Novembre 2017 n. 11 Anno II Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani Antonietta Fiore Luigia Ricciardone Copia in omaggio Indice Il cammino della conoscenza Casa Montesquieu Il cammino della conoscenza (di Gianluca virgilio, "Prometeo" n. 139/17) - Presuppone addentrarsi nell'ignoto, nella vastit� dell'universo. - "Oh, Agathe, non immagini cos'�, - gemette poi, soprappensiero, - ad esempio la scienza! Per un matematico, poniamo, meno cinque non � peggiore di pi� cinque. Uno scienziato non deve avere ribrezzo di nulla, e in certe circostanze un bel caso di cancro lo ecciter� piacevolmente pi� che una bella donna. Il sapiente sa che nulla � vero e che la verit� assoluta si trova alla fine dei tempi. La scienza � amorale. Questo meraviglioso addentrarsi nell'ignoto ci disabitua dalla cura personale della nostra coscienza, anzi non ci concede neppure la soddisfazione di prenderla molto sul serio. E l'arte? Non � essa sempre la creazione di immagini che non coincidono con quelle della vita? Non parlo del falso idealismo o dell'inflazione di nudi in tempi in cui si vive vestiti fino alla punta del naso, - egli riprese celiando. - Ma pensa a una vera opera d'arte: non ti � mai sembrato, guardandola, di sentire l'odor di bruciaticcio che manda un coltello quando lo affili su una pietra? Un odore cosmico, di meteora, di temporale, divinamente angoscioso?". Robert Musil, L'uomo senza qualit�, p. 1089. Che cosa c'� alla fine dei tempi? Se uno dei miei studenti liceali un giorno mi chiedesse che cos'� la scienza, a me che insegno letteratura, non esiterei a rispondere che noi, nel nostro piccolo, lui con la sua domanda ed io che tento una risposta, stiamo facendo opera di scienza, cio� stiamo cercando di capire qualcosa del mondo che ci circonda. Poich� nell'insegnamento � inevitabile procedere ex noto ad ignotum, richiamerei alla memoria del mio studente la famosa perifrasi astronomica di Dante, sulla quale a lungo ci siamo fermati a riflettere: "Gi� era 'l sole all'orizzonte giunto/ lo cui meridian cerchio coverchia/ Ierusal�m nel suo pi� alto punto;/ e la notte, che opposita a lui cerchia,/ uscii di Gange fuor con le Bilance,/ che le caggion di man quando soverchia;/ s� che le bianche e le vermiglie guance,/ la dov'i' era, de la bella Aurora/ per troppa etade divenivan rance." (Dante Alighieri, Purgatorio II, vv. 1-9). Non � solo cornice. Dante evoca il sapere geografico medievale al fine di precisare il proprio essere nel mondo, la posizione particolare nella quale si trova il viandante che ha una missione ben precisa da compiere. A tal fine, bisogna stabilire il tempo e il luogo nel quale si colloca il viaggio ultraterreno, facendo ricorso al sapere geografico aristotelico-tolemaico messo al servizio della teologia. La teologia, ovvero la massima scienza del Medioevo, quel sapere che oggi si � ritirato nei seminari ecclesiastici e di cui a scuola si sente ben poco parlare, aveva lo stesso rango delle scienze fisico-matematiche in et� moderna. Quante cose bisogna conoscere per comprendere che il cammino purgatoriale di Dante incomincia quando il sole sta sorgendo sull'orizzonte del purgatorio! Le terre emerse e abitate occupano la superficie della terra per un'estensione di 180 gradi nell'emisfero boreale. Gerusalemme � il centro di questo emisfero; il Gange � considerato come il confine orientale della terra abitata e Cadice quello occidentale; sicch� se il sole � allo zenit di Cadice e tramonta invece sull'orizzonte di Gerusalemme, e la notte � allo zenit del Gange, la montagna del purgatorio, che si trova agli antipodi di Gerusalemme, non potr� che essere illuminata dai raggi del sole nascente. L� � Dante, in compagnia del suo maestro Virgilio, in quel punto preciso dell'universo e in quel tempo preciso, da l� parte il cammino di purificazione che lo condurr� a Beatrice, l'allegoria della teologia. Sulla soglia dell'evo moderno, Dante � l'ultimo uomo dell'antichit�, nel quale il sapere poetico si nutre di quello scientifico, � un tutt'uno con esso, non se ne distingue affatto, in particolare laddove raggiunge l'apice delle sue potenzialit� nella visione di Dio. "Nel suo profondo vidi che s'interna,/ legato con amore in un volume,/ ci� che per l'universo si squaderna:/ sustanze e accidenti e loro costume/ quasi conflati insieme, per tal modo/ che ci� ch'i' dico � un semplice lume." (Dante Alighieri, Paradiso XXXIII vv. 85-90). Tutto in un punto, verrebbe da dire, richiamando il titolo di una celebre novella di Italo Calvino, di cui si dir� pi� avanti. E allo stesso modo, mi risuonano nella mente le parole di Vladimir Nabokov, quando scrive in Parla, ricordo che "tutta la poesia indica una posizione: cercare di esprimere la propria posizione nei confronti dell'universo abbracciato dalla coscienza � un impulso antichissimo. (...) mentre lo scienziato vede tutto ci� che accade in un punto dello spazio, il poeta sente tutto ci� che accade in un punto del tempo" (Nabokov, 2010, p. 236). Parafrasando Nabokov, si potrebbe dire che, nella conclusione della Divina Commedia, Dante ci mostra contemporaneamente la visione dello scienziato e il sentire del poeta, egli vede e sente in Dio, pur coi limiti della mente umana, ci� che accade in un punto dello spazio e del tempo, senza alcun residuo incompreso, nessuna scissione o contraddizione tra vedere e sentire. La condensazione o fusione di scienza (teologia) e poesia � totale, nel segno poetico del verosimile espresso dall'"alta fantasia" del poeta. Quando � iniziata la differenziazione, quando lo scienziato ha creduto di dover proseguire da solo per la sua strada, separandosi dal poeta? Quando, per dirla con Nabokov, lo scienziato ha cominciato a vedere tutto ci� che accade in un punto dello spazio e il poeta a sentire tutto ci� che accade in un punto del tempo? Uno scienziato non deve avere ribrezzo di nulla Il 12 marzo 1610 Galileo Galilei pubblica il Sidereus nuncius, nel quale comunica al mondo le sue importanti scoperte astronomiche. Lasciamo a uno scrittore nostro contemporaneo, Antonio Prete, il racconto (ne L'imperfezione della luna) di quanto si verific� nel gennaio 1610, quando per la prima volta Galilei sollev� al cielo il cannocchiale: "L'imperfezione della luna. Lei, la pi� prossima a noi tra gli infiniti corpi celesti, aveva fino a quel momento ingannato le umane viste. All'apparenza cos� nitida, cos� quietamente soddisfatta della sua luce verde, dei suoi nascondimenti dietro nuvole adoranti, in quella notte di fine gennaio milleseicentodieci, osservata con lo strumento del cannocchiale come fosse distante appena due semidiametri terrestri, mostrava le due parti della sua faccia, la chiara e l'oscura, per quel che veramente erano: se la parte chiara pareva circondare e cospargere di s� tutto l'emisfero, la parte oscura mostrava non solo le macchie che gli antichi gi� avevano visto, ma altre macchie prima mai scorte, e queste macchie indicavano, per la loro profondit� e diseguaglianza, che la superficie lunare non era affatto liscia, uniforme e di sfericit� esatta, ma al contrario scabra, ripiena di cavit�, di rilievi, di avvallamenti, simile in questo alla faccia della terra." (Prete, 2000, p. 89.) Nel secondo canto del Paradiso Dante aveva ricondotto la causa delle macchie lunari ad un principio metafisico, secondo il quale la luminosit� maggiore o minore di una stella � dovuta alla maggiore o minore letizia dell'intelligenza angelica che la muove. Galilei vede col cannocchiale che le cosiddette macchie lunari sono invece l'effetto visivo prodotto da una materia del tutto uguale a quella terrestre e comprende che nessun corpo diafano abita il cosmo ma corpi simili ai nostri, altrettanto imperfetti, il che vuol dire che l'intero universo va riconsiderato e studiato secondo nuovi parametri di giudizio, da cui nascer� un uomo nuovo ed un pensiero nuovo. Questa scoperta cambia la relazione dell'uomo con l'universo, restituendogli il senso preciso del suo limite, il suo essere finito e imperfetto, in tutto simile a quelle dei corpi celesti, un tempo pensati come composti da materia incorruttibile. Scrive Prete: "Poi nell'onda del suo dubitare s'impose un altro, pi� forte convincimento: l'imperfezione lunare � benefica, perch� cancella l'alibi di un altrove perfetto, di un perfetto compimento che ne compensi le mancanze. Inoltre rende pi� vera l'idea che nell'anima nostra ci sia un qualche riflesso del cielo esteriore, con le sue profondit� inesplorate, con i suoi moti irregolari, imprevedibili. � insomma possibile, che un lembo di cielo tremi nel sempreguale specchio degli affanni" (Prete, 2000, p. 91). Nessuno potr� mettere in dubbio la visione di Galilei; e Antonio Prete ci spiega il senso che occorre trarre dalla scoperta: il ripudio di qualsiasi concezione eroica dell'uomo e la certezza della sua finitudine: noi siamo fatti della stessa pasta imperfetta dell'universo. Con Galilei lo scienziato vede e ci� che egli vede non pu� essere smentito. Infatti, come ci ricorda �mile Benveniste ne Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 1976, p. 414, "la testimonianza della vista � irrefutabile; � la sola irrefutabile". Il poeta invece esercita la sua "fantasia", e cos� facendo certamente potr� essere ascoltato, ma non dovr� arrogarsi il diritto di essere creduto. In Il Saggiatore 6, polemizzando con il Sarsi, ovvero padre Orazio Grassi, Galilei afferma: "forse [il Sarsi] stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d'un uomo, come l'Iliade e l'Orlando furioso, libri ne' quali la meno importante cosa � che quello che vi � scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non ist� cos�. La filosofia � scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l'universo), ma non si pu� intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali � scritto. Egli � scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi � impossibile a intenderne umanamente parola, senza questi � un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto" (Galileo Galilei, 1953, p. 121). Certo, molta acqua � passata sotto i ponti della storia dai tempi di Dante e un nuovo mondo sta nascendo sulle ceneri dell'aristotelismo; ma in Galilei rimane ferma la distinzione tra quanto si pu� accertare attraverso la "lingua matematica", su cui non si pu� dubitare, in quanto ci� che � detto � passibile di verifica e dimostrazione ("il vero"), e quanto � raccontato nei poemi antichi e moderni, per i quali altro � il metro di misura, altra � la "importante cosa", non certo la verit� matematica. Un linguaggio particolare, quello matematico, ha preso il posto della scienza, sembra essere diventato esso stesso scienza, espellendo ogni altro linguaggio, ogni altro sapere. Come il linguaggio della scienza medievale era quello della teologia, cos� il linguaggio della scienza moderna sar� quello matematico. Quattro secoli dopo, Albert Einstein nei Pensieri degli anni difficili conferma quanto Galilei aveva gi� detto: "La scienza rappresenta il tentativo di far corrispondere la variet� caotica della nostra esperienza sensibile a un sistema di pensiero logicamente uniforme. In questo sistema le singole esperienze debbono essere correlate alla struttura teorica in maniera tale che la coordinazione risultante sia unica e convincente. (...) Ci� che noi chiamiamo fisica comprende quel gruppo di scienze naturali che fondano i loro concetti sulle misure e i cui concetti e proposizioni si prestano a una formulazione matematica. Il suo dominio, di conseguenza, � definito come quella parte del complesso della nostra conoscenza che � suscettibile di venir espressa in termini matematici. Con il progresso della scienza, il dominio della fisica si � espanso in modo tale da sembrare ormai limitato soltanto dalle limitazioni del metodo stesso" (Einstein, 1974, pp. 114-115). L'"esperienza sensibile", come scrive Einstein, deve corrispondere ad un "pensiero logicamente uniforme", che in fisica si esprime attraverso la matematica. Per tornare a Galilei, in lui non c'� solo il matematico puro, ma anche colui che coltiva il sapere tecnologico, assunto a strumento imprescindibile della nuova visione dell'universo; senza il cannocchiale infatti potremmo vedere ben poco. Volgendo al cielo il cannocchiale nel gennaio 1610 Galilei ha affermato che la matematica da sola non poteva bastare, ma andava congiunta alla tecnologia in grado di potenziare i sensi dell'uomo, e che la loro congiunzione sarebbe stata decisiva nella conoscenza del mondo. Un coltello affilato su una pietra, ovvero che cos'� la tecnica Per dire che cos'� la tecnica, vorrei riportare la storia de La morte di Archimede raccontata dallo scrittore ceco, Karel Capek (1890-1938), che di quella morte d� una suggestiva interpretazione. Siamo nel 212 a.C., a Siracusa, attaccata e sconfitta dopo lungo assedio dai romani: "� che la storia di Archimede non and� proprio come � stato scritto; � vero s� che fu ucciso quando i romani presero Siracusa, ma non � esatto dire che entr� in casa sua un soldato romano per saccheggiarla e che Archimede, intento a disegnare una qualche costruzione geometrica, gli ringhi� con aria scontrosa: "Non mi rovinare i miei cerchi!". In primo luogo Archimede non era affatto un distratto professore che non sa quel che gli succede intorno; anzi, era per sua natura un autentico soldato, che aveva progettato per Siracusa delle valide macchine da guerra, destinate alla difesa della citt�; in secondo luogo poi, il soldatino romano non era affatto un predone ubriaco, ma un colto ed ambizioso capitano di stato maggiore, Lucius, che sapeva bene con chi aveva l'onore di parlare, e non era venuto per saccheggiare, ma sulla soglia fece il saluto militare e disse...". (Capek, 2007, p. 255). Capek immagina con ogni verosimiglianza che il generale romano Lucius, al corrente non solo della fama di Archimede, ma anche degli effetti deleteri delle macchine da guerra da lui costruite; abbia voluto cooptare Archimede nella realizzazione del grandioso progetto imperiale romano e che in cambio abbia ricevuto un netto rifiuto. Lo scienziato-soldato Archimede rifiuta di mettere la scienza, e in particolare la sua capacit� di tradurre in tecnologia bellica la scienza, a disposizione del nemico, e muore perch� rimane fedele alla polis che aveva contribuito a difendere con le sue invenzioni. Lucius avrebbe fatto volentieri a meno di uccidere Archimede, ma non pot� esimersi dal farlo perch� Archimede rifiutava la collaborazione col vincitore romano. Qui sono in gioco due forze: la prima � la tecnica, generata per un fine di carattere pratico ("datemi una leva e sollever� il mondo"); la seconda � il potere della polis, che utilizza la tecnica al fine della propria conservazione e, se possibile, del proprio accrescimento. In un frangente cos� drammatico, la caduta di Siracusa e la morte di Archimede, la scienza pura, quella che gli antichi chiamavano epist�me, rimane dietro le quinte come puro pensiero, utile solo a generare la tecnica. A ben guardare, per�, qui � in gioco una terza forza, senza la quale nulla potrebbe essere detto riguardo al nostro tema: la letteratura. � lapalissiano che quanto si � fin qui appreso si deve al racconto della morte di Archimede scritto da Capek, che riprende e reinterpreta il racconto degli antichi; lo fa in chiave del tutto moderna, come chi ha conosciuto gli orrori della guerra, almeno quelli della prima guerra mondiale (il racconto fu pubblicato per la prima volta nel 1932); e tanto era bastato a fargli comprendere l'importanza della tecnica nel decidere le sorti di qualsiasi conflitto. Come si � detto, nel racconto di Capek non si parla di scienza se non in quanto essa produce una tecnica in grado di realizzare macchine belliche. Ma che cos'� in realt� la tecnica? Ecco cosa ne dice Umberto Galimberti in Psiche e techne. L'uomo nell'et� della tecnica: "Rispetto all'ordine sapienziale, la tecnica inaugura un nuovo tipo di sapere, che oggi siamo soliti chiamare ragione strumentale, la cui competenza � data dal suo limite. Ci� che essa conosce � infatti solo la congruit� dei mezzi ai rispettivi obiettivi, mentre ci� che non conosce e intorno a cui � incompetente � se gli obiettivi devono essere perseguiti oppure no" (Galimberti, 2002, p. 262). "Rispetto all'ordine sapienziale", cio� rispetto all'epist�me degli antichi, la tecnica opera come "ragione strumentale" tesa a raggiungere un obiettivo pratico immediato; una forza tremenda e irresponsabile, che dunque pu� cadere nelle mani di chiunque e diventare strumento efficacissimo destinato a realizzare qualsiasi progetto, buono o cattivo che sia, perch� essa non sa "se gli obiettivi devono essere perseguiti oppure no". La storia della morte di Archimede ci ricorda che al potere non importa minimamente salvare lo scienziato se non nella misura in cui lo scienziato traduce l'epist�me in tecnologia, cio� quanto occorre per il consolidamento e il potenziamento del dominio sul mondo; e nel momento in cui lo scienziato non � disposto a collaborare, il potere lo uccide. Se non ci fosse un sapere etico in grado di tenere a bada (fino a che punto?) questa forza, i suoi effetti potrebbero essere addirittura mostruosi, come la storia ha tante volte dimostrato. Scrive ancora Galimberti: "A differenza dell'uomo, inoltre, la tecnica non si propone fini, perch� il suo incedere � un crescere sui propri risultati, che non hanno in vista alcuna meta da raggiungere se non il proprio potenziamento. La tecnica non redime, non salva, semplicemente cresce" (Galimberti, 2002, pp. 497-498). L'uomo ha dunque creato una forza immane che egli stesso continua a incrementare, non in vista di un fine, ma semplicemente perch� � incapace di fermarne la crescita, che � divenuta fine a se stessa, come si evince anche dal discorso economico dominante in cui la parola chiave � appunto crescita. La tecnica appare come un gigante senza cervello che pi� avanza pi� cresce, cibandosi di tutte le brame, le paure, le incertezze, le debolezze, e diventando cos� la rappresentazione plastica della hybris dell'uomo contemporaneo. Essa risponde infatti alla pressante richiesta di conforto dell'uomo che, gettato nel mondo, trova in essa un facile anche se inutile appiglio. Ma "la tecnica non redime, non salva, semplicemente cresce". Pertanto, prosegue Galimberti, "Occorre evitare che l'et� della tecnica segni quel punto assolutamente nuovo nella storia, e forse irreversibile, dove la domanda non � pi�: "Che cosa possiamo fare noi con la tecnica?", ma: "Che cosa la tecnica pu� fare di noi?" (Galimberti, 2002, p. 715). Bisogna fermare in qualche modo una tale crescita irrazionale che l'uomo produce, ma perch� ci� accada deve aver luogo una vera e propria rivoluzione antropologica, di cui per ora non si vedono i segni, sicch� tutti i discorsi sulla questione assumono inevitabilmente le sembianze del velleitarismo o dell'utopia. Naturalmente non si tratta di pensare a una regressione tecnologica, bens� ad un autentico progresso tecnologico che metta al servizio dell'uomo la strumentazione di cui finora egli si � dotato e che oggi appare sottomettere l'uomo stesso. Potere, tecnica, etica: la scienza � amorale? L'attuale assetto economico e politico del mondo � dominato da una serie di dispositivi tecnologici che spingono verso il potenziamento del gigante senza cervello che � la tecnica. Il finanzcapitalismo � il sistema economico e sociale entro il quale la tecnica cresce ad infinitum, minacciando ogni altro approccio alla realt�. Ecco la definizione che del finanzcapitalismo d� Luciano Gallino in Finanzcapitalismo. La civilt� del denaro in crisi: "Il finanzcapitalismo � una mega-macchina che � stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi. L'estrazione di valore tende ad abbracciare ogni momento e aspetto dell'esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all'estinzione. Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della societ�, della natura e della persona" (Gallino, 2011, p. 5). Gallino spiega bene che cosa sia una mega-macchina: "Mega-macchine sociali: cos� sono state definite le grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come componenti o servo-unit�. Mega-macchine potenti ed efficienti di tal genere esistono da migliaia di anni. Le piramidi dell'antico Egitto sono state costruite da una di esse capace di far lavorare unitariamente, appunto come parti di una macchina, decine di migliaia di uomini per generazioni di seguito. Era una mega-macchina l'apparato amministrativo-militare dell'impero romano. Formidabili mega-macchine sono state, nel Novecento, l'esercito tedesco e la burocrazia politico-economica dell'Urss" (Gallino, 2011, p. 5). Nel mondo solo apparentemente caotico nel quale viviamo, la mega-macchina del finanzcapitalismo produce un'ideologia dominante che impone di rinunciare a una visione critica delle cose e di affidarsi esclusivamente alla tecnica, che sembra risolvere tutti i nostri problemi, come se la tecnica fosse essa stessa la scienza del presente. Lo sa bene Emanuele Severino quando scrive ne Il destino della tecnica: "Scienza e tecnica formano ormai un'unit� organica. La loro distinzione o separazione presuppone che la scienza abbia ancora il carattere dell'epist�me, cio� sia conoscenza di verit� incontrovertibili che la tecnica si limiterebbe ad "applicare" con un indice pi� o meno elevato di successo pratico. Ma col tramonto dell'epist�me le teorie scientifiche non possono essere adottate per la loro verit� innegabile, ma perch� consentono una potenza, cio� un dominio sulla realt� superiore a quello delle teorie concorrenti, s� che il criterio della scientificit� di una teoria viene a coincidere col criterio del suo successo pratico, cio� col criterio che � proprio della tecnica. La distinzione tra scienza e tecnica � la distinzione tra due forme di tecnica" (Severino, 1998, p. 184). Questa sostanziale indistinzione tra scienza e tecnica per Severino � il risultato del tramonto dell'epist�me antica che nutriva l'illusione di poter dominare la tecnica, mentre, invece, per una inversione dei ruoli, il mezzo � diventato lo scopo: "Se le grandi forze della cultura e della civilt� tradizionale s'illudono ancora di potersi servire della tecnica come di un semplice e docile strumento per la produzione dei loro scopi, la tecnica � destinata a servirsi di quelle forze, a dominarle e a diventare, da semplice mezzo che esse credono di controllare e guidare, il loro scopo supremo, perch� essa � ormai la suprema forza salvifica dell'umanit�. Pu� persino proporsi di costruire in terra quel paradiso che le religioni promettono invano. E chi vuol salvarsi � costretto a volere, prima ancora della propria salvezza, la potenza del proprio salvatore. S� che alla fine � questa potenza a divenire lo scopo supremo di chi vuol salvarsi, e dunque, esser pi� che il semplice mezzo per la realizzazione della salvezza. Accade con la tecnica quanto � gi� accaduto con Dio: si comincia a rivolgersi al salvatore per essere salvati e si finisce col volere che sia fatta la sua volont�: la volont� di Dio, la volont� della Tecnica" (Severino, 1998, pp. 209-210). La scienza del presente � dunque la tecnica come nel Medioevo era la teologia. Severino riassume bene l'ideologia del finanzcapitalismo, che eleva la tecnologia al rango di scienza. Pertanto, vale qui il richiamo di Paul K. Feyerabend che in Ambiguit� e armonia. Lezioni trentine ci esorta a diffidare di ogni totalitarismo in campo scientifico: "Un'idea che sta aleggiando su di noi, e verso la quale mi piacerebbe che imparassimo ad avere un approccio pi� rilassato � quella che la scienza ci dica tutto ci� che ci sia da sapere sul mondo e che le idee in contrasto con la scienza non siano degne di essere prese in considerazione (...). A quanto pare la scienza � una forza irresistibile. E lo � davvero, ma solo se si crede nelle sue promesse e se si diviene succubi delle "pubbliche relazioni" promosse dalla mafia scientifica. � irresistibile se le � permesso di essere tale" (Feyerabend, 2009, p. 395). Che fare, allora? La risposta di Feyerabend � molto pragmatica: "Si pu� decidere di assumere la scienza come guida non solo nelle faccende pratiche, ma anche in questioni di significato, ideologia o contenuto della vita. Ma si pu� anche decidere di farsi guidare dalla scienza solo nelle questioni pratiche - e qui la scienza ha dato ottimi risultati, anche se solo fino a un certo punto - e di costruire il resto della propria concezione del mondo partendo da fonti totalmente differenti" (Feyerabend, 2009, p. 396). Massima libert�, dunque, nell'approccio dell'uomo alla realt�. Resta fermo, per�, il rifiuto di affidarsi a un'unica voce per la comprensione del mondo. � di Feyerabend la definizione della scienza come "mostro" da cui bisogna guardarsi: "Il mostro unitario della SCIENZA, che parla con un'unica voce, � un collage messo insieme da propagandisti, riduzionisti e educatori" (Feyerabend, 2009, p. 397), cio� quelle persone che ruotano intorno al sistema finanzcapitalistico e sono i portavoce pi� convinti dell'ideologia che questo sistema ha elaborato e diffuso in tutti campi del sociale, dalle scuole alle universit�, dagli ospedali ai luoghi di lavoro, soffocando la libera ricerca e il pensiero critico. Il gigante senza cervello in realt� ha una testa, e questa testa ha elaborato un'ideologia che fa della scienza, di questa scienza asservita al finanzcapitalismo, e da esso finanziata, il pensiero unico dominante contemporaneo, gi� prefigurato e atteso e direi invocato nell'Ottocento dal campione della filosofia positiva Auguste Comte, che cos� scriveva nel suo Corso di filosofia positiva: "Quando la stessa condizione intellettuale [quella derivante dall'influsso della filosofia positiva applicata alla politica e alla societ�] sar� stata infine soddisfatta anche relativamente ai fenomeni sociali, essa vi produrr� necessariamente conseguenze analoghe, facendo penetrare nella ragione pubblica i germi salutari di una consapevole rassegnazione politica, generale o particolare, provvisoria o indefinita. (...) Nessuno spirito giusto temer� d'altronde che una stupida apatia possa mai risultare da questa rassegnazione razionale, che non ha affatto il carattere passivo della rassegnazione religiosa. Poich� una simile filosofia non impone una sottomissione abituale che alla necessit� pienamente dimostrata..." (Comte, 2008, pp. 145-146). Il sogno positivistico-totalitario di Comte, oggi, in un'epoca di diffusa "consapevole rassegnazione politica" o "rassegnazione razionale" o ancora "sottomissione abituale" al dominio della tecnica, sembra essersi realizzato. Si consideri il modo in cui, polemizzando con Czeslaw Milosz, Feyerabend descrive "le scienze di oggi": "Le scienza di oggi sono imprese di affari gestite con criteri di business aziendali; pensate soltanto alla contrattazione per il finanziamento del progetto Genoma e dell'acceleratore di particelle texano. La ricerca nei grandi istituti non � guidata dalla Ragione e dalla Verit�, ma dalla moda pi� remunerativa e le Grandi Menti del nostro tempo si volgono sempre pi� spesso verso la direzione che prende il denaro, il che da molto tempo significa: verso la ricerca militare. Nelle nostre universit� non si insegna la "Verit�", ma l'opinione delle scuole di pensiero pi� influenti" (Feyerabend, 2009, p. 421). Questo il quadro desolato che Feyerabend traccia delle scienze nel mondo attuale; un quadro nel quale la tecnica � al servizio di un sistema di potere fondato su un apparato militare-industriale, per il mantenimento e accrescimento del quale sono spese tutte le risorse del pianeta. � "il sistema tecnocratico" di cui parla Konrad Lorenz nel suo celebre Il declino dell'uomo: "La tecnica minaccia di diventare il tiranno della societ� umana: per questo diamo all'ordine sociale attualmente dominante il nome di "Sistema tecnocratico". Un'attivit� che per sua essenza dovrebbe essere "mezzo" in vista di uno scopo � diventata fine a se stessa. Si sopravvalutano i rami del sapere che stanno a fondamento degli sviluppi tecnologici, mentre ogni altro ramo del sapere viene sottovalutato. La mentalit� di tipo scientistico (capitolo terzo), con tutti i suoi effetti perversi, � in rapporto di rafforzamento reciproco con lo sviluppo della tecnocrazia. Il sistema tecnocratico � cos� complesso che comprendere esattamente in tutti i particolari la sua struttura e il suo funzionamento � a priori impossibile. Dobbiamo avere chiaro fin dall'inizio che lo spirito umano ha creato un sistema tanto complesso che la complessit� dello spirito � insufficiente ad abbracciare la complessit� del sistema da esso creato" (Lorenz, 2010, pp. 559-560). Quella che nei primi anni Ottanta del secolo scorso Lorenz considerava una "minaccia" oggi, nel tempo di internet, � una realt� consolidata. Nulla oggi sfugge al sistema tecnologico, tanto che consideriamo una pia illusione quella di chi immaginava che l'etica potesse un giorno correggere le storture del sistema e riservava alla tecnica un ruolo positivo e ancillare. Penso a quanto andava scrivendo Carlo Emilio Gadda negli anni Quaranta del secolo scorso in Eros e Priapo (da furore a cenere) a proposito dei rapporti tra tecnica e etica: "La tecnica (in senso lato) e l'etica (in senso lato) le sono germane l'una all'altra: ma la prima pi� piccinina e fantolina mencia, la seconda la � donna e signora: ch� una forbitezza tecnica, cio� il bene comportarsi, abluirsi, pettinarsi, il badar molino o cavalli o mercati, o scioglier vele, il montare bene in tramme, si sale dietro si scende avanti, l'andare premurosi le Messe o il pagar volentieri le tasse, tutto sto servire e destreggiar la vita di tra Scilla d'appetiti e Caribdi d'ogni migragna, di tra Cesare e Cristo, � come l'introduzione a quel maggior grado di coscienza morale e civile che � l'etica, che l'� in generale la disciplinata osservanza di una ragione collettiva e il senso di una propria missione umana" (Gadda, 1998, pp. 365-366). Gadda ripropone il sogno umanistico di un rapporto razionale tra tecnica ed etica, la prima propedeutica alla seconda, nell'aspettativa di una societ� ordinata e civile, ovvero l'esatto opposto della societ� nella quale all'autore capit� di vivere, funestata da ben due guerre mondiali, durante le quali la tecnica ha fatto la sua prova generale, imponendo il proprio dominio sul mondo, mentre l'etica ha cercato scampo dalle bombe. Ma appunto quello di Gadda � un sogno nel quale si fondono desiderio d'ordine e utopia civile, un sogno che oggi, nel mondo dominato dall'ideologia del finanzcapitalismo, possiamo solo continuare a sognare. Immagini che non coincidono con quelle della vita Il mondo � molto pi� vasto e vario di quel che il pensiero unico dominante vorrebbe far credere; e in questa vastit� gli uomini, isolati o a gruppi, hanno continuato a indagare spinti dalla curiosit� e dall'amore per il sapere; e la letteratura ha sempre fatto valere il desiderio di conoscenza, appropriandosi dei risultati parziali, mai definitivi delle scienze, attraverso un punto di vista particolare, quello che Galilei definiva come la "fantasia" dei poeti. Ma siamo sicuri che questa "fantasia" sia meno reale del mondo fisico? Scrive in proposito Lorenz nel gi� citato Il declino dell'uomo: "A ogni fenomeno, sia che provenga dalla percezione della realt� esterna al soggetto, sia che provenga dalle emozioni e dai sentimenti che sono dentro di noi, corrisponde qualcosa di reale. Non � affatto vero, dunque, che sia reale soltanto ci� che � definibile in senso fisicalista e verificabile con procedimenti quantitativi" (Lorenz, 2010, p. 618). La letteratura, in quanto fenomeno reale, sebbene sia stato fatto di tutto per imbrigliarla in schemi analitici strutturalisti, sfugge tuttavia ad una comprensione "fisicalista e verificabile con procedimenti quantitativi"; ed � proprio alla letteratura che vogliamo dare l'ultima parola, certamente anche questa non definitiva, sulla conoscenza del mondo e del posto che l'uomo vi occupa. Penso ad una delle pi� belle Novelle per un anno di Luigi Pirandello intitolata Una giornata, in cui il protagonista, "buttato fuori dal treno in una stazione di passaggio", fa esperienza della propria alienazione e di come la sua vita sia trascorsa senza che se ne accorgesse: "Strappato dal sonno, forse per sbaglio, e buttato fuori dal treno in una stazione di passaggio. Di notte; senza nulla con me. Non riesco a riavermi dallo sbalordimento. Ma ci� che pi� mi impressiona � che non mi trovo addosso alcun segno della violenza patita; non solo, ma che non ne ho neppure un'immagine, neppure l'ombra confusa d'un ricordo. Mi trovo a terra, solo, nella tenebra di una stazione deserta; e non so a chi rivolgermi per sapere che m'� accaduto, dove sono" (Pirandello, 1997, p. 782). La potenza visionaria di Pirandello ci mostra la condizione dell'uomo moderno "gettato" improvvisamente nel mondo, proprio alla maniera pensata da Martin Heidegger in Essere e tempo, cap. 29, "l'esser gettato di questo ente nel suo Ci" (M. Heidegger, 2005, p. 168). In Pirandello l'uomo si trova "gettato" nel mondo ed ha perso col ricordo la sua stessa identit�, non riconosce la sua citt�, la sua donna, la famiglia, i figli e i nipoti e sperimenta la relativit� del tempo e dello spazio nell'arco di una giornata, nella quale l'intero corso della sua vita si conclude: "Seduto, li guardo, li ascolto; e mi sembra che mi stiano facendo in sogno uno scherzo. Gi� finita la mia vita? E mentre sto a osservarli, cos� tutti curvi attorno a me, maliziosamente, quasi non dovessi accorgermene, vedo spuntare nelle loro teste, proprio sotto i miei occhi, e crescere, crescere non pochi, non pochi capelli bianchi. Vedete, se non � uno scherzo? Gi� anche voi, i capelli bianchi. E guardate, guardate quelli che or ora sono entrati da quell'uscio bambini: ecco, � bastato che si siano appressati alla mia poltrona: si son fatti grandi; e una, quella, � gi� una giovinetta che si vuol far largo per essere ammirata. Se il padre non la trattiene, mi si butta a sedere sulle ginocchia e mi cinge il collo con un braccio, posandomi sul petto la testina. Mi vien l'impeto di balzare in piedi. Ma debbo riconoscere che veramente non posso pi� farlo. E con gli stessi occhi che avevano poc'anzi quei bambini, ora gi� cos� cresciuti, rimango a guardare finch� posso, con tanta tanta compassione, ormai dietro a questi nuovi, i miei vecchi figlioli. (Pirandello, 1997, p. 788). In un giorno (ma tutto avrebbe potuto svolgersi in un solo istante) si esaurisce la vita dell'uomo e sembra che presente, passato e futuro non esistano pi�, e che i luoghi si contraggano e diventino irriconoscibili. Pirandello descrive benissimo la condizione umana nell'epoca segnata dalla teoria della relativit� di Einstein, come Dante aveva descritto benissimo la condizione del pellegrino oltremondano nell'epoca dominata dalla scienza teologica. L'uomo privo di identit�, di ricordi, completamente alienato, � il ritratto dell'uomo contemporaneo quale risulta dal dominio di una scienza-tecnica i cui scopi gli sono divenuti estranei. L'approccio tragico al mondo attuale di Pirandello diventa parodico in Italo Calvino. Nelle Cosmicomiche del 1965 rileggo la novella, gi� sopra citata, Tutto in un punto, nella quale lo scrittore racconta a modo suo il big bang come era stato ipotizzato dall'astrofisico statunitense Edwin P. Hubble (1889-1953): "Si capisce che si stava tutti l� - fece il vecchio Qfwfq, - e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando l� pigiati come acciughe? Ho detto "pigiati come acciughe" tanto per usare un'immagine letteraria: in realt� non c'era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto di ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un unico punto che era quello in cui stavamo tutti. Insomma, non ci davamo nemmeno fastidio..." (Calvino, 1992, p. 118). Tra tutti i personaggi del racconto spicca la signora Ph(i)NKO, "la sola che nessuno di noi ha mai dimenticato e che tutti rimpiangiamo": "la signora Ph(i)NKO, il suo seno, i suoi fianchi, la sua vestaglia arancione, non la incontreremo pi�, n� in questo sistema di galassie n� in un altro" (Calvino, 1992, p. 120). � lei la vera artefice del big bang originario e del moto espansivo dell'universo: "Si stava cos� bene tutti insieme, cos� bene, che qualcosa di straordinario doveva pur accadere. Bast� che a certo momento lei dicesse: - Ragazzi, avessi un po' di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle! - E in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi avanti e indietro con il mattarello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul gran mucchio di farina e uova che ingombrava il largo tagliere mentre le sue braccia impastavano, impastavano, bianche, unte d'olio fin sopra il gomito; pensammo allo spazio che avrebbero occupato la farina, e il grano per fare la farina, e i campi per coltivare il grano, e le montagne da cui scendeva l'acqua per irrigare i campi, e i pascoli per le mandrie dei vitelli che avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto perch� il sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perch� dalle nubi di gas stellari il Sole si condensasse e bruciasse; alle quantit� di stelle e galassie e ammassi galattici in fuga nello spazio che ci sarebbero volute per tener sospesa Ogni galassia Ogni nebula Ogni sole Ogni pianeta, e nello stesso tempo del pensarlo questo spazio inarrestabilmente si formava, nello stesso tempo in cui la signora Ph(i)NKO pronunciava quelle parole: - ... le tagliatelle, ve', ragazzi! - il punto che conteneva lei e noi tutti s'espandeva in una raggiera di distanze d'anni-luce e secoli-luce e miliardi di millenni-luce e noi sbattuti ai quattro angoli dell'universo..." (Calvino, 1992, pp. 122-123). La signora Ph(i)NKO, "lei dissolta in non so quale specie d'energia luce calore", il suo "slancio generoso", "un vero slancio d'amore generale", ecco l'Origine dell'universo, la nascita di tutto ci� che �. Penso alla Venere di Lucrezio, Aeneadum genetrix, che passa nel mondo e diffonde dappertutto la brama di amare e procreare, secondo necessit� naturale: "ita capta lepore/ te sequitur cupide quo quamque inducere pergis: cos�, preso da incanto, ti segue con desiderio Ogni animale, l� dove sempre lo spingi" (De rerum natura I vv. 15-16). La Venere di Lucrezio � il simbolo della forza vivificante della natura che si rinnova ad Ogni primavera e diffonde nel mondo il piacere di vivere; la signora Ph(i)NKO, invece, � la creatrice parodica primordiale del mondo e lascia negli uomini il grande rimpianto di s�, sempre rinnovato da "una specie d'energia luce calore" diffusa nell'universo. Sicch�, fuor di metafora, viene da chiedersi: che cosa l'uomo contemporaneo ha perduto? Che senso ha il suo rimpianto? Se uno dei miei studenti liceali un giorno mi chiedesse che cos'� la scienza, a me che insegno letteratura, gli risponderei che forse la scienza � tutta nel rimpianto di quanto abbiamo perduto e nel tentativo di riacquistarlo. L'azione dell'uomo penetra in territorio ignoto, dove � sempre in agguato una forza inumana che cerca di fare della tecnica una potenza indiscutibile, cui occorre resistere. Il potere dell'uomo sull'uomo � il potere della tecnica. Proprio perch� le vicende della storia mostrano la realt� ineludibile di questo potere, e i suoi effetti perversi, occorre che l'azione dell'uomo di scienza, Oggi, sia inscritta entro un orizzonte utopico ed etico, a salvaguardia della comune umanit�. La letteratura, come s'� visto, assolve al suo compito raccontando le vicende dell'uomo che accompagnano questa ricerca, il suo stato di profonda prostrazione come il rimpianto del tempo trascorso, la vita come � possibile che sia. Non � semplice testimonianza ma ricerca anch'essa dell'ignoto, comportante gli stessi pericoli, dentro lo stesso orizzonte utopico ed etico. Laddove la comprensione dell'uomo si fa piena, laddove si chiarisce meglio il senso della vita, direi al mio studente, inevitabilmente sentirai "un odore cosmico, di meteora, di temporale, divinamente angoscioso" (Musil), il segnale inequivocabile della vera letteratura, della vera scienza, senza distinzione. Casa Montesquieu (di Elena Del Savio, "Meridiani" n. 238/17) - Qui a La Br�de (Bordeaux) nacque, visse e scrisse l'autore del "De l'esprit des lois", fra i massimi esponenti dell'Illuminismo. Uno dei pi� grandi intellettuali del Settecento, che per� preferiva le vigne e i vini alla filosofia del diritto... - C'� un aspetto di Charles-Louis de Secondat, barone di La Br�de e di Montesquieu, che nei dizionari biografici e nei manuali di storia della filosofia viene solitamente sorvolato. Ed � la grande passione per la natura che il pensatore, storico e giurista francese ha coltivato durante tutta la vita, insieme con un attaccamento appassionato per il castello nella Gironda, la tenuta degli avi una ventina di chilometri a sud di Bordeaux. L� era nato il 18 gennaio del 1689 e l� probabilmente avrebbe terminato la propria vita, se all'inizio del 1755 non si fosse recato a Parigi dove, vittima di una non meglio specificata febbre, sarebbe morto il 10 febbraio dello stesso anno. In quel castello, immerso nella quiete campestre, l'uomo considerato fra i massimi rappresentanti del Secolo dei Lumi aveva passato tutto il proprio tempo libero. Fra quelle mura scrisse la sua opera maggiore, De l'esprit des lois (Lo spirito delle leggi), costatagli una ventina d'anni fra ricerche e stesura: pubblicata nel 1748, � una colossale summa del pensiero dell'autore sulla societ� e sul potere politico e giuridico, ancora oggi considerata fondamentale nei campi della teoria politica e del diritto comparato. In una lettera all'abate Ottaviano Guasco, amico e (forse) fra i traduttori in italiano del De l'esprit des lois, con il quale trattenne una fitta corrispondenza, Montesquieu descrive La Br�de come uno dei luoghi pi� gradevoli di Francia, in cui la natura "s'y trouve dans sa robe de chambre et au lever de son lit": come dire, � proprio di casa. Tutto gli piaceva di quel luogo: "L'aria, l'uva, i vini delle rive della Garonna, lo spirito guascone sono eccellenti antidoti alla malinconia", confidava in un'altra lettera. E cercava di trascorrerci pi� tempo possibile, fra i suoi impegni politici a Bordeaux e i viaggi in giro per l'Europa a raccogliere materiale per i propri scritti. Montesquieu invest� anche energia e denaro nello sviluppo dei possedimenti, con particolare attenzione ai vigneti e alla produzione vinicola, senza trascurare per� gli aspetti naturalistici, meno produttivi e pi� estetici. Se il titolo di barone di Montesquieu gli arriv� in eredit� nel 1716 alla scomparsa dello zio Jean-Baptiste de Secondat, che era succeduto al padre del filosofo (Jacques) morto nel 1713, quello di barone di La Br�de era gi� suo da quando era ancora un bambino, avendolo ottenuto dalla madre Marie-Fran�oise de Pesnel, deceduta nel 1696 a poco pi� di trent'anni. La prima menzione del dominio di La Br�de risale al 1079 ed � riferita a un episodio leggendario, un duello fra un Golia, un gigantesco campione dell'esercito di Navarra, e un Davide, il signore di La Lande (o Lalande) e di La Br�de. A vincere sarebbe stato ovviamente il novello Davide, ponendo fine a un presunto assedio di Bordeaux. Se c'era un signore di La Br�de, comunque, doveva esserci anche una residenza, probabilmente in legno. Il castello � citato per� per la prima volta in un documento del 1285. Dopo varie vicende - confische, distruzioni, saccheggi - e non pochi rimaneggiamenti nelle opere difensive e nella distribuzione dei corpi di fabbrica, nel XVI secolo il castello era accreditato come propriet� della famiglia Pesnel, che lo aveva ottenuto attraverso un matrimonio. Marie-Fran�oise, la madre di Montesquieu, lo port� in dote a Jaques de Secondat. Da allora La Br�de � rimasta fino al 2004 la residenza di famiglia degli eredi di Charles-Louis. Come pure i vigneti, nella zona a denominazione d'origine controllata delle Graves, che hanno prodotto fino al 2000 il bianco Ch�teau de La Br�de. La contessa Jacqueline de Chabannes, ultima discendente diretta di Montesquieu, ha lasciato tutto a una fondazione che porta il suo nome, la quale - pochi anni dopo - ha deciso di ripiantare le viti e ha affittato i terreni al vignaiolo Dominique Haverlan, che ha ampliato la produzione includendo due rossi e creando un altro bianco, l'Esprit de La Br�de. La casa invece era stata subito aperta al pubblico, pi� come destinazione culturale che come meta turistica, anche se il suo aspetto pittoresco - un edificio basso di forma poligonale, raccolto e munito di torri che emerge dal suo ampio fossato - ne fa quasi un castello di fiaba. Il semplice interno - con le stanze di dimensioni abbastanza ridotte e piene di ritratti di famiglia, le finestre dai vetri piombati policromi e i grandi camini - � stato mantenuto, secondo il desiderio dei successori del filosofo, il pi� possibile come doveva apparire ai suoi tempi. Infatti, la fama e l'ammirazione di cui Montesquieu godette in vita aveva fatto s� che, gi� a pochi anni dalla morte, la dimora divenisse oggetto di pellegrinaggi per uomini di cultura e politici, che si soffermavano nella stanza da letto e nella biblioteca ancora ricca di tutti i suoi volumi. Vi passarono anche molti letterati, dalla scrittrice tedesca Sophie von La Roche a Stendhal. La sistemazione degli ambienti risale al padre di Montesquieu, che ne fece la casa di famiglia: realizz� la pesante e cupa boiserie e trasform� in biblioteca la grande sala del primo piano. Il figlio dedic� invece gli interventi pi� significativi ai terreni di propriet� della famiglia, e lo fece con grande soddisfazione e orgoglio. Gli interni e gli arredi furono all'opposto un po' trascurati - nell'inventario stilato alla morte del filosofo si parla di mobili vecchi e malandati, senza alcuna traccia di pezzi di rappresentanza o di opere d'arte - e l'unico intervento sulla distribuzione dei locali fu lo spostamento, nella sua tarda et�, della propria stanza da letto dal piano superiore al piano terra (o forse la duplicazione della stessa: una sopra, poi destinata ad altri usi, e una sotto, rimasta com'era). La trasformazione del territorio circostante fu invece profonda. Non solo opere di irrigazione e drenaggio, per mettere la terra a coltivo, ma anche interventi estetici, con la creazione di grandi distese a prato e macchie di altifusti, un giardino con aiuole fiorite e un bosco ceduo. � singolare scoprire come l'uomo dal raffinato spirito speculativo forse pi� famoso del Settecento, avvezzo a letture di trattati e storiografie, abbia acquistato nel 1722 il manuale di giardinaggio in voga all'epoca, La th�orie et la pratique du jardinage, scritto nel 1709 da Antoine-Joseph Dezallier d'Argenville, oggi custodito insieme con tutti gli altri libri del filosofo, oltre che con i manoscritti e le edizioni delle sue opere, alla Biblioteca municipale di Bordeaux. E (come si ricava dal fitto carteggio con il duca di Berwick, maresciallo di Francia e governatore dell'Aquitania, con scambi di consigli sulle tecniche di irrigazione e l'organizzazione delle rispettive tenute) ne segu� alla lettera i dettami. Salvo buttare tutto all'aria un paio di decenni pi� tardi, quando torn� da un viaggio in Inghilterra durante il quale aveva apprezzato il nuovo gusto per il paesaggio "naturale", apparentemente intoccato dall'uomo. Ma il maggiore impegno lo dedic� all'aspetto produttivo della tenuta, in particolare quello enologico: acquist� terreni e attrezzature, costru� un'azienda vinicola e si occup� personalmente delle vendite del vino prodotto, approfittando della fitta rete di conoscenze nell'aristocrazia e nella classe politica europea che aveva creato durante i suoi anni di viaggi nel continente. "Dalla firma della pace il mio vino ha fatto pi� fortuna in Inghilterra del mio libro", nota il filosofo in una lettera del 1749, riferendosi al trattato di Aquisgrana, che l'anno prima aveva posto fine alla guerra di successione per il trono austriaco, che aveva visto Francia e Gran Bretagna schierate sui fronti opposti. Allora De l'esprit des lois stava giusto dibattendosi fra le polemiche e di l� a poco la Chiesa cattolica l'avrebbe messo all'indice. Quanta pi� gioia gli aveva dato il suo bordeaux! Anche economica: "Quello che pi� mi piace di La Br�de � che quando sono qui mi sembra di avere il mio denaro proprio sotto i piedi". � la riflessione di uno spirito pratico (compare nel terzo libro dei Pensieri), ma a La Br�de Montesquieu aveva soprattutto trovato pace. L� non vedeva l'ora di rifugiarsi, come sembra ricordarci l'iscrizione del poeta Orazio posta sulla prima porta di accesso al castello: "O rus, quando ego te aspiciam" (Campagna, quando ti rivedr�?). Un anelito verso una vita semplice secondo i ritmi della natura. La risposta, o forse un desiderio, pu� leggersi in un'altra iscrizione latina, questa volta di Virgilio. � incisa su una porta nella facciata del castello: "Assidue veniebat", tornavo di continuo...