monarchie assolute dopo l'et� napoleonica. Una riforma istituzionale pericolosissima, agli occhi delle grandi potenze europee, decise ad arginare qualsiasi potenziale stravolgimento agli equilibri politici internazionali cos� faticosamente raggiunti. Intanto per� il passo era fatto, e a compierlo fu un sovrano non pi� nel fiore degli anni: il settantenne re Ferdinando I di Borbone, che concesse la Costituzione spinto da una veloce e poco cruenta rivolta militare. All'iniziativa dei ribelli, che era partita da Nola sotto la guida dei sottotenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati, si era unita l'associazione segreta dei carbonari, appoggiata dagli ex feudatari scontenti delle nuove leggi sulla propriet� delle terre. Nel luglio del 1820, re Ferdinando I giur� su un testo che riproduceva la Costituzione concessa in Spagna nel 1812. Il generale Guglielmo Pepe aveva aderito alla rivolta contribuendo a convincere l'anziano sovrano sulla necessit� della riforma; riusc� a coinvolgere anche il principe reggente Francesco I. L'ambasciatore inglese a Napoli, sir William � Court, comment�: "Un regno cos� florido e felice, con governi miti e non offeso dalle tasse, � crollato per una manciata di insorti". Ma, dopo una settimana di lavori preparatori, iniziati il 22 settembre 1820 nella Gran Sala municipale di Monteoliveto, la Costituzione pass�. Vennero eletti 98 deputati, anche se alle riunioni parlamentari non ne erano presenti mai pi� di una settantina per le difficolt� di molti a raggiungere la capitale dalle province. La prima riunione, che fu chiamata "adunanza", si tenne nella sede dell'ampia chiesa dello Spirito Santo il primo ottobre del 1820. Era lo stesso luogo dove, 40 anni dopo, sarebbe stato acclamato Giuseppe Garibaldi al suo ingresso a Napoli. Presidente fu nominato il 55-enne Matteo Caldi, originario dell'attuale provincia di Salerno ed ex murattiano. I deputati si presentarono puntuali alle nove del mattino. Alle 9,30 arriv� la principessa ereditaria Maria Isabella di Spagna, accolta da 22 parlamentari ai piedi delle scale d'accesso. Alle 10 arriv� anche il re con il principe ereditario; i Borbone furono accolti da 32 deputati. Nei verbali della seduta venne riportato: "Il pubblico presente si � visto ardente di un desiderio s� vivo di vedere il suo re, che sembrava impaziente". L'ingresso di Ferdinando I fu accolto da un profondo silenzio. Apr� la seduta il discorso del presidente Caldi, assistito da quattro segretari, che parl� di "Costituzione saggia e moderata, figlia di maturo sapere e matura esperienza". Il re ringrazi� con una breve replica, poi lasci� la parola al figlio, nominato vicario generale, che lesse un testo. Il discorso riscosse "vivissimi applausi" e la seduta si concluse con le grida di "Viva il re e viva la Costituzione!". Dopo la prima seduta le "adunanze" si tennero con frequenza quotidiana, anche se i lavori furono spostati nella sede pi� piccola dell'ex convento di San Sebastiano, a pochi passi dalla basilica di Santa Chiara. Le sedute parlamentari iniziavano alle dieci del mattino e le discussioni vertevano in gran parte sull'organizzazione della "macchina dello Stato", sul potenziamento dell'esercito, sull'adeguamento del bilancio. I giornalisti chiesero uno spazio nell'aula per seguire le "adunanze", una sorta di tribuna stampa, che fu individuata e concessa. Ma l'entusiasmo non era destinato a durare. Le diplomazie di Austria, Russia e Prussia avevano mostrato fin da subito la loro contrariet� al regime costituzionale, tanto da spingere i parlamentari, primo fra tutti l'avvocato Giuseppe Poerio, a protestare contro l'ingerenza straniera sull'autonomia della nazione napoletana voluta dalla Costituzione. Solo Spagna e Svizzera riconobbero il neonato regno costituzionale dell'Italia Meridionale. Mentre il Parlamento continuava a riunirsi, il re fu convocato a Lubiana dalle potenze alleate sempre pi� preoccupate. Da Firenze, dove fece tappa una settimana, prima di proseguire per Lubiana, Ferdinando I rassicur� il Parlamento. Le potenze della Restaurazione si riunirono quindi nel Congresso di Lubiana (1821). I lavori furono brevi, anche perch� tutti si trovarono d'accordo nell'obbligare le Due Sicilie ad abolire la Costituzione. Re Ferdinando fu convinto a fare marcia indietro dalla pressione degli eserciti austriaci e prussiani che marciavano verso Napoli. Tuttavia, secondo alcuni resoconti, sarebbe stato addirittura lui, nel Congresso di Lubiana, a invocare l'intervento austriaco: in fondo, fece intendere Ferdinando I, era stato "costretto" a concedere la Costituzione. In un contesto cos� precario, il Parlamento riusc� a portare a compimento solo la prima sessione ordinaria, con 63 sedute. L'ultima si tenne il 31 gennaio 1821. Sette deputati rimasero, come prevedeva la Costituzione, in seduta permanente nei giorni successivi. Quando le truppe austriache dilagarono in Campania, furono convocate 14 adunanze straordinarie per affrontare l'emergenza. Ma il tentativo di resistenza dell'esercito napoletano, guidato dal generale Pepe, fu troppo debole. Di fronte agli austriaci, le truppe si ribellarono sparando contro gli ufficiali o disertando. Cos� il 15 marzo 1821 la breve parentesi costituzionale napoletana si chiuse. A suggellarne la fine, un messaggio del re e l'arrivo degli austriaci, che rimasero a Napoli cinque anni per "garantire l'ordine a spese delle casse delle Due Sicilie". Il sogno di un'Italia libera e unita doveva aspettare. Famiglia tradizionale e nuove famiglie: oltre gli estremismi (di Mauro Fornaro, "Psicologia contemporanea" n. 274/19) - Una lettura dell'istituzione-famiglia che mostra la complementarit� di aspetti naturali e culturali, nel rifiuto di radicalismi di segno opposto. - A fronte di una questione eticamente sensibile come quella della famiglia le passioni si scatenano. Lo si � ancora visto in occasione del XXIII Congresso Mondiale delle Famiglie, a Verona dal 29 al 31 marzo 2019 e organizzato dai sostenitori della famiglia cosiddetta "tradizionale". Ma che cos'� una famiglia tradizionale? E quali sono le ragioni della forte contrapposizione ad essa? I due tipi di famiglia Con "famiglia tradizionale" si pensa alla famiglia monogamica, eterosessuale, procreativa, intenzionalmente duratura a vita, che prevede una chiara distinzione di ruoli tra donne e uomini (opponendosi alle teorie e pratiche gender, che propugnano la possibilit� di dissociare il genere dal sesso biologico). Dall'altra parte abbiamo le cosiddette "nuove famiglie" o "famiglie moderne", che comprendono le convivenze pi� o meno transitorie, le unioni civili con o senza obbligo di fedelt� verso il coniuge, le unioni omosessuali, tutte con o senza figli; poi le famiglie formate da un/a single con prole, a seguito di divorzio (o anche per vocazione originaria), e pure le famiglie "ricomposte", cio� quelle con figli provenienti dalla relazione con un precedente partner di uno o entrambi i partner attuali. Ovviamente, � una divisione schematica: non tutti i tratti rispettivamente elencati sotto le due tipologie sono parimenti presenti in tutti coloro che aderiscono all'uno o all'altro tipo di famiglia (per esempio, vi � pure la coppia omogenitoriale, che concepisce l'unione in senso monogamico e duraturo). I motivi di contrasto sono incentivati dalle ripercussioni che le diverse immagini di famiglia hanno su temi di rilevanza sociale e giuridica quali i cosiddetti diritti civili - divorzio, aborto, unioni omosessuali, diritti delle donne ecc. -, coinvolgendo le varie fazioni politiche. Si sfugge cos� a una riflessione pi� pacata su cosa � famiglia e sui suoi valori, sulle diverse concezioni antropologiche che stanno a monte di ciascuna parte. Anzitutto, se si considera il modello psico-sociologico sottostante alle due tipologie, si pu� rilevare che la famiglia tradizionale afferma per lo pi� il primato della comunit� sull'individuo, s� che la coppia e la famiglia sono intese come un'unit� sopraindividuale, "collettiva" in un certo senso: le scelte dell'Io sono subordinate al Noi del gruppo familiare. L'altro tipo privilegia l'individuo e i suoi diritti, ovverosia desideri, s� che la famiglia e la coppia sono concepite piuttosto come somma di individui, indebolendo di fatto la nozione di famiglia e dunque la sua tenuta: gli Io prevalgono sul Noi. Il fraintendimento della nozione di natura Il conflitto tra i sostenitori delle due tipologie di famiglia avviene principalmente sulla nozione di natura. I tradizionalisti fanno spesso appello alla famiglia cosiddetta naturale, quella formata da padre-madre-figli, costruita sulla base della differenza sessuale dei due partner e della procreazione per via del loro rapporto sessuale. A questa nozione di famiglia non di rado si connette, a formare un tutt'uno, il modello di famiglia prevalente in Occidente: mononucleare e neolocale (ossia organizzata in singolo nucleo autonomo, separato anche spazialmente dalle famiglie di provenienza). I sostenitori delle famiglie moderne, al contrario, attaccano frontalmente il concetto di natura, imputato di partecipare di una visione astorica e dunque "essenzialista". A mio avviso, sbagliano gli uni e gli altri. I primi sbagliano nella misura in cui pensano che la natura sia di per s� giustificativa di norme comportamentali: nel qual caso non si vede perch� non si dovrebbe seguire fatalisticamente anche ci� che di dannoso, di inumano vi � in natura. Sbagliano anche gli altri nella misura in cui le norme comportamentali sono ritenute meri costrutti sociali e dunque sempre contingenti. Da una parte abbiamo un determinismo naturalistico improbabile, perch� insensibile ai mutamenti storico-culturali, dall'altra parte un costruzionismo sociologico che prevede una normazione cangiante in funzione della cultura e del potere in auge al momento. Le due impostazioni appaiono destinate allo scontro frontale. Ma proprio una pi� attenta lettura di ci� che � "natura" permette di superare i due radicalismi e di aprire pi� convincenti prospettive. Lungi dall'essere qualcosa di immutabile, quasi un'essenza eterna, la nozione di natura, che etimologicamente viene dal latino "nascor", "nascere", dice di una genesi, di uno sviluppo. In questo senso la natura �, s�, un dato che ci � precostituito (precostituiti nella fattispecie sono il dato biologico della sessualit�, maschile o femminile, e il modo spontaneo della procreazione), ma � anche un che di sorgivo, soggetto alla processualit� e alla variazione (nella fattispecie � da notare che intersessualit� biologica, transessualit� e tendenze omosessuali sono pur sempre fenomeni dati in natura). E, soprattutto, la stessa natura di Homo Sapiens � quella di essere anche intelligenza e dunque cultura. Pertanto la natura va assoggettata al discernimento dell'essere umano, premiando ci� che in essa va nella direzione di una variazione che sia crescita e sviluppo. Sul versante opposto, quello degli ideologi delle famiglie moderne, il fatto di sottovalutare che la datit� biologica � condizione necessaria dello stesso esistere culturale - ritenendo invece che tutto in natura sia indefinitamente manipolabile - significa tagliare il ramo dell'albero su cui sediamo. La cultura, la societ� possono costruire corrette norme e prassi comportamentali lavorando entro e su quei vincoli di ordine biologico e psicologico gi� dati e comuni ad ogni cultura. Pertanto, pure da questo versante, compito di ogni sana cultura � discernere e premiare quegli orientamenti naturali che vanno nella direzione della crescita in termini di qualit� di vita e di felicit� per tutti. Caratteri varianti e caratteri invarianti Cosa significa tutto ci� in ordine alla famiglia? Alla luce di un pi� corretto concetto di natura, nonch� alla luce della storia della famiglia quale si � dispiegata nei millenni, conseguono due cose. Da una parte, la famiglia si � strutturata nelle forme pi� disparate a seconda delle epoche e delle culture considerate, ma non vi � cultura che non conosca qualche forma di famiglia (gli esperimenti di promiscuit� sessuale e di allevamento collettivo della prole si sono rivelati alquanto precari, mentre scarsamente comprovata � la tesi di un'originaria promiscuit� sessuale dell'umanit�) (Burgui�re et al., 1986). Dall'altra parte, pur nelle variegate forme di famiglia sono presenti taluni invarianti, correlati a funzioni ineludibili ai fini della sopravvivenza biologica e sociale del gruppo. Questi invarianti consistono, oltre che nella necessit� di un mutuo sostegno tra i membri del gruppo, segnatamente nella necessit� di proteggere la prole, la quale, nata filogeneticamente prematura rispetto ad altre specie animali, esige un lungo periodo di cure materiali ed educative; essi consistono inoltre nella necessit� di proteggere la madre, pi� fragile in gravidanza e in allattamento. Tutto ci� induce a sollecitare la presenza coadiuvante di una "figura" paterna, che pertanto dovr� riconoscere la prole come sua o di sua competenza; e dunque induce a una stabilizzazione della relazione tra i partner della coppia genitoriale (� una stabilizzazione peraltro favorita dalla possibilit� di accoppiarsi in ogni momento, grazie alla cessazione dell'estro nella femmina umana: un bell'esempio di dato naturale valorizzabile in senso culturale a vantaggio del perdurare della relazione di coppia). Ebbene, su questi invarianti transculturali si innesta ogni cultura, nel senso che, da un lato, nessuna cultura pu� prescinderne e, dall'altro, ciascuna soddisfa nei modi ad essa propri le suddette necessit�. Pertanto, come scrive il grande antropologo L�viStrauss (1986): "Tra la natura e la cultura la famiglia, quale si osserva nel mondo, realizza sempre un compromesso". La famiglia � un fatto naturale per quegli ineludibili compiti che ha da assolvere ai fini della sopravvivenza del gruppo, e ad un tempo � un fatto culturale, poich� ogni cultura organizza un tipo di famiglia che assolve quei compiti in modo funzionale al proprio specifico assetto socio-economico e valoriale, o quantomeno in modo coerente con esso. Questo carattere storico delle forme di organizzazione della famiglia non coinvolge solo la forma mononucleare piuttosto che la plurinucleare (patriarcale) o la monogamica piuttosto che la poligamica (poliginica o poliandrica), ma coinvolge la genitorialit� stessa: a volte la genitorialit� sociale o giuridica � scissa dalla genitorialit� biologica. Non � soltanto il caso dell'adozione. La gestazione per conto di altri ha i suoi precedenti, mutatis mutandis, nei contesti in cui la continuazione della stirpe � un valore primario e la sterilit� una maledizione: un'altra donna del clan - in genere, ma non sempre, una serva - � chiamata a dare una discendenza all'uomo con il consenso, quando non la sollecitazione, della legittima moglie rivelatasi sterile (si tratta di una prassi accolta pure nella Bibbia). La paternit� legale, poi, nelle culture matrilineari appartiene allo zio di parte materna, pur in presenza del padre biologico con cui la moglie-madre si incontra occasionalmente; e tale paternit� poteva appartenere anche al defunto, l� dove, come nell'usanza del levirato, il fratello del defunto doveva sposarne la vedova (anche per comprensibili ragioni sociali) e i figli che ne fossero nati avrebbero assunto il nome del defunto. Sono prassi oggi eticamente respinte o perlomeno non necessarie nel contesto della nostra cultura. Invarianti nella nostra societ� Dunque la domanda che oggi va correttamente posta, al di l� della falsa contrapposizione natura/cultura, � quali siano la forma o le forme di organizzazione della famiglia che meglio rispondono alle suddette ineludibili esigenze nel contesto della nostra attuale societ� e dei valori in generale abbracciati (la famiglia � valore in s� solo in quanto risponde a quelle necessit� naturali, ma nelle sue forme storiche si organizza secondo la scala di valori abbracciati in generale in quel dato contesto). In particolar modo le cosiddette nuove famiglie vanno valutate in base non gi� ad astratti modelli di famiglia naturale, bens� all'efficacia nell'adempiere ai compiti ineludibili per ogni forma di famiglia, nel concreto contesto sociale, culturale ed economico attuale. Sotto questo profilo, due cose sono assodate e le rilevo tra le altre perch� concernono l'indicazione delle migliori condizioni di sviluppo psico-sociale della prole (la cui realizzazione � tra i compiti primari della famiglia). In primo luogo mi riferisco alla ottimalit�, a parit� di altre condizioni, della famiglia duratura nel tempo, specialmente dato il carattere di gruppo mononucleare e neolocale, e dunque di gruppo isolato dal parentado, proprio dell'odierna famiglia occidentale. Infatti, secondo la stragrande maggioranza degli studi, divorzi, instabilit� e precariet� relazionali tra le figure genitoriali, etero od omosessuali che siano, sono predittivi di sviluppi disagiati della prole sotto il profilo psico-sociale in ogni tipologia di famiglia (Golombok, 2015; Oliverio Ferraris, 2005); inoltre le stesse famiglie ricomposte presentano una maggiore suscettibilit� a ulteriori separazioni o divorzi rispetto alle famiglie di prima costituzione (Barbagli, 1990). In secondo luogo, l'affettivit� e la cura genitoriali sono condizioni imprescindibili e di primaria importanza per il sano sviluppo psico-sociale della prole, ma da sole non offrono le condizioni ottimali: un fattore favorevole al sereno sviluppo dei figli � altres� la coincidenza dei genitori sociali con quelli biologici, anche se su questo punto non vi � unanimit� tra gli studiosi. Comunque nelle famiglie con figli da fecondazione eterologa (sperma od ovocita dato da persona estranea alla coppia), o con figli programmati entro coppie omosessuali, o concepiti da donna single inseminata da sperma di sconosciuto, pur con le differenze del caso, aleggia l'inquietudine attorno alla figura del terzo assente, cio� l'altro genitore biologico (Carone, 2016). Nei figli cos� concepiti, una volta che sono cresciuti, resta aperto uno spinoso interrogativo esistenziale (e anche pratico, se pensiamo a problemi di eventuali patologie ereditarie): "Ma di chi sono figlio/a?", e anche: "Come sono stato messo al mondo?" (Marion, 2017). � possibile che la cura e la sensibilit� dei familiari sopperiscano a difficolt� di origine, evitando disturbi di rilievo nello sviluppo della prole, ma la strada � in salita per questi genitori e per i loro figli. Il dilemma del nostro tempo (di Remo Bodei, "Prometeo" n. 148/19) - Saremo prigionieri della tecnologia o potremo avvantaggiarcene? - Nel progressivo interfacciarsi di facolt� e di capacit� delegate alle macchine e, parallelamente, nel convergere, con l'avanzare dei capitoli degli elementi narrativi su quelli teorici con motus infine velocior, esistono pericoli e opportunit� che non siamo ancora in grado di valutare adeguatamente, tanto che ci troviamo di fronte a ipotesi del tutto divergenti sul nostro avvenire. Dinanzi a problemi in continua evoluzione e a eventi circonfusi da uno spesso alone di incertezza, sembra, in diversi casi, pi� sensato individuare le domande su cui soffermarsi piuttosto che azzardare risposte su un futuro indeterminato che rasenterebbero la profezia. Eppure, qualcosa di ragionevolmente certo e assennato si pu� (e si deve) dire sul rapporto tra gli uomini e le nuove macchine, separandolo da dispute che alimentano un'abbondante letteratura, che non � solo di carattere popolare, apologetico o denigratorio, ma che oscilla normalmente tra paura e speranza dinanzi al nuovo. Il limitarsi a porre questioni, purch� pertinenti, non �, del resto, inutile, proprio perch� ci troviamo dinanzi all'urgenza di rimodellare dalle fondamenta il nostro apparato concettuale, di abbandonare progressivamente le "idee tampone" (le congetture provvisorie, che pure sono all'inizio di ogni indagine euristicamente insostituibili) per trovarne altre che abbiano una struttura portante, per cos� dire, maggiormente antisismica, meno incrinabile dalle scosse cui sono sottoposte a causa dei veloci e imprevisti cambiamenti in corso. Occorre, in ogni caso, scansare la trappola delle retoriche vittimistiche o trionfalistiche sulla sconfitta dell'uomo da parte delle macchine o sulla sua gloriosa rivincita contro il loro tentativo di sottrarsi alla sovranit� della nostra specie. La questione da porre non riguarda, infatti, un preteso epico scontro tra l'uomo e la macchina, ma la crescente incidenza economica, politica o militare, nel bene e nel male, di questi straordinari strumenti che gi� ora conferiscono enormi quote di potere a chi li possiede. Se, parafrasando il Vangelo di Giovanni, il logos (il Verbum o la Parola) non si � fatto carne ma macchina, e se lo spirito soffia ormai anche sul non vivente, quali saranno le decisive trasformazioni cui andremo incontro? Da quando il lavoro � sempre pi� legato alla conoscenza, quali sfide porr� la coabitazione tra Intelligenza Artificiale e intelligenza umana? Come coordinare la crescente rapidit� di calcolo e di esecuzione di programmi da parte di sistemi dotati di IA con la maggiore lentezza degli uomini (che �, per certi aspetti, un vantaggio non solo per il pensiero individuale, ma anche per la democrazia, la quale richiede un tempo adeguato per elaborare le questioni su cui decidere?). Se l'accelerazione del tempo umano, nel tentativo di imitare la velocit� delle macchine, non rappresenta la migliore soluzione ed �, anzi, controindicata, che fare per non mutarci in appendici stupide di macchine intelligenti? I vantaggi nel trasferire il logos umano alle macchine sono per� sempre pi� evidenti e tangibili. Basti pensare al caso, fra tanti, dei comandi di ordine linguistico per stampanti 3D (algoritmi, sequenze di comandi logici, che possono arrivare a milioni, scritti in linguaggi artificiali: l'analogo dei "pensieri ciechi", leibnizianamente privi di coscienza), capaci di produrre direttamente l'oggetto fisico, una statua o una casa, senza altre mediazioni, abolendo cos� virtualmente sia la separazione tra lavoro mentale e manuale, sia quella tra arti liberali e arti meccaniche. L'educazione al cambiamento � certamente il mezzo migliore per accorciare queste nuove "doglie del parto". L'incarico di rivoluzionare la propria comprensione del mondo non pu�, tuttavia, essere svolto, in solitudine, unicamente dagli individui: presuppone un progetto collettivo di enorme portata. Deve condurre a un long life learning dei cittadini - reso meno utopistico dal progressivo aumento del tempo libero dal lavoro - in grado di gettare un ponte anche tra i saperi tecnico-scientifici e quelli umanistici, tra i mezzi e i fini, in vista della crescita personale e collettiva. Quando avremo vasta disponibilit� di "schiavi" robotici e di congegni intelligenti e servizievoli, come si configureranno gli eventuali rapporti di dominio e di sudditanza tra uomini e apparati tecnici? Diventeremo davvero pi� ottusi a causa dell'abitudine ad appoggiarci a concetti preconfezionati, facilmente e gratuitamente accessibili in rete, grazie ad algoritmi incomprensibili ai pi� e spesso segreti? Negli esperimenti di simbiosi in corso tra uomo e macchine fornite di IA si avverte un duplice rischio: da un lato, che il logos umano - inteso sia come ragione, sia come linguaggio - venga sminuito dal prevalere del logos artificiale, rappresentato da algoritmi in grado di surrogarlo nell'esecuzione di molti lavori e prestazioni; dall'altro, che anche la volont� umana possa impoverirsi ed essere aggirata, una volta trasferita in macchine capaci di prendere decisioni autonome e istantanee (sebbene prestabilite dagli umani), come gi� accade nell'automobile senza pilota e, in misura pi� preoccupante, nei sistemi missilistici d'arma, nei droni killer o negli algoritmi ultraveloci dei mercati finanziari. L'educazione a collaborare fruttuosamente con tali dispositivi non � solo auspicabile ma possibile, giacch� essi inglobano finora la nostra stessa intelligenza. L'importante � che, nel progettarli, i loro scopi siano "allineati" con i nostri (cosa non facile qualora si dovesse sviluppare una seppur improbabile "Superintelligenza" in grado di programmarsi da s� e di perseguire fini che potrebbero non collimare con quelli da noi previsti). Con il diffondersi di simili apparecchi "intelligenti" e in grado di imparare in pochissimo tempo si creeranno, comunque, nuovi tipi di lavoro, sempre pi� legati alla conoscenza, in cui il pensare e il fare non saranno pi� totalmente disgiunti. Si potr� allora togliere a gran parte dei modi di produrre quella ripetitivit� priva di pensiero che � stata la caratteristica della rivoluzione industriale, in particolare della catena di montaggio del taylorismo-fordismo, e all'ozio, perfino a quello cosiddetto "creativo", il pregio esclusivo di costituire una piacevole alternativa al lavoro? Psychomachia (di Franco Cardini, "Prometeo" n. 147/19) - Alle radici antiche e medievali di una necessit� (o di un'illusione) del nostro tempo. - Un hadit, cio� una narrazione relativa alla vita del Profeta che per i musulmani sunniti ha valore canonico pari al Corano - mentre gli sciiti non la riconoscono come tale -, narra come una volta Muhammad stesse pregando sotto la propria tenda allorch� venne interrotto dai suoi seguaci che, reduci festanti dal campo di battaglia, lo informarono che il nemico era stato sbaragliato. Al che il Profeta, contrariato per il fatto di esser costretto a ricominciare daccapo la preghiera interrotta, rispose con severa cortesia congratulandosi per il fatto ch'essi avevano vinto il loro "piccolo sforzo sulla via gradita a Dio" (al-jihadul ashgar) ed esortandoli a ritirarsi ora nelle loro dimore e intraprendere il "massimo sforzo" (al-jihadul akbar), quello a Dio veramente pi� gradito: la vittoria, nell'intimo di ciascuno di se stessi, contro il male e il peccato. Si noter� come si sia qui accuratamente evitato di seguire il malvezzo secondo il quale il termine jihad viene ancora correntemente tradotto - nonostante le iterate precisazioni degli specialisti - come "guerra santa": � difatti molto discutibile che una vera e propria dimensione di santificazione/sacralizzazione della guerra possa esistere, contrariamente a quanto a un livello divulgativo e sviante si afferma di solito, nel contesto delle religioni scaturite dal patto di Dio con Abramo. Senza dubbio, peraltro, la lotta finale tra le schiere dei fedeli e le orde dei nemici di Dio � quanto si afferma nella tradizione apocalittica viva tanto nell'ebraismo quanto nel cristianesimo e nell'Islam: e il linguaggio appunto apocalittico � andato sovente a convergere, e in molti casi a confondersi, con tradizioni desunte da sistemi mitico-religiosi che conoscono dimensioni spirituali analoghe o somiglianti, quali le varie forme di dualismo/"biteismo" presenti nella complessa cultura gnostico-manichea. Ora, che la tradizione apocalittica possa riguardare la lotta intima che si svolge nell'anima del fedele contro il male e il peccato � fuor di dubbio; tuttavia, in essa si � costantemente ravvisata altres� la dimensione di una lotta cosmica combattuta s� alla fine dei tempi, ma pur sempre nella storia, tra contrapposte forze spirituali peraltro coinvolgenti anche gli umani. Nella tradizione teologico-devozionale cristiana, tuttavia, accanto alla letteratura propriamente escatologico-apocalittica che rinvia appunto agli eschata, al mistero dei Novissima (la Morte, il Giudizio, il Paradiso, l'Inferno), e che ha spesso dato luogo allo scrutare nella storia antica e recente i segni dell'approssimarsi della prova finale dell'umanit�, si � andata affermando altres� una tendenza alla descrizione in termini epico-allegorici dello scontro che si svolge di continuo nell'animo di ciascuno, della lotta tra i vizi che vorrebbero trascinare l'anima al peccato e le virt� che, viceversa, a ci� si oppongono. L'andamento di queste narrazioni ha sovente acquistato l'aspetto del iudicium Dei, dell'ordalia, nelle forme del combattimento epico e addirittura, spesso, della "singolar tenzone" tra un vizio, personificato in termini eroico-guerreschi, e la virt� che ad esso si contrappone. Ne � risultato un genere letterario etico-parenetico in veste epico-allegorica che propone trattati morali esposti in forma di narrazione guerriera. A livello iconico, le immagini dell'arcangelo Michele che sconfigge un Satana presentato in forma mostruosa o di san Giorgio che assale e uccide il dragone inviano analogo messaggio: ed entriamo qui in un campo vastissimo, che si ricollega ad archetipi molto antichi presenti nella tradizione egizia come in quella avestica e che hanno riscontro, ad esempio, negli episodi di Tierkampf comuni nella mitologia germanico-nordica (la lotta del Sigurdh della saga, analogo al Siegfrid del Nibelungenlied, contro il drago Fafner ch'� mostruoso avversario ma anche saggio iniziatore alla conoscenza e il sangue del quale procura l'invulnerabilit� di chi se ne bagni). Una scultura del XII secolo sul portale della chiesa di Saint-Nicolas a Civray, nella regione di Vienne, potrebbe sembrar alludere a qualcosa del genere: un guerriero armato di lunga lancia e di scudo crociato trionfa serenamente su un turpe, spaventoso mostro-demonio ai suoi piedi. L'immagine non sembra per� celebrare un arcangelo o un santo. Si pu� pensare che il guerriero vittorioso sia membro di un Ordine militare, per esempio un templare, visto che il suo scudo � segnato da una croce: ma in questo senso il rinvio pare alquanto generico. Che si tratti di qualcosa d'altro? Che i due protagonisti dell'immagine non siano un santo o un uomo e un mostro o un demonio, bens� qualcosa d'altro? Se ci spostiamo altrove pur rimanendo nello stesso XII secolo, un mosaico della chiesa di Santa Maria a Vercelli (oggi conservato nel Museo Leone di quella stessa citt�) ci mostra invece una scena che non si esiterebbe a definire "di crociata": due guerrieri a piedi si affrontano, con i fendenti di due lunghe spade dritte: sono un "europeo" riccamente abbigliato, barbuto, dall'abito elegante e il cui scudo dalla forma "a mandorla", secondo le fogge del periodo, ostenta una decorazione crucifome; il suo avversario � invece seminudo, ha tratti inequivocabilmente africani (� nero) e la sua espressione � spaventosa eppure nulla lo qualifica propriamente come un demonio, nonostante il colore della pelle che fino dalla tradizione paleocristiana richiama a immagini diaboliche. Il suo scudo � rotondo, una foggia comune nelle armi di difesa del mondo musulmano. Eppure l'affrontarsi di una figura dalla severa eleganza e una che accoppia terribilit� e nudit� rinvia a sua volta a un significato che sembra andare oltre il semplice episodio guerriero: il che parrebbe confermato dall'enigmatica iscrizione che accompagna l'immagine del cristiano (qualificato fol, con un termine che tra i suoi molti significati parrebbe alludere alla santa follia del mistico: come quella di Francesco d'Assisi, novus pazzus in mundo), confrontata con quella che definisce invece il suo avversario fel (ed � "fellone", traditore, chi si oppone alla vera fede: come i musulmani che, secondo una tradizione ereditata dalle Chiese cristiane orientali ed entrata nella tematica patristica e quindi scolastica, sono in realt� seguaci di un eresiarca - tale infatti Maometto, che per superbia si � allontanato dal cristianesimo - e pertanto considerabili eretici essi stessi; e un eretico � un "fellone", un traditore). � evidente che siamo in un contesto di propaganda crociata e di riferimenti epici: veicolati per� attraverso un genere letterario e concettuale preciso. Per comprenderlo bisogna tener presente due capolavori della letteratura antica, noti l'uno indirettamente l'altro direttamente al nostro medioevo: i Sette a Tebe di Eschilo e la Tebaide di Stazio, un autore epico che il medioevo, e in particolare il XII secolo, ha letteralmente idolatrato utilizzandolo di continuo e intensamente nelle scuole e considerandolo altrettanto importante di Virgilio e in alcuni ambienti ancora pi� di lui. I Sette a Tebe, rappresentata per la prima volta in Atene nel 467, non erano conosciuti direttamente nel medioevo occidentale: tuttavia, ben nota era invece la Tebaide che Publio Papinio Stazio riprese non tanto da Eschilo quanto da un poema epico di Antimaco di Colofone redatto nel IV secolo che aveva narrato il medesimo episodio, quello che ha come protagonisti l'odio reciproco tra i due fratelli Eteocle e Polinice, ispirandosi per� piuttosto ad Omero. Stazio, ovviamente, prese a sua volta come modello l'Eneide di Virgilio e immise nel suo racconto epico tratto dal ciclo tebano anche elementi allegorico-filosofici, come le personificazioni di sentimenti e di esperienze psichiche: ad esempio la Discordia, la Piet�, il Sonno, l'Oblio, raffigurati in forma umana. Il mondo cristiano conosceva fino da Paolo di Tarso l'uso di definire in forma allegorico-retorica certe virt�, quali la Fede, la Speranza, la Carit�, quali arma lucis, vale a dire spada, scudo, elmo del fedele il quale, armato di esse, diveniva miles Christi; la stessa letteratura apocalittica, e la meditazione ad esempio di un Tertulliano, avevano rese consuete queste figure retoriche. Benedetto da Norcia, ad esempio, definiva il monaco miles Christi a causa della sua lotta contro le tentazioni. Ma gi� prima di san Benedetto il tema della pugna spiritualis era stato trattato in un modo destinato ad avere uno straordinario successo nei secoli che immediatamente gli tennero dietro in un poemetto latino allegorico-didattico di un poeta d'origine iberica, Aurelio Prudenzio Clemente, vissuto tra IV e V secolo. In tale poemetto di 915 esametri si trattava, nelle forme di una serie di duelli epici, la lotta tra le virt� cristiane e i vizi pagani. Non c'era ancora una precisa ripartizione che rispettivamente ripartisse le une e gli altri in due gruppi di sette - poi destinati a divenir teologicamente canonici -, ma la strada era comunque aperta: ed ecco la Fede scontrarsi con l'Idolatria, la Sobriet� contro la Lussuria eccetera. Ciascun "campione", positivo e negativo, viene da Prudenzio pedantemente descritto nei suoi abiti, le sue armi, i suoi attributi simbolici, le virt� o i vizi "minori" che sono i suoi accoliti. Insomma, ne concluderete voi, una noia mortale. Senza dubbio. Ma una trovata straordinaria per rovesciare i termini dell'impianto simbolico: se lo scontro spirituale tra Bene e Male si poteva tradurre in termini epici e militari, non era ovvio anche il reciproco? Era a tale scopo sufficiente arrogarsi il ruolo di combattenti per la Verit� e la Giustizia: il nemico, a tal punto, da semplice concorrente in una gara la posta della quale era la vittoria militare con tutti i suoi vantaggi diventava un tremendo, odioso portatore del Male sulla terra. Il modello psicomachiaco ebbe un grande successo. Ai tempi di Dante, il fiorentino Bono Giamboni ne compil� un libero volgarizzamento nel suo Libro dei vizi e delle virt�, ch'� una sorta di avventuroso romanzo di crociata. Ma il modello psicomachiaco era allora gi� divenuto da tempo carne e sangue della Cristianit�. Verso la fine del terzo decennio circa del grande XII secolo, si tratt� per la Chiesa latina di trovarsi dinanzi alla necessit� di legittimare un gruppo di religiosi che, volendo trasformare la loro fraternitas in vero e proprio Ordine religioso, non per questo intendevano deporre le armi in quanto come guerrieri, come cavalieri, avevano proposto di restare nella Terrasanta conquistata dai crociati nel 1099 ma nella quale ormai le forze cristiane facevano difetto - i pellegrini armati, presa Gerusalemme e sciolto il loro voto, altro non desideravano se non tornarsene a casa - mentre l'Islam circostante si stava riorganizzando e rischiava di spazzar via tutto quel che in pochi anni era stato edificato in quella strana, recente spedizione durata tre anni. Ma all'interno delle consuetudini religiose tutto ci� era impossibile: Ecclesia abhorret a sanguine, non potevano esistere un chierico o un monaco che si arrogassero le funzioni eminentemente laicali della guerra profanando col sangue versato le loro mani votate ai sacramenti; e d'altronde i combattenti laici davano segno di non voler sostenere per sempre il ruolo dei custodi dei Luoghi Santi riguadagnati alla fede. Fu allora che le poche decine di cavalieri che con i loro accoliti si erano riuniti in Gerusalemme attorno alla moschea al-Aqsa (che i cristiani chiamavano "il Tempio di Salomone"), dove verso il 1118 il re crociato di Gerusalemme, Baldovino II, aveva accordato loro d'insediarsi - e per questo essi furono qualificati come "Templari" - ebbero la fortuna d'imbattersi in un patrocinatore d'eccezione, il vero e proprio "dittatore spirituale" della Cristianit� latina del tempo: il priore dell'abbazia cistercense di Clairvaux in Borgogna, Bernardo. Fu lui a convincere papa Eugenio III fra 1128 e 1129, nel sinodo di Troyes, che quegli uomini che avevano fatto voto di stretta povert�, di vita comune e di obbedienza al pontefice avevano tra le loro virt� quella, precipua, di essere agnelli mansueti con i fedeli, leoni terribili contro gli infedeli; e che quando cercando in battaglia il martirio (unico guadagno al quale ambivano) capitava loro, invece, di uccidere il nemico, il loro era atto d'amore: non "omicidio", bens� piuttosto "malicidio", in quanto sopprimere i sostenitori della violenza e dell'ingiustizia era il solo modo di far trionfare la giustizia e la pace. Tutto ci� � letteralmente Bernardo di Clairvaux a tramandarcelo: difatti lo ha scritto in quell'ammirevole, elegantissimo, perfino commovente piccolo trattato che � il Liber de laude novae militiae. Con quell'opera e con la fondazione dell'Ordine del Tempio l'allegoria della pugna spiritualis (in greco psychomachia) s'incontrava con la "demonizzazione obiettiva" del nemico, mostrato non malvagio quanto alle sue personali caratteristiche - egli poteva ben essere, come difatti sovente accadeva, buono e virtuoso - ma quanto al compito che si assumeva. In questo modo il saraceno, anche se poteva accadere (e accadeva) che lo si riscontrasse di gran lunga migliore del cristiano, era pur sempre - come avrebbe detto Annah Arendt - un "nemico metafisico": il rappresentante del Male Assoluto. Viviamo proprio in questi giorni in tempi nei quali l'esigenza della demonizzazione dell'avversario sembra trionfare ed essersi imposta, in una versione laicizzata e ideologizzata, all'interno di un mondo politico desolante per carenza di cultura e di capacit� di riflessione. Al pericolo dell'invasione africana e/o musulmana sbandierato dalle destre si � opposto quello del neofascismo e del neonazismo ostentato dalle sinistre: in un modo o nell'altro, le pi� recenti competizioni elettorali si sono svolte all'insegna di una polarizzazione irrazionale che non ha trovato voci equilibrate in grado di arginare e di contenere. Eppure, ancora una volta, il medioevo che ci ha proposto il modello psicomachiaco in tutta la sua dirompente pericolosit�, ci ha fornito anche dei potenti antidoti. Torniamo alle immagini: come quella del soffitto dell'Alcazar di Siviglia dove si ammirano due guerrieri, un cristiano e un musulmano, che serenamente seggono al medesimo tavolo intenti a una partita di scacchi: esso stesso, com'� noto, un gioco "militare" e strategico, una guerra dominata dalla bipolarit� bianco-nera, o rosso-nera, o bianco-rossa delle pedine che rappresentano gli eserciti affrontati. Eppure tutto � ordine, divertimento, tranquillit�. Il medioevo delle crociate era anche quello degli scambi economici, commerciali, culturali, diplomatici che resero bello e opulento il Mediterraneo dei secoli XII-XIII. Fra il Duecento e i primi del Trecento si and� diffondendo, passata dal mondo indiano, islamico ed ebraico a quello cristiano, quella "Favola delle Tre Anella" alla quale Boccaccio prima, e Lessing secoli pi� tardi, seppero imprimere il sigillo della teorizzazione della tolleranza religiosa. Si ricorderanno di quella fiaba, scaturita proprio dal "buio medioevo", gli odierni fautori di nuove crociate?