Novembre 2020 n. 11 Anno V Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi "Regina Margherita" Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del MiBACT. Indice Contesti tossici di comunicazione nel mondo 3.0 Il linguaggio di regime Nerone e Seneca, un rapporto complesso Contesti tossici di comunicazione nel mondo 3.0 (di Paolo Moderato, "Psicologia contemporanea" n. 282/20) - Dalle fake news a informazioni non verificabili, passando per contesti enunciazionali ambigui, quali sono le principali distorsioni comunicative oggi nella stampa, nei media radio-televisivi e nei social? - La teoria darwiniana dell'evoluzione delle specie aveva distrutto il mito dell'uomo signore incontrastato del pianeta, riportandolo coi piedi per terra e ricordandogli la sua stretta vicinanza al mondo animale. Rimanevano per� ancora due facolt� che caratterizzavano l'uomo e lo distinguevano dal mondo animale: il pensiero razionale e il linguaggio, due processi strettamente legati fra loro. Negli ultimi trent'anni sono stati il primo molto ridimensionato, il secondo molto amplificato. Meccanismi e processi psicologici Hanno cominciato Tversky e Kahneman attaccando il postulato secondo cui gli individui, in quanto esseri razionali, sono in grado di decidere che cosa vogliono e di prendere la decisione migliore ordinando le alternative possibili secondo una logica. Secondo tale postulato, essi possono sbagliare, ma gli errori sono casuali o dovuti a stati emotivi particolari: la teoria non ne viene inficiata. Invece i due autori citati evidenziano i meccanismi mentali che inducono gli esseri umani a sbagliare in modo sistematico e perseverante (bias), e introducono, o meglio ampliano, il significato della nozione di euristiche, regole semplici ed efficaci che implicano minimo sforzo cognitivo e spiegano come le persone prendano decisioni e risolvano problemi complessi soprattutto quando non dispongono di informazioni complete. L'uso di euristiche � spiegato dal concetto di bounded rationality introdotto da Herbert Simon: il sistema cognitivo umano � un sistema a risorse limitate che non opera secondo processi algoritmici. I bias, che comportano errori sistematici, sono il lato oscuro della forza delle euristiche, pregiudizi astratti che non si basano su dati di realt�. Alcuni bias sono molto noti, come l'effetto placebo, altri sono assai recenti, come l'effetto Dunning-Kruger la cui azione vedremo fra poco. Per gli scopi di questo articolo sono da citare tre euristiche - rappresentativit�, disponibilit� e ancoraggio - che talvolta funzionano, ma che nella gran parte dei casi portano a errori sistematici e prevedibili. L'altro aspetto che ha a che fare con la comunicazione tossica riguarda il linguaggio, e in modo particolare il modello comportamentista post-skinneriano noto come relational frame theory: esso spiega come un individuo all'interno della sua comunit� verbale di riferimento apprenda a rispondere a relazioni tra eventi-stimolo che sono in relazione arbitraria, cio� sono controllati da alcune caratteristiche del contesto di interazione (Presti e Moderato, 2019). Il contesto pu� trasformare la funzione degli stimoli che partecipano a tale relazione: anche una parola neutra o addirittura piacevole, in un contesto particolare pu� trasformarsi in uno stimolo che genera ansia, paura o panico. Semplificando al massimo, si dice che in questi casi la persona � "fusa con le parole". Nella behavioral economics ci� � definito "effetto framing". Questi punti che abbiamo trattato descrivono il modo e spiegano i processi con cui il lettore interagisce con la fonte di informazione. TV, giornali, social, Internet fa poca differenza, se non in termini di rapidit� di diffusione della notizia. Lo spirito del tempo Gli esseri umani possono essere evolutivamente classificati in 2 gruppi, gli individui paurosi (la maggioranza) e gli individui curiosi e temerari: i primi hanno assicurato la sopravvivenza della specie Homo sapiens evitando i rischi, i secondi ne hanno assicurato lo sviluppo culturale e scientifico assumendosi rischi che per alcuni possono essere stati letali. La storia della scienza � piena di persone che hanno sacrificato la loro vita per la ricerca. Gli stati interni che chiamiamo emozioni hanno (anche) la funzione di aiutarci a reagire nel modo pi� adeguato ai pericoli. Tuttavia, quando le emozioni non sono ben calibrate su una minaccia reale, e/o quando le nostre conoscenze e le nostre informazioni sono scarse e/o manipolate, rischiano di farci andare fuori strada e inducono comportamenti irrazionali. � quanto sta accadendo con l'epidemia di Covid-19. Se fossimo esseri razionali, dovremmo fidarci e affidarci a esperti riconosciuti. Non lo siamo, e non siamo neanche consapevoli di non esserlo, tutt'altro: l'effetto Dunning-Kruger descrive come l'errata e infondata sopravvalutazione delle proprie competenze e conoscenze si accompagni in realt� a una profonda ignoranza. C'� un altro fattore da considerare. Viviamo in un'epoca che mostra una forte intolleranza per gli esperti: espressioni come "i professoroni" e "uno vale uno", la confusione di opinioni e fatti scientifici con la pretesa discutibilmente democratica di conferire la stessa legittimit� a entrambi e di mettere a confronto in TV una soubrette e un professore universitario su un fatto medico (per esempio, l'efficacia dei vaccini) ne sono la dimostrazione. Il libro di P. Nichols The death of expertise, disponibile anche in italiano con il titolo La conoscenza e i suoi nemici: l'era dell'incompetenza e i rischi per la democrazia, spiega che il fenomeno � radicato nella societ� americana ed � riemerso e si � irrobustito nei college americani di second'ordine. Nichols parte dall'osservazione di Alexis de Tocqueville del 1835: "Nella maggior parte delle operazioni dello spirito, ogni americano fa appello solo allo sforzo individuale della propria ragione". Qualche tempo fa il presidente degli Stati Uniti Trump, sostenendo che secondo lui il dato sull'epidemia diffuso dall'OMS (3,4% di mortalit�) era falso, ha dichiarato: "� una mia impressione, basata sulle conversazioni che ho avuto con molta gente". Questa diffidenza nei confronti dell'autorit� intellettuale era radicata nella natura stessa della democrazia americana jacksoniana, in cui i cittadini erano - scriveva Tocqueville - "costantemente ricondotti alla propria ragione come la pi� ovvia e vicina fonte di verit�. Non � solo la fiducia in questo o quell'uomo che viene distrutta, ma la disposizione a fidarsi dell'autorit� di qualsiasi uomo". Tocqueville aveva descritto con molto anticipo quello che sarebbe successo, potenziato e distorto, quasi duecento anni dopo. In realt�, si tratta di un ritorno di tale atteggiamento, perch� questa sfiducia nell'esperto era caduta nel XX secolo sotto i colpi dei progressi scientifici e tecnologici, anche grazie al ruolo politico a livello mondiale assunto dagli Stati Uniti. Di questo ritorno si vedono prove anche in Italia; quel che preoccupa di pi� � che tali prove si manifestino soprattutto nel campo della salute, in termini sia di cura (medicina alternativa, metodo Hamer, omeopatia, stamina) sia di prevenzione (movimenti antivax). Informazioni tossiche, fake news, manipolazione del comportamento Insomma, la combinazione di questi fattori crea una situazione perfetta da sfruttare per chi vuole intossicare la comunicazione per fini di controllo sociale, politico e cos� via. I media, come dice la parola, sono il mezzo attraverso cui tutto ci� passa. Scriveva mesi fa il Wall Street Journal: "Noi dei media dovremmo passare pi� tempo a parlare con gli esperti che sanno qualcosa e meno tempo a citare i politici che non sanno quasi nulla del virus, ma che vedono un potenziale guadagno nello sfruttamento di una crisi sanitaria". La politica si � infilata a capofitto in questo processo tossico. Gli esempi sono troppi per poterli citare tutti. Prendiamo il pi� noto, la vicenda Cambridge Analytica Files: 87 milioni di profili Facebook sono stati usati illegalmente da questa societ� per influenzare politicamente il comportamento di gruppi di elettori in varie consultazioni elettorali. Stiamo parlando delle elezioni presidenziali statunitensi, del referendum sull'uscita dell'Inghilterra dall'Unione Europea (Brexit) e con molta probabilit� anche del referendum italiano del 2016 sulla riforma costituzionale proposta dall'allora premier Matteo Renzi. Il meccanismo � relativamente semplice ed � basato sui meccanismi psicologici visti nelle pagine precedenti: inondare di notizie (false) un gruppo di persone selezionato in base alle informazioni che hanno volontariamente e ingenuamente comunicato tramite il loro profilo Facebook, inconsapevoli dell'uso che ne sarebbe stato fatto; orientare le loro scelte sovra-rappresentando un pericolo, o addirittura creandolo ex novo, quindi manipolando la loro percezione del rischio; aizzare campagne d'odio facendo leva sul "sentiment" delle persone per ottenere un consenso da sfruttare poi elettoralmente. Come sappiamo, questo meccanismo ha funzionato. Covid-19: un nuovo scenario Di recente, a causa dell'emergenza Coronavirus e dell'incertezza che ha comportato, abbiamo oscillato pericolosamente tra due forme di comunicazione mediatiche entrambe tossiche: panico fuori controllo e minimizzazione. Ricordiamo alcuni titoli di quotidiani nazionali (non della "stampa spazzatura" che vive pericolosamente e irresponsabilmente di titoli sempre al limite) con foto a mezza pagina di soldati armati e dotati di attrezzatura da guerra chimica e parole apocalittiche che hanno sollevato un unanime coro di critiche nella comunit� scientifica, nel mondo politico e nella societ� tutta. Poi siamo passati alla fase minimizzante: � solo un'influenza o poco pi�. Ora, il Covid-19 non � l'apocalisse (speriamo), ma non � certo neanche un'influenza. Ancora stiamo oscillando tra messaggi come "Non fermiamoci, riprendiamo a vivere, la vita continua" (con picchi di irresponsabilit� del tipo: "Non cambio il mio stile di vita") et similia, certamente nell'ottica di limitare i danni economici derivanti dal blocco di tutte le attivit�, e messaggi invece di richiamo alla responsabilit� e alla ragionevolezza, quali: "Continuiamo a limitare i contatti sociali, evitiamo gli assembramenti" e cos� via. The Lancet, la prestigiosa rivista medica, in un articolo del 7 marzo scorso, descrivendo lo stress cui sarebbero stati sottoposti i servizi sanitari dei Paesi ad alto reddito, visti la gravit� e la letalit� delle polmoniti e i possibili rischi di diffusione incontrollata nei Paesi a basso reddito con servizi sanitari deboli (Africa sub-sahariana, America Latina, alcuni Paesi dell'Est Europa), concludeva dicendo testualmente: "I Paesi ad alto reddito devono prendersi ragionevoli rischi e agire in modo pi� deciso. Devono abbandonare le paure delle conseguenze negative a breve termine a livello pubblico ed economico che possono derivare da misure restrittive della libert� pubblica come componenti di misure pi� decise di controllo dell'infezione". Un messaggio inequivoco. In questo scenario pessimistico ci sono anche, peraltro, alcuni aspetti positivi che vanno sottolineati. Scrive G. Vitiello sul quotidiano Il Foglio: "Oggi l'epidemia di Covid-19 mette alla prova la polemica dandy contro i competenti e la pilatesca condiscendenza sulla questione delle fake news". In altri termini, "la verit� non � pi� una chimera da secchioni e la competenza un mito da epistocratici ora che � una questione di vita o di morte". Almeno per chi l'ha capito, aggiungerei. Certo, passata l'emergenza, tutti i sostenitori delle medicine alternative, delle cure omeopatiche, tutti i complottisti e gli antivax, prima defilati, stanno tornando garruli e virulenti come e pi� di prima. Intanto consoliamoci osservando un altro effetto collaterale positivo. Quelli che sono abitualmente delle fabbriche di prodotti tossici, covi di complottisti e laboratori di fake news, cio� i social, stanno mostrando comportamenti pi� responsabili, agendo con ragionevolezza, per evitare che il panico faccia pi� danni dell'epidemia. Per molto tempo Facebook e Twitter sono stati molto permissivi, hanno lasciato andare messaggi di odio, deliri complottisti e quant'altro, al massimo rispondendo tardivamente per bloccarli quando il danno tossico era gi� fatto. Ora sembra che entrambi abbiano deciso di agire in termini proattivi, modificando l'algoritmo personalizzato per mettere in evidenza messaggi uguali per tutti a salvaguardia della salute pubblica. Twitter ha annunciato che nelle ricerche sul Covid-19 saranno privilegiati gli articoli autorevoli e verificati dalle autorit� sanitarie. Facebook ha fatto lo stesso, promettendo di bloccare e cancellare a monte gli articoli a base complottistica e le notizie false sull'epidemia e di affiancare all'azione di contrasto la promozione di messaggi provenienti dall'OMS. Il linguaggio di regime (di Valeria Della Valle, "Prometeo" n. 143/18) - Quando la politica autoritaria si esercita anche sui modi di dire. - Questo articolo nasce da una rielaborazione del soggetto che ho scritto per il documentario Me ne frego! Il fascismo e la lingua italiana, presentato nello "Spazio Luce" della Mostra del Cinema di Venezia del 2014. Il documentario era nato, negli anni nei quali insegnavo Linguistica italiana alla Sapienza Universit� di Roma, dalla constatazione che la politica linguistica attuata durante il fascismo era argomento ignorato dalle nuove generazioni, col rischio di perdere, nel futuro, la memoria di un pezzo importante della nostra storia. Questo timore mi convinse, allora, a tentare la strada del racconto per immagini, sfruttando le possibilit� dell'Archivio storico dell'Istituto Luce, che conserva documenti filmati del periodo, e dal quale abbiamo tratto i materiali per il documentario, molti dei quali inediti, per raccontare la storia visiva e sonora delle iniziative del regime nei confronti della lingua italiana. Dal 1922 al 1943 fu praticata, per la prima volta in Italia, una vera e propria politica linguistica. I momenti pi� significativi, a volte grotteschi e quasi comici, a volte drammatici, possono essere rievocati seguendo i vari momenti attraverso i quali quella politica fu attuata. L'aspetto pi� noto, e non del tutto dimenticato, riguarda la lotta contro le parole straniere. Il 23 dicembre 1940 la legge n. 2042 proib� l'uso delle parole straniere in Italia. Con quella legge le parole straniere erano vietate "nelle intestazioni delle ditte industriali o commerciali e delle attivit� professionali [...] nelle insegne, nei cartelli, nei manifesti, nelle inserzioni ed in genere in ogni forma pubblicitaria". Il divieto dell'uso delle parole non italiane non fu un provvedimento improvviso, ma il punto di arrivo di una campagna e di una tendenza avviate molto tempo prima rispetto a quell'anno. Del resto la lotta contro le parole straniere progettata e attuata durante il fascismo aveva origini lontane, che si possono far risalire, almeno in parte, alle idee e alle posizioni del Purismo antifrancese ottocentesco. Gi� nei primi anni del Regno d'Italia c'era stata una legge, quella del 30 giugno 1874, che aveva tassato le insegne in lingua straniera. Non si sa chi fosse il proponente del provvedimento, ma si pu� supporre, sulla base dei documenti e delle ricerche fatte sull'argomento, che sia stato l'ex ministro dell'Istruzione Emilio Broglio, molto vicino ad Alessandro Manzoni e coautore, con Giovan Battista Giorgini, del famoso Novo vocabolario della lingua italiana secondo l'uso di Firenze, cio� il primo dizionario dell'uso, pubblicato a Firenze tra il 1870 e il 1897. Ma agli inizi del Novecento un nuovo tipo di purismo nazionalista si sovrappose a quello precedente: le scritte commerciali e le insegne in lingua straniera furono prese di mira come oltraggio non solo alla purezza della lingua, ma alla patria. L'insofferenza nei confronti delle parole straniere veniva alimentata, in particolare, nella zona del lago di Garda, dove il turismo tedesco faceva temere una sorta di germanizzazione, anche linguistica, del territorio italiano. Con la presa di potere da parte di Mussolini, questo purismo di matrice nazionalista e irredentista sub� un'ulteriore impennata, e la legge dell'11 febbraio 1923 impose una tassa sulle parole non italiane. Ebbe inizio cos� una nuova campagna di purismo xenofobo che riemp� le pagine dei quotidiani e delle riviste. Giornalisti i cui nomi sono oggi dimenticati, ma allora molto noti, come Pasquale De Luca (che scriveva sul "Corriere della Sera") e Gaetano Milanesi (firma del "Corriere italiano") presero posizione sull'argomento. Pasquale De Luca, in un articolo intitolato appunto "Insegne e iscrizioni in lingue straniere", scrisse: "perch� dunque noi dobbiamo abbondare di restaurant, di hotel, di maison-meub�e, di pension, di bar, tea room, club, casin� e perfino di kursal? Nella culla del dolce idioma gli hotel si contano a dozzine". E lo stesso giornalista, in un articolo pubblicato sulla Nuova Antologia col titolo "Per la difesa della lingua italiana" rincarava la dose, scrivendo: "Un solo efficace rimedio ci sarebbe: che il Duce pigliasse a cuore anche la questione della lingua nazionale e, come per le scritte delle insegne, studiasse una legge che non solo multasse le parole straniere usate nei libri e nei periodici italiani al posto delle parole che a esse corrispondono registrate nei buoni vocabolari, ma i barbarismi pi� smaccati e non necessari, i solecismi e gli idiotismi pi� comuni". E Gaetano Milanesi in un articolo per il Corriere italiano del 30 novembre 1923, intitolato significativamente "Morbo italico (Xenofilia congenita)", scrisse: "Non un sarto che non si ritenga infamato se non ricorra all'egida del tailleur. Se un albergo non fosse nobilitato da hotel sarebbe un lupanare, e senza tea room e grill room � impossibile vivere decentemente". Nello stesso periodo uno degli intellettuali pi� autorevoli del tempo, Filippo Tommaso Marinetti, il padre del Futurismo, intervenne nel numero inaugurale dell'Impero dell'11 marzo 1923 con un vero e proprio manifesto sui diritti artistici propugnati dai futuristi italiani, e con un elenco degli obiettivi da raggiungere per la "Difesa dell'italianit�": 1) Italianizzazione obbligatoriamente immediata degli alberghi (tutte le diciture, insegne, liste delle vivande, conti, ecc. in lingua italiana), dei negozi e della corrispondenza commerciale. Mezzi automatici per propagare la lingua italiana senza spese. 2) Italianizzazione della nuova architettura contro l'uso sistematico di plagiare le architetture straniere. Cominciare questa italianizzazione in tutti gli edifici statali, specialmente nei paesi redenti. 3) Italianizzazione obbligatoria delle edizioni e dei caratteri tipografici. Il clima ostile contro le parole straniere, che con questi interventi era diventato sempre pi� acceso, port� a una dichiarazione significativa di Benito Mussolini, che in una lettera del 26 giugno 1923 indirizzata al Ministero dell'Interno, scrisse: "La deplorevole e deplorata abitudine di molti commercianti italiani che usano parole e locuzioni straniere nelle insegne e mostre delle proprie botteghe � sperabile che abbia ad essere sensibilmente frenata dal Regio Decreto legge 11 febbraio u.s. n. 352 [...] io credo che si debba pi� direttamente ed energicamente agire per combattere la predetta abitudine, indizio di deficiente spirito e sentimento italiano [...] Questo divieto dovrebbe essere esteso con una norma generale a tutti i Comuni del Regno e con criteri anche pi� rigorosi onde le locuzioni italiane non solo non si scompagnino mai dalle straniere ma abbiano una forma e un carattere del tutto preminente" (Nota del 27 giugno 1923). Pass� qualche anno, e nel 1926 l'atteggiamento nei confronti delle parole straniere si fece ancora pi� intransigente: il presidente del senato Tommaso Tittoni, personaggio molto autorevole del regime, pubblic� nella Nuova Antologia un articolo intitolato "La difesa della lingua italiana", in cui rincarava la dose: "Il dire con locuzione esotica ci� che pu� dirsi non meno bene italianamente � un delitto di lesa patria [...] qualcuno faccia il giro delle redazioni dei giornali e scacci questi sfregiatori della lingua italiana. [...] quando leggo queste birbonate linguistiche mi sento acceso di sdegno e penso: possibile che non si trovi qualcuno il quale, ispirandosi all'esempio di Ges� che scacci� i mercanti dal tempio, o a quello di Dante che mise sottosopra la bottega del fabbro che storpiava i suoi versi, faccia il giro delle redazioni dei giornali e scacci questi sfregiatori della lingua italiana. Potrebbe ordinar ci� il Duce" (articolo del 16 agosto del 1926). Negli anni Trenta, in una situazione linguisticamente sempre pi� autarchica, nacquero diverse iniziative giornalistiche contro le parole straniere. La rivista fiorentina Scena illustrata inaugur� la rubrica Difendiamo la lingua italiana, nella quale si cercavano sostituzioni indigene ai termini stranieri e il quotidiano romano La Tribuna band� un concorso a premi per sostituire 50 parole straniere, chiamando a raccolta i lettori con questo slogan: "Troviamo parole italiane da sostituire a quelle straniere che inquinano la nostra lingua". Tra queste iniziative ebbe particolare successo e s�guito, a partire dal 1932, la rubrica Una parola al giorno, pubblicata nella "Gazzetta del Popolo" di Torino per "ripulire la nostra lingua dalla gramigna delle parole straniere che hanno invaso e guastato ogni campo", in cui Paolo Monelli, giornalista allora gi� molto noto e scrittore di grande successo (con il libro Le Scarpe al sole, pubblicato nel 1921, in cui aveva raccontato la sua esperienza al fronte, durante la prima guerra mondiale) proponeva ai lettori le sostituzioni delle parole non italiane. La rubrica costitu� il punto di partenza per il libro intitolato, significativamente, Barbaro dominio. Cinquecento esotismi esaminati, combattuti e banditi dalla lingua con antichi e nuovi argomenti. Storia ed etimologia delle parole e aneddoti per svagare il lettore pubblicato a Milano da Hoepli nel 1933, e poi ristampato anche nel dopoguerra. Nell'introduzione Monelli scriveva: "Mi illudo di avere portato una parola nuova e fresca in questo argomento: che si pu� essere moderni, sportivi e giovani di fede e d'idee, e volere splendente e pura la lingua. Perci� ho fatto di questa campagna soprattutto una questione di orgoglio e di dignit�. I popoli forti impongono il loro linguaggio, i loro modi di dire, le loro sigle, non raccattano ogni foresteria con balorda premura. L'inquinazione del linguaggio � opera generalmente di ignoranti, di presuntuosi, di schiavi; per questo solo dovrebbe suscitare reazioni. Non c'� pi� posto in un'Italia ardita e cosciente di s� per i cianciugliatori alla balcanica di parolette forestiere; il gusto dell'esotico cos� nei modi come nel linguaggio non � indice di spirito moderno, � al contrario tabaccosa mania; simile alla vieta eleganza di certi giovani antichi, con l'altissimo colletto duro o il plastron (non tradurremo questa parola che morr� con loro) e i baffi impomatati alla Guglielmo e la caramella assicurata a un largo nastro di seta". L'ostilit� verso tutto ci� che era straniero si intensific� nel 1936 e la xenofobia linguistica comp� un salto di qualit� quando si arriv� al decreto-legge del 5 dicembre 1938, n. 2172 sulle "denominazioni del pubblico spettacolo". Le denominazioni e i nomi stranieri furono vietati per i locali di pubblico spettacolo e per i neonati di nazionalit� italiana (art. 72 del nuovo Ordinamento dello stato civile, promulgato con decreto 9 luglio 1939, n. 1238). Da quel momento in poi anche i nomi e i cognomi furono italianizzati: ne fecero le spese artisti dello spettacolo che avevano scelto nomi d'arte esotici. Wanda Osiris divenne Vanda Osiri, Lucy D'Albert Lucia D'Alberti, Renato Rascel Renato Rascelle. Elena Grey si trasform� in Elena Grei e Doris Duranti in Dori Duranti. Basta rivedere i film del tempo per assistere a questo mutamento: per esempio, nei titoli del film di Mario Mattoli Non me lo dire! compare il nome di Vanda Osiri. Ma a parte questi provvedimenti, che colpivano personaggi noti dello spettacolo, nel 1939 sul Popolo d'Italia fu condotta una campagna ben pi� grave, di stampo razzista, contro le insegne in lingua straniera, ma con particolare accanimento nei confronti delle insegne che comparivano nei negozi di cittadini ebrei. Nel 1938 una pesante novit� riguard� i periodici illustrati. In quell'anno si riun� a Bologna un congresso di specialisti della letteratura per ragazzi, presieduto da Filippo Tommaso Marinetti - autore, per l'occasione, di un Manifesto della letteratura giovanile in 15 punti. In seguito al Congresso di Bologna, il Ministero della Cultura Popolare eman� una serie di direttive rivolte agli editori di storie illustrate. Le serie ideate negli Stati Uniti dovevano essere sostituite da racconti italiani: ai fumetti americani di successo, come Topolino (traduzione italiana di Mickey Mouse), si dovevano contrapporre personaggi pi� italiani, come per esempio Gino e Gianni, Saturnino Farandola, Romano il legionario, Lucio l'avanguardista. In quel periodo Flash Gordon divent� Flasce Gordon e Mandrake fu trasformato in Mandrache. Accanto a queste prese di posizione ispirate a un purismo intransigente non mancarono, per�, proposte avanzate da linguisti equilibrati ed esperti, destinate ad avere successo e a soppiantare le corrispondenti parole straniere in uso. � il caso della parola autista in luogo di chauffeur, proposta dalla Confederazione nazionale dei sindacati fascisti dei Trasporti terrestri e della navigazione interna, ma approvata e sostenuta dal linguista Bruno Migliorini nel 1932. Allo stesso modo, sempre nel 1932, i termini regia e regista riuscirono a scalzare le corrispondenti parole francesi r�gie e r�gisseur o metteur en sc�ne. Anche in questo caso il merito fu di Bruno Migliorini, che con la propria competenza raccolse il quesito di Silvio D'Amico, il grande critico teatrale e teorico del teatro, sulla legittimit� dei due neologismi contro i quali alcuni protagonisti della cultura del tempo continuarono a opporre un deciso rifiuto (per Enrico Falqui la parola regista era termine "duro e ostico", per Anton Giulio Bragaglia era proprio "brutto"). E ci fu anche chi, invece di opporsi alle parole straniere e alle parole nuove che in quegli anni entravano nella lingua italiana attraverso i giornali, il cinema, le canzoni, la politica, le accolse e le registr� con curiosit� e larghezza di documentazione, lasciandoci preziosi repertori che hanno fotografato la societ�, la cultura, la moda e la politica del tempo. Il giornalista e scrittore Alfredo Panzini, nonostante l'adesione al fascismo e la nomina ad Accademico d'Italia nel 1929, ebbe l'idea di registrare tutte le nuove parole che venivano usate in Italia, anche se straniere, oscillando tra una divertita accettazione delle nuove forme che entravano nella lingua italiana, forestierismi compresi, e una condanna estetica nei confronti di espressioni considerate brutte o poco italiane. Grazie al suo Dizionario Moderno pubblicato in otto edizioni successive e diverse, a partire dal 1905 e fino all'edizione postuma del 1942, abbiamo a disposizione le parole registrate al loro primo apparire. Per esempio, blas� e gar�onne venivano definite in questo modo: blas�, "Voce francese, usata per vizio: la quale indica la persona divenuta scettica, non tanto per abuso di filosofia, quanto di mondanit� o di piaceri. Nel 900 fascista � voce due volte riprovevole"; gar�onne: "Neologismo francese; la fanciulla indipendente del dopo Guerra, che non rinunzia all'amore: maschiaccia, giovinetta. Molto meno spregiativo � maschietta, come dicono a Roma. Si chiamano � la gar�onne i capelli corti al filo delle orecchie che (1924) portan le donne, seguendo la moda americana". L'acme del fenomeno si raggiunse nel 1940 (l'Italia era gi� entrata in guerra), quando si arriv� al divieto assoluto di parole straniere nell'intestazione delle ditte e della pubblicit�, sotto pena di sanzioni che potevano arrivare, almeno in teoria, alla detenzione. Contemporaneamente, la Reale Accademia d'Italia, che aveva tra i suoi compiti la difesa dell'italianit�, fu incaricata dal governo di sostituire le parole straniere con parole italiane. La Reale Accademia d'Italia era l'istituzione fondata nel 1929 con il compito di "promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti, di conservare puro il carattere nazionale, secondo il genio e le tradizioni della stirpe e di favorirne l'espansione e l'influsso oltre i confini dello Stato" (come recitava l'art. 2 dello Statuto). Di fatto l'Accademia d'Italia era stata costituita sciogliendo e assimilando l'Accademia dei Lincei, fondata nel 1603 da Federico Cesi. L'Accademia scelse almeno inizialmente di tenere un atteggiamento moderato nelle questioni linguistiche, senza schierarsi contro le parole straniere. Ma dal 1938 (l'anno dei primi provvedimenti sulla razza) la situazione si era fatta pi� difficile e nel 1939 l'Accademia fu incaricata di stendere gli elenchi ufficiali delle sostituzioni delle parole straniere, attraverso una "Commissione per l'espulsione dei barbarismi dalla lingua italiana" (poi trasformata, con una denominazione meno aggressiva, nella pi� moderata "Commissione per l'italianit� della lingua"). L'Accademia aveva l'incarico di tradurre, sostituire o italianizzare non solo le parole straniere, ma anche la toponomastica. Nella Commissione erano presenti alcuni degli intellettuali pi� noti e stimati del tempo: solo per citare quelli ancora oggi noti, Giulio Bertoni, Riccardo Bacchelli, Emilio Cecchi, Enrico Falqui, Clemente Merlo, Filippo Tommaso Marinetti, Alfredo Schiaffini, Giovanni Mosca, Alfredo Panzini, Giorgio Pasquali, e il linguista Bruno Migliorini, che per� partecip� a un'unica riunione. La Reale Accademia d'Italia attraverso le riunioni della commissione arriv� a sostituire quasi 1500 parole straniere con altrettante parole italiane: qualche esempio, tra i pi� curiosi: cocktail-arlecchino; cric-martinetto; dessert-fin di pasto; fox-trot-volpina; gin-gineprella; goulasch-spezzatino all'ungherese; manicure-manicura; saut�-sfritto; shaker-sbattighiaccio; shampoing-lavanda dei capelli; soubrette-brillante; toast-pantosto; uovo � la coque-uovo scottato; vol-au-vent-vent�volo. Queste alcune delle sostituzioni ufficiali, scelte dopo lunghe discussioni tra i commissari. Sostituzioni che oggi possono far sorridere, ma va ricordato che altre sostituzioni, invece, ebbero successo e riuscirono a imporsi nell'uso, come ascensore per elevator o lift, autista per chauffeur, regista per regisseur, soprabito per sortout, sportello per guichet, libretto per carnet, ecc. L'elenco delle parole straniere con le corrispondenti parole italiane conflu� in un Bollettino, che avrebbe attuato la legge del 23 dicembre 1940, secondo le disposizioni del ministero dell'Interno: "La Reale Accademia d'Italia, sentito il parere di un'apposita commissione da essa nominata, determina quali parole straniere possano ritenersi acquisite alla lingua italiana o in essa tollerate; suggerisce, inoltre, i termini italiani da sostituire a quelli stranieri di pi� largo uso. Tali denominazioni sono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale e nel Bollettino di informazione dell'Accademia medesima". Con questo linguaggio burocratico e con questo tipo di direttive si tent� di imbrigliare la libert� della normale evoluzione della lingua nazionale. Ma l'Italia era ormai entrata in guerra, e il problema delle parole da rendere forzatamente italiane era destinato a essere travolto da avvenimenti ben pi� gravi, e a essere velocemente dimenticato. Altre influenze linguistiche e culturali erano ormai alle porte, e ben altri problemi linguistici di alfabetizzazione si sarebbero dovuti risolvere con l'avvento della Repubblica. La scuola fu uno degli strumenti maggiori della propaganda e della politica linguistica del regime. Dall'anno scolastico 1930-31 il libro di testo unico edito dalla Libreria dello Stato fu introdotto nelle prime due classi delle scuole elementari, contribuendo al processo di fascistizzazione degli italiani fin dalla prima infanzia. Il libro unico comprendeva la storia della rivoluzione fascista e dei suoi protagonisti, primo fra tutti il Duce. A partire dall'instaurazione delle leggi razziali nel 1938, il libro unico divent� anche un veicolo di diffusione dell'ideologia razzista. Nelle scuole secondarie i libri di testo erano scritti da una commissione nominata dal Ministero dell'educazione popolare, e i programmi di insegnamento erano stabiliti in base alle esigenze politiche del regime. Per dare un'idea del condizionamento della scuola e dell'editoria scolastica, pu� essere utile rileggere le dediche di due dizionari della lingua italiana molto diffusi durante il ventennio: lo Zingarelli, a partire dalla IV edizione era dedicato "A Benito Mussolini restauratore delle sorti d'Italia", e il Mestica, edito nel 1936, "A Benito Mussolini Duce d'Italia Fondatore dell'Impero". Nella politica scolastica ebbe un ruolo importante la campagna contro i dialetti. In una prima fase, si erano applicate le idee del pedagogista Giuseppe Lombardo Radice (1879-1938), che aveva introdotto il metodo "dal dialetto alla lingua" nei programmi scolastici della riforma Gentile del 1923. Ma in seguito, col consolidarsi del regime e il timore di spinte localistiche e autonomistiche, l'ostilit� e l'ostracismo contro i dialetti, visti come ostacoli all'ideologia nazionale, si intensific�, trasformandosi all'inizio degli anni Trenta in una vera e propria politica antidialettale. Per dare un'idea del clima e del purismo sciovinista del tempo, pu� essere utile ricordare due veline attraverso le quali si diramavano alla stampa le direttive del governo: "Si ricorda ai giornali di Roma di non dar rilievo al teatro dialettale" (13 luglio 1932); "� stato raccomandato ai giornali di non dire che Carnera � friulano ma di ricordare soltanto che � italiano" (16 febbraio 1933); "Non pubblicare articoli, poesie o titoli in dialetto. L'incoraggiamento alla letteratura dialettale � in contrasto con le direttive spirituali e politiche del regime, rigidamente unitarie. Il regionalismo, e i dialetti che ne costituiscono la principale espressione, sono residui dei secoli di divisione e di servit� della vecchia Italia" (Velina destinata alla stampa, 1931). La lotta contro le minoranze linguistiche fu uno degli aspetti del dirigismo linguistico del fascismo, che si manifest� con varie iniziative: l'imposizione dell'italiano in Valle d'Aosta, la politica etnica ai danni della minoranza di lingua tedesca in Alto Adige e tedesca e slovena nella Venezia Giulia, l'italianizzazione forzata della toponomastica, l'obbligo a italianizzare i cognomi slavi o tedeschi. Anche in questo caso, si trattava di istanze precedenti all'avvento del Fascismo: gi� alla fine della prima guerra mondiale Ettore Tolomei, senatore del Regno ed esponente del nazionalismo italiano, aveva condotto una battaglia per attribuire alla lingua italiana priorit� assoluta nella comunicazione pubblica, nelle insegne, negli avvisi, ecc.: il testo elaborato sulla questione da Tolomei era stato approvato da Vittorio Emanuele Orlando l'11 novembre 1918. Con l'avvento del fascismo si arriv� a una radicalizzazione dei provvedimenti, che possono essere rievocati attraverso la citazione di un brano di una lettera mussoliniana: "L'uso del linguaggio francese � in quelle valli [della Val D'Aosta] cos� esteso da richiedere un particolare ed eccezionale insegnamento nelle scuole elementari. Non vogliamo costringere con la forza quelle popolazioni a non parlare francese. Ma neanche dobbiamo incoraggiarle e aiutarle a continuare in un costume che avrebbe dovuto gi� cessare. In Italia si parla italiano" (Lettera di Mussolini al ministro della Pubblica istruzione Giovanni Gentile, 7 agosto 1923). Per ricostruire il clima del tempo pu� essere utile citare anche parti di tre decreti legge: "Nella provincia di Trento i manifesti, avvisi, indicazioni, segnalazioni, tabelle, cartelli, insegne, etichette, tariffe, orari e, in genere tutte le scritte e leggende comunque rivolte o destinate al pubblico, sia in luogo pubblico che aperto al pubblico, anche se concernano interessi privati, devono essere redatte esclusivamente nella lingua ufficiale dello Stato" (decreto 29 marzo 1923, n. 800, articolo 1); "Le famiglie della provincia di Trento che portano un cognome originario italiano o latino tradotto in altre lingue o deformato con grafia straniera o con l'aggiunta di un suffisso straniero, riassumeranno il cognome originario nelle forme originarie. Saranno ugualmente ricondotti alla forma italiana i cognomi di origine toponomastica, derivanti da luoghi, i cui nomi erano stati tradotti in altra lingua, o deformati con grafia straniera, e altres� i predicati nobiliari tradotti o ridotti in forma straniera" (decreto legge 24 maggio 1926, n. 898, art. 1); "Prossimamente saranno emessi i decreti di restituzione d'ufficio dei cognomi disitalianizzati. Si prevede che tale restituzione dar� cognome italiano a 50 mila cittadini di Trieste" (decreto 5 agosto 1926 per la Venezia Giulia). Nel 1925 fu soppresso l'insegnamento delle lingue minoritarie, mentre l'italiano venne imposto come prima lingua nelle colonie, a scapito delle lingue locali. Carattere diverso e privo di conseguenze ebbe una singolare campagna promossa nel 1938 dal regime: quella contro il pronome lei, che doveva essere sostituito dal tu o dal voi, a seconda del grado di confidenza con l'interlocutore. Il lei era bandito perch� considerato "femmineo" e "straniero" (in realt� la forma era italianissima, in uso fin dal Cinquecento, e derivava dall'abitudine di rivolgersi a una persona di riguardo, indicata con l'espressione "Vostra Signoria", con la forma lei, regolarmente concordata al femminile con "Signoria"). A farsi promotore della campagna contro l'uso del lei fu Achille Starace, segretario del Partito Nazionale Fascista dal 1931 al 1939. Starace impartiva i suoi ordini attraverso i Fogli di disposizioni, nei quali, in forma telegrafica, si indicava la linea politica da adottare sulle ricorrenze, sulle manifestazioni, sullo stile di vita e perfino sulla lingua italiana. Proprio a proposito dell'uso del lei, ecco quanto si stabiliva: "� assurdo e riprovevole che dopo quanto � stato detto e scritto, anche dai giornali, si stenti qua e l� ad adottare il "voi" e a respingere nettamente il "lei" che oltretutto � una espressione di quello spirito servile ripudiato dal fascismo nella maniera pi� recisa". � il 20 aprile 1938, nel discorso al Consiglio Nazionale del P.N.F., Mussolini disse: "Abbiamo dato dei poderosi cazzotti nello stomaco a questa borghesia italiana. L'abbiamo irritata, l'abbiamo scoperta, l'abbiamo identificata [...] Il primo cazzotto � stato il passo romano di parata [...] Altro piccolo cazzotto: l'abolizione del lei". Nel 1939, a Torino, fu organizzata nella sede della Giovent� Italiana del Littorio, in piazza Bernini, la "Mostra anti-Lei", in cui vennero esposti manifesti, vignette, fotografie nelle quali si irrideva all'uso del lei e si celebrava l'uso del voi. La mostra, pubblicizzata sui giornali e sostenuta dalla Federazione fascista torinese, ebbe un grande successo, tanto che ne fu prolungata l'apertura. La campagna "anti-lei" ebbe un apparente successo solo nel Sud, dove il voi era gi� la normale forma di cortesia. Al Centro e al Nord il voi veniva avvertito come dialettale, perci� era evitato e usato solo nelle occasioni ufficiali, nella stampa, nei libri di testo, nelle commedie e nel doppiaggio dei film, in cui era obbligatorio. Gli italiani del Nord continuarono, privatamente, a usare il lei, e molti, pur di non passare al voi, scelsero di darsi del tu. Qualcuno, al Sud si oppose alla proibizione in modo del tutto personale: Benedetto Croce, che aveva sempre usato il voi, dopo l'imposizione del pronome ripubblic� i propri epistolari sostituendo tutti i voi con altrettanti lei. Mussolini, abile tecnico della comunicazione di massa, si appropri� del modello di oratoria creato dal pi� famoso e venerato scrittore dell'epoca, Gabriele D'Annunzio, adattandolo per� a un uditorio pi� vasto e popolare, banalizzandolo e caricandolo enfaticamente di riferimenti ai fasti della Roma imperiale, di slogan di regime sfruttati e ripetuti in modo ossessivo. Come esempio, ecco un brano famoso dal discorso pronunciato dal balcone di Palazzo Venezia il 9 maggio 1936, in occasione della proclamazione dell'impero: "Tutti i nodi furono tagliati dalla nostra spada lucente e la vittoria africana resta nella storia della patria, integra e pura, come i legionari caduti e superstiti sognavano e la volevano [...] Il popolo italiano ha creato col suo sangue l'Impero. Lo feconder� col suo lavoro e lo difender� contro chiunque con le armi. In questa certezza suprema, levate in alto, o legionari, le insegne, il ferro e i cuori, a salutare, dopo quindici secoli, la riapparizione dell'impero sui colli fatali di Roma". Mussolini evocava spade lucenti, colli fatali, giuramenti sacri, fino all'esclamazione finale, che trascinava le folle: "per la vita e per la morte!". Oltre a D'Annunzio, erano presenti nei discorsi e negli scritti mussoliniani altri modelli di prosa: Garibaldi, Carducci, Pascoli, Marinetti, Mazzini, Nietzsche, Sorel. Del bagaglio linguistico mussoliniano � rimasto poco nella lingua italiana contemporanea, e il numero di invenzioni lessicali � piuttosto povero, se si escludono parole come squadrismo e squadrista, teppaglia e teppistico, settarismo e poche altre, o espressioni come colli fatali, ancora in uso con tono ironico e scherzoso per alludere alla citt� di Roma, o colpo di spugna col senso di "cancellazione", fino al famoso bagnasciuga: Mussolini us� la parola in un discorso del 24 giugno 1943, per indicare la zona della spiaggia dove si rompono le onde, declamando: "Bisogna che non appena il nemico tenter� di sbarcare, sia congelato su quella linea che i marinai chiamano bagnasciuga". L'oratore non tenne conto che la linea della spiaggia dove il mare finisce � la battigia, mentre il bagnasciuga � la linea di galleggiamento delle navi. Quel discorso, pronunciato a pochi mesi dallo sbarco in Sicilia degli alleati angloamericani, fu detto da allora in poi per scherno "discorso del bagnasciuga". Sopravvivono, nel ricordo degli italiani, slogan usati ormai solo in senso ironico e scherzoso (Libro e moschetto fascista perfetto; Credere, obbedire, combattere; Me ne frego!, ecc.), titoli di canzoni d'epoca (Faccetta nera, Ti saluto vado in Abissinia, Giovinezza), e qualche nome di luogo delle "citt� di fondazione" (Albinia, Aprilia, Carbonia, Guidonia, Pomezia, Pontinia, Sabaudia ecc.). A distanza di pi� di settant'anni dalla fine del fascismo ci si pu� chiedere cosa sia rimasto del tentativo di politica linguistica orchestrato dal regime. Dell'immensa scenografia allestita resta ben poco, quasi nulla: l'alfabetizzazione degli italiani � rimasto a lungo un problema drammatico, da affrontare e risolvere nel dopoguerra; le parole straniere non sono certo state debellate dai decreti legge (anzi, il loro numero e il numero di quelle angloamericane dalla fine della guerra in poi � cresciuto a dismisura); le minoranze linguistiche hanno reagito con insofferenza e tentativi di separatismo ai provvedimenti di regime; i dialetti continuano a essere usati come lingua degli affetti e delle tradizioni familiari; il lei, come pronome di cortesia, � tornato al suo posto. E le parole del duce che sopravvivono nella memoria degli italiani sono ormai pochissime: i colli fatali, il colpo di spugna, il bagnasciuga... Nerone e Seneca, un rapporto complesso (di Giulio Talini, "Focus Storia" n. 169/20) - L'imperatore aveva avuto come guida uno dei pi� grandi filosofi latini. Ma le sue ossessioni e le sue follie lo spinsero a ordinare al maestro di uccidersi. E quello obbed�. - "Non gli rimaneva ormai pi�, dopo aver ucciso madre e fratello, che aggiungere l'assassinio del suo educatore e maestro". Queste le parole che, secondo lo storico romano Tacito, Seneca rivolse alla moglie e agli amici prima di togliersi la vita. Il filosofo si riferiva a Nerone, un tempo suo discepolo, ora suo carnefice. L'imperatore gli aveva ordinato di uccidersi con l'accusa di essere tra i cospiratori della torbida congiura dei Pisoni del 65 d.C.. Seneca, con coraggio, ubbid�, ma non pot� cancellare le ombre di un'esistenza trascorsa a braccetto col potere. Come arriv� il nostro filosofo ai vertici della politica romana? Per molto tempo, in realt�, se ne tenne ben lontano. Giunto a Roma dalla natia Cordova (allora colonia romana), Lucio Anneo Seneca trascorse la giovent� tra gli studi di grammatica e di retorica. Poi scopr� la filosofia, un colpo di fulmine. Lo stoico Attalo, in particolare, lo conquist� pi� degli altri maestri: "Quando udivo Attalo inveire contro i vizi, gli errori, i mali della vita", raccont� all'amico Lucilio in una lettera, "ho provato spesso compassione per il genere umano e ho creduto che egli fosse un uomo sublime". Seneca stoico, dunque. Ma uno stoico con il vizio della politica: nel 31-32 d.C. il filosofo assunse la carica di questore nella turbolenta Roma di Tiberio. Pass� un brutto momento col successore, Caligola, che gli invidiava le doti oratorie e la popolarit� al punto da pensare di farlo fuori. Eppure Seneca gli sopravvisse, con pazienza e lealt� al potere. I guai vennero con l'ascesa, nel 41 d.C., del mansueto Claudio, quando Seneca fu accusato di adulterio con la nipote del nuovo imperatore, Giulia Livilla. Gli cost� l'esilio in Corsica. Emily Wilson, autrice di Seneca. Biografia del grande filosofo della classicit� (Mondadori), precisa che "il pensatore aveva allacciato una rete di amicizie potenti, in particolare con le sorelle di Caligola, Agrippina e Giulia Livilla, che esercitavano ancora una certa influenza a corte. Claudio aveva buone ragioni per temere che lo scrittore potesse capeggiare una congiura". A richiamare Seneca dal confino ci pens� nel 49 d.C. la potente Agrippina, divenuta nel frattempo imperatrice dopo avere sposato Claudio. Il filosofo, ci spiega Tacito, doveva educare il figlio Nerone e, soprattutto, favorirne l'ascesa al trono: "Madre e figlio avrebbero potuto cos� servirsi dei consigli di lui nella speranza di conquistare l'impero, perch� si pensava che Seneca sarebbe stato fedele ad Agrippina per il ricordo del beneficio e ostile a Claudio per il dolore dell'offesa". Agrippina vide giusto: alla morte di Claudio, nel 54 d.C., forse avvelenato proprio dalla moglie, Seneca e il prefetto del pretorio Afranio Burro, da bravi complici, affrettarono l'incoronazione del giovane Nerone nel timore che qualcuno potesse appoggiare le pretese di Britannico, altro figlio del defunto imperatore (ma non di Agrippina). Seneca compose poi per Nerone un moderato discorso programmatico: "Il palazzo e il Senato sono due cose diverse. Il Senato pu� conservare le sue competenze". Ammazzato Britannico l'anno dopo, Nerone ebbe finalmente Roma in pugno. Doveva ringraziare anche Seneca. Certo, allo stoico, per quanto spregiudicato e ambizioso, non mancava un movente filosofico. Poteva realizzare il sogno di Platone: infondere la filosofia e la virt� nel sovrano rendendolo illuminato; conciliare pragmatismo e stoicismo addomesticando il potere. Non a caso dedic� al giovane princeps un trattato quasi pedagogico intitolato De clementia: "Ho deciso di scrivere sulla clemenza, Nerone Cesare, per poter fare in qualche modo la parte dello specchio, e mostrarti l'immagine di te stesso, che sei avviato a raggiungere il massimo dei piaceri". Per cinque anni l'esperimento funzion� piuttosto bene: l'imperatore seguiva i consigli del maestro e, dettaglio assai pi� importante, lo ricopriva d'oro. Il filosofo accett� senza troppi complimenti sesterzi in quantit�, lussuose ville rurali, appezzamenti di terreno a Roma e forse anche in Egitto. Un impero nell'Impero. Il popolo, tuttavia, non gradiva un'avidit� tanto sfacciata, specie se manifestata da un arcinoto pensatore. Un certo Suilio lanci� pubblicamente pesanti accuse a Seneca: "Con quale saggezza morale", sbott�, "con quali precetti filosofici ha saputo Seneca accumulare in quattro anni trecento milioni di sesterzi?". Forse esagerava, ma nell'invettiva c'era del vero. E infatti Suilio, troppo scomodo, fu spedito alle Baleari. Ma a un certo punto la luna di miele fin�. Nerone non si lasci� pi� guidare: tra il 59 e il 62 d.C. fece fuori l'onnipotente madre, l'ex moglie Ottavia (ripudiata per Poppea Sabina) e persino Burro. Al complotto contro l'invadente Agrippina contribu� anche Seneca, e la gente lo sapeva: "L'opinione pubblica", secondo Tacito, "condann� non gi� Nerone, la cui immane ferocia superava qualsiasi possibilit� di sdegno, ma Seneca". La brutta fine di Ottavia e, soprattutto, quella del collega Burro allarmarono per� il filosofo. Dopotutto, "Seneca", spiega ancora Wilson, "non poteva non aver capito, fin dal suo ingresso a corte, e sempre pi� col passare del tempo, che la sua vita era nelle mani di un giovane capriccioso e umorale". Gli intellettuali d'et� imperiale, in effetti, sperimentavano spesso che "l'insidia viene da un uomo solo, molto potente, di cui tutti potrebbero essere vittime". Seneca, bench� stoico, non voleva affatto morire. Cos�, si present� da Nerone, per provare a salvarsi la pelle (e la faccia). La butt� sul sentimentale: "L'uno e l'altro abbiamo colmato la misura, tu, per quanto un principe pu� dare a un amico, io, per quanto un amico pu� ricever da un principe". L'imperatore, cortesemente, gli impose di restare: "Se tu mi rendessi il denaro e abbandonassi il principe", obiett�, "tutti parlerebbero non della tua modestia, n� del tuo desiderio di riposo, ma della mia cupidigia e della tua paura per la mia crudelt�". Poi baci e abbracci. Ipocriti, naturalmente. Comunque sia, nei mesi successivi il maestro spar� dalla circolazione, ritirandosi in campagna. Nessuno sapeva davvero il perch�, tranne Nerone: Seneca lo aveva abbandonato per timore di finire come Burro, esponendolo oltretutto alle maldicenze della plebe. Una colpa imperdonabile. Nel 65 d.C. Roma fu scossa dalle fondamenta. Venne alla luce una pericolosa congiura ordita contro l'imperatore. La capeggiava un noto patrizio, Calpurnio Pisone, tradito dalla delazione di un tale Volusio Proculo. La macchina della repressione si mise subito in moto, implacabile: a Pisone e agli altri congiurati tocc� la morte. E Seneca? Soltanto uno dei complici, Antonio Natale, lo nomin�, precisando di "essere stato mandato a visitare Seneca malato", il quale, in quell'occasione, si era limitato a replicare che "gli scambievoli discorsi e i frequenti colloqui non servivano a nessuno dei due e che la sua salvezza s'appoggiava sull'incolumit� di Pisone". Nerone, con o senza convinzione, volle leggere in queste parole un'ammissione di connivenza con i cospiratori. La verit� � che aveva un conto in sospeso con l'anziano maestro. E lo sald�. Nerone invi� un tribuno nella tenuta del filosofo a Mentana, con l'ordine che il traditore morisse. Seneca, stavolta da vero stoico, ubbid� tagliandosi le vene, tra i pianti della moglie Paolina e degli amici presenti. Cap� solo allora la bellezza della sua filosofia.