Febbraio 2022 n. 2 Anno VII Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi �Regina Margherita� Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. Resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del MiBACT. Indice Perch� il giornalismo fa fatica a raccontare la scienza Cervello e sonno: il lavoro della mente quando dormiamo La sottile arte di invecchiare Perch� il giornalismo fa fatica a raccontare la scienza (Ilpost.it) - La tendenza a ridurre l'incertezza e la complessit�, a fare previsioni e a individuare un inizio e una fine � incompatibile con la descrizione di processi che seguono logiche diverse. - Nel dicembre 2021 la diffusione della variante omicron in molti paesi del mondo e un significativo aumento dei contagi hanno ampliato i margini di incertezza riguardo all�evoluzione della pandemia e alla previsione di quando diventer� un argomento meno centrale nelle cronache del tempo che stiamo vivendo. Come accaduto in altre circostanze negli ultimi due anni, l�incertezza � diventata motivo di un�estesa e per molti versi comprensibile frustrazione, a sua volta legata a un condiviso scoramento per i condizionamenti esercitati dalla pandemia, in gradi e forme differenti, sulle vite di tutte le persone. Ad accrescere il senso di frustrazione collettiva ha in parte contribuito la sostanziale impossibilit� di accelerare i tempi di riduzione di quei margini di incertezza, percepita dalla gran parte dei media e dell�informazione generale come un ostacolo da superare il pi� velocemente possibile. La tendenza � di cercare di escluderla � pi� o meno gradualmente � dalle descrizioni accurate degli eventi, nel tentativo di renderle pi� chiare e comprensibili. � una tendenza che in una certa misura ha a che fare con gli obiettivi stessi dell�informazione e con l�ambizione di spiegare le cose, ma che per altri versi trova una sua espressione in alcune forme di giornalismo che prediligono alle descrizioni la dimensione del racconto, e che fanno delle narrazioni uno dei principali strumenti di riduzione e addomesticamento della complessit�. In un passaggio di un articolo di fine anno in cui cerca di trarre insegnamento dalla rilettura dei suoi editoriali sul Washington Post, la giornalista conservatrice Kathleen Parker, peraltro premio Pulitzer nel 2010 come migliore editorialista, riferendosi a un suo pezzo sulla pandemia ha scritto: �A maggio parlai troppo presto, in un editoriale che celebrava un abbraccio a lungo rimandato con amici e amiche, e in cui dichiarai la fine dell�uso della mascherina. Difficilmente potrei essere biasimata, ma come apprendemmo in seguito, il virus � lungi dall�essere sotto controllo � � una creatura selvaggia con una scoraggiante facilit� di travestimento. Nessuno rimase ferito dalla mia gioia, ma ripensandoci a posteriori lo scetticismo dovrebbe essere un ospite fisso a qualsiasi festa del giornalismo�. Il tentativo di ridurre l�incertezza attraverso schemi e modelli narrativi, raccontando storie che abbiano un inizio, uno sviluppo e una fine, e magari dei personaggi e dei colpevoli, pu� generare problemi pi� evidenti quando un certo grado di incertezza e l�assenza di processi con un finale gi� noto sono elementi costitutivi della parte di mondo che il giornalismo cerca di spiegare. Eventualit� abbastanza frequente nel caso del giornalismo scientifico. Il 30 dicembre scorso il giornalista americano Jeff Jarvis, rispettato e seguito studioso dei cambiamenti dell�informazione e della comunicazione digitale, ha espresso una critica � molto ripresa e commentata � verso i modi in cui il giornalismo tende a trattare le questioni scientifiche. Il giornalismo non ha idea di come trattare la scienza come processo. I giornalisti vogliono risposte definitive, mentre la scienza controlla e ricontrolla costantemente le proprie domande, arrivando a pi� domande. Quindi i giornalisti distorcono la percezione pubblica della scienza, rendendo un pessimo servizio. Jarvis, che gi� da molto tempo prima della pandemia si era occupato della deriva dello storytelling nel giornalismo, sostiene che la tentazione di raccontare storie con un inizio e una fine sia un approccio poco adatto alla descrizione delle questioni di cui si occupa la scienza, che � �un processo privo delle conclusioni ordinate che il giornalismo desidera�. Un approccio preferibile, prosegue, potrebbe piuttosto essere quello pi� interessato a fornire strumenti e istruzioni utili a comprendere i nuovi risultati che di volta in volta emergono nel processo della scienza, un approccio consapevole che �il mondo sia meno spiegabile di quanto vorremmo ammettere�. All�inizio della pandemia, anche il gruppo del sito Slate che cura la sezione �Future Tense� � dedicata a politiche pubbliche, societ� e tecnologie emergenti, in collaborazione con l�Universit� statale dell�Arizona � si interrog� riguardo al migliore approccio al problema della comunicazione della scienza durante una crisi mondiale, chiedendosi se concentrare l�attenzione del pubblico sull�accuratezza delle informazioni, qualit� estesamente invocata nel dibattito e condizione di ogni buona comunicazione scientifica, fosse effettivamente una mossa opportuna o piuttosto controproducente. Limitarsi a rispettare l�obbligo di essere precisi, secondo Slate, �oscura la realt� che l�accuratezza � una nozione inconsistente durante una crisi come questa, in cui regna l�incertezza�. In casi del genere, proseguiva, � molto alto il rischio che una scienza considerata inizialmente corretta si riveli successivamente errata o incompleta, deludendo le aspettative di quella parte di pubblico non sufficientemente attrezzata a tracciare una chiara linea di separazione tra la disinformazione e i normali processi della scienza. E attenersi all�accuratezza diventa quindi un�indicazione insufficiente, dal momento che i problemi di comunicazione che complicano la proliferazione di informazioni generata dall�esigenza di avere pi� notizie sul coronavirus � la cosiddetta �infodemia� � �sono molto pi� ampi della semplice esistenza di falsit�. Del giornalismo scientifico e di alcune tendenze che rischiano di ridurne la credibilit� ha scritto recentemente Cameron English, scrittore e giornalista scientifico americano che lavora per l�American Council on Science and Health, un�organizzazione che si occupa di diffondere le conoscenze scientifiche nelle politiche pubbliche relative a questioni come la salute e l�ambiente. Secondo English, uno dei limiti del giornalismo � comune anche alle piattaforme di Internet � � di trattare questioni scientifiche nel quadro di un�agenda pi� ampia, condizionata da valutazioni di altro tipo. Gli esempi sono numerosi, sostiene English, che per farsi capire cita la pubblicazione sul Washington Post di un articolo contro gli erbicidi a base di glifosato scritto ad aprile scorso da una criticata ricercatrice del Massachusetts Institute of Technology (MIT), i cui interventi controversi sono spesso stati rilanciati dal Children�s Health Defense, gruppo americano di attivisti presieduto da Robert F� Kennedy Jr� e noto principalmente per le attivit� di disinformazione sui vaccini. Appena due mesi prima, ricorda English, il Washington Post aveva pubblicato un�articolata confutazione di una serie di affermazioni false di Robert F� Kennedy Jr� sui vaccini. E questo pu� generare qualche contraddizione: �i media non possono attaccare in modo credibile lo scetticismo sui vaccini mentre fanno da piattaforma agli attivisti contro i vaccini�, scrive English. Un�altra tendenza emersa negli ultimi due anni in un certo giornalismo su questioni scientifiche � stata quella di riportare conclusioni e descriverle come incontrovertibili in un contesto in cui non erano invece ancora disponibili tutti i dati. Uno degli esempi pi� noti, secondo English, � quello dell�ipotesi dell�origine del coronavirus in laboratorio, e non in seguito a un passaggio diretto da qualche specie animale agli esseri umani. Inizialmente scartata e ritenuta una teoria del complotto basata su pregiudizi razziali, l�ipotesi era riemersa a maggio 2021 e se ne era tornato a discutere apertamente sui media e sui social a seguito dell�ordine rivolto da Joe Biden alle agenzie di intelligence di indagare pi� a fondo e con maggiore impegno sulle origini del coronavirus. Non � ancora chiaro quale sia stata l�origine del coronavirus, ed � improbabile che nel breve termine possano emergere nuovi elementi utili a fornire risposte a questa domanda. Ma resta il fatto che l�ipotesi del laboratorio fu rilanciata in assenza di prove da una parte del giornalismo, e invece rivalutata a mesi di distanza da un�altra parte dei media che inizialmente l�avevano sminuita. �Peggio ancora: i giornalisti hanno permesso chiaramente alla politica del governo di dettare i confini di accettabilit� delle opinioni�, aggiunge English. C�� poi nel giornalismo scientifico un problema che riguarda in generale la costruzione di false dicotomie nei dibattiti e la mancanza di sfumature nella descrizione delle cose, dei fenomeni e dei processi, un difetto in parte connesso ai limiti metodologici dell�approccio �narrativo� indicati da Jarvis. �In linea con la nostra cultura politicizzata, ai media piace riconoscere gli individui e le organizzazioni come eroi o come cattivi, le sostanze chimiche come pericolose o sicure, determinati punti di vista come buoni o cattivi�, afferma English. Ed �, secondo lui, un approccio che non riconosce l�incertezza che dovrebbe invece essere alla base della comunicazione scientifica. Nel caso dell�uso della mascherina per ridurre i contagi, scrive English per fare un altro esempio, una parte consistente del giornalismo si concentr� sulle numerose prove a sostegno dell�efficacia delle mascherine come strumento di prevenzione, soprattutto in alcuni contesti (per esempio, nelle strutture sanitarie). Ma per sostenere con pi� vigore la sensatezza e la necessit� di renderne l�uso obbligatorio in qualsiasi contesto pubblico, molte semplificazioni giornalistiche diedero scarso conto dei limiti delle mascherine in particolari condizioni, trascurando gli esperti che avevano opinioni meno nette e pi� sfumate al riguardo, e lasciando che gli spazi di incertezza riguardo alle mascherine venissero esclusivamente occupati da politici giudicati �contrari alla scienza�. Opinioni nette e prive di sfumature, fa notare English, sono comuni anche tra molte persone contrarie ai vaccini. Nel 2009, l�azienda farmaceutica Pfizer ricevette una multa da 2,3 miliardi di dollari per pratiche di marketing fraudolento, un fatto utilizzato da diversi no vax come argomento a sostegno delle loro attuali diffidenze. In nessuno dei due esempi la certezza � giustificata. Sottolineare i limiti delle mascherine non ti rende �contrario alla scienza�, n� il vaccino prodotto da Pfizer � pericoloso a causa delle macchie nel passato dell�azienda. Tutti i dispositivi medico-sanitari hanno dei limiti, incluse le mascherine. Le aziende farmaceutiche possono sviluppare farmaci salvavita e talvolta impegnarsi in pratiche commerciali torbide. Il pubblico sarebbe servito meglio da media in grado di tollerare quel tipo di sfumatura. L�effetto pi� problematico di questo tipo di approccio non in grado di restituire la complessit� delle cose, secondo English, � quello di distorcere non soltanto le questioni specifiche affrontate di volta in volta ma soprattutto i processi della scienza in generale. �Se vogliamo una popolazione scientificamente istruita, che ponga costantemente le proprie convinzioni al vaglio dei fatti, noi giornalisti scientifici dobbiamo mettere in pratica ci� che predichiamo�, conclude English. Anche lo scienziato e blogger statunitense Scott Alexander, in una pubblicazione recente della sua popolare newsletter Astral Codex Ten, si � occupato dei rapporti tra il giornalismo e la scienza, e in particolare della problematicit� di alcune espressioni linguistiche il cui senso in ambito accademico � noto e condiviso, ma che si prestano a letture equivoche nella pratica giornalistica. Da questo punto di vista, �non c�� alcuna prova� (in inglese: there is no evidence) � considerata da Alexander una delle espressioni pi� insidiose nella comunicazione della scienza. Diversi titoli giornalistici che fanno uso di questa espressione sono spesso virgolettati, cio� parole attribuite a persone specifiche. Negli ultimi due anni � capitato con una certa frequenza che quelle persone fossero autorit� sanitarie o persone titolate a parlare della pandemia, le quali in mancanza di dati sufficienti e studi consolidati si limitavano a descrivere lo stato delle conoscenze dicendo, in buona fede: �non ci sono prove�. Pur essendo formalmente corretti nella gran parte delle circostanze, sono titoli che ammettono interpretazioni anche molto differenti, a seconda dei casi. Che non ci siano prove di una certa cosa viene spesso inteso giornalisticamente come una prova di assenza, che per� � un significato molto diverso da quello inteso prudentemente con l�espressione �non ci sono prove� quando, per esempio, le conoscenze non sono ancora supportate da studi ma soltanto da intuizioni o aneddotica (che non sono considerate prove scientifiche). Nella pratica, spiega Alexander, la frase �non ci sono prove� finisce per essere ugualmente appropriata, e quindi poco utile, in casi diversissimi tra loro e anche opposti: sia quando una cosa � plausibile ma ancora non verificata, sia quando � plausibilmente falsa. All�inizio della pandemia non esistevano studi che dimostrassero la trasmissione del coronavirus per via aerea, per esempio, ed era quindi corretto sostenere che non ci fossero prove. Allo stesso modo � corretto dire, per esempio, che non ci siano prove a sostegno dell�ipotesi che i vaccini provochino aborti spontanei. Ma in questa seconda occorrenza, a differenza del caso della trasmissione del virus per via aerea, l�espressione � utilizzata per indicare un certo grado elevato di fiducia nel fatto che l�ipotesi sia falsa. Immagina di essere un tizio qualsiasi. Leggi il titolo �nessuna prova di trasmissione del coronavirus tra esseri umani�, e poi un mese dopo si scopre che questa modalit� di trasmissione � comune. Leggi �nessuna prova che colleghi la COVID ai ristoranti al coperto�, e un mese dopo i governi chiudono i ristoranti al coperto a causa dei contagi che provocano. Leggi �nessuna prova concreta che la nuova variante sia pi� trasmissibile�, e un mese dopo � tutto in modalit� panico perch�, alla fine, la variante era pi� trasmissibile. E a quel punto leggi �nessuna prova che 45 mila persone siano morte per complicazioni legate al vaccino�. Non suona tanto rassicurante, no? L�ambiguit� dell�espressione �non ci sono prove� rimanda, in una certa misura, a un�incompatibilit� di fondo tra il piano scientifico e quello della cronaca di tutti i giorni. Nella scienza tradizionale, scrive Alexander, in genere si comincia da un��ipotesi nulla� (o ipotesi zero, null hypothesis), definita come un�ipotesi di relazione tra due fenomeni o due gruppi, ipotesi probabilmente falsa ma la cui probabilit� di essere vera pu� essere calcolata mediante esperimenti statistici. Rispetto alla domanda �le dimensioni di un paese influiscono sulla densit� della sua popolazione?�, per esempio, l�ipotesi nulla � �tutti i paesi hanno la stessa densit� di popolazione�. Nello studio del fenomeno si procede quindi verificando l�ipotesi nulla: in caso di risultati sorprendenti, l�ipotesi nulla viene accantonata, concludendo che c�� in effetti un�ipotesi alternativa degna di interesse. Diversamente, non ci sono prove di niente, appunto, e l�ipotesi nulla rimane. Il punto � che nella vita reale non esiste niente di simile a una condizione in cui sia presente �nessuna prova� (l�ipotesi nulla), afferma Alexander, ed � infatti impossibile attribuire a questa espressione un senso coerente. Per esempio: che senso avrebbe dire che non c�� ��alcuna prova� che l�uso del paracadute aiuti a prevenire lesioni se si salta gi� da un aereo?�, si chiede Alexander citando un articolo pubblicato nel 2003 sul British Medical Journal. Se per �prove� intendiamo �articoli di riviste sottoposte a revisione paritaria�, effettivamente no, non c�erano precedenti studi che dimostrassero l�efficacia dei paracadute, a quanto ne sapevano gli autori dello studio del 2003. Ma � chiaro che una frase del tipo �non ci sono prove che l�uso del paracadute aiuti a prevenire lesioni� suonerebbe quantomeno bizzarra. Non se ne esce neppure se si estende il significato di prove a quello di prove informali, tralasciando l�assenza di articoli scientifici, scrive Alexander. Centinaia di persone che affermano di essere state rapite dagli alieni, per esempio, non bastano a rendere inesatta l�espressione �non ci sono prove del rapimento di persone da parte degli alieni�. Ed � cos� perch� le affermazioni di quelle persone non sono considerate una prova allo stesso modo di come lo sarebbero le affermazioni di 100 persone che affermassero di essere state pugnalate da un tale di nome Bob. In questo caso, anche a voler pensare che si tratti di 100 testimoni bugiardi, non diremmo di certo che l�accusa contro Bob non ha �alcuna prova�. Secondo Alexander, le complicazioni legate all�uso dell�espressione �nessuna prova� derivano dal fatto che la nozione popolare di questo concetto non riflette il modo in cui funziona normalmente la ricerca della verit� nella vita di tutti i giorni, ricerca che procede per aggiornamento di modelli probabilistici del mondo sulla base di nuovi input. Nella vita di tutti i giorni, in seguito alla raccolta di prove abbastanza convincenti, il modello viene aggiornato. E non � escluso che si possa anche finire in un punto molto distante da quello di partenza, sostiene Alexander: come quando qualcosa di molto poco plausibile si dimostra vero, o viceversa come quando un �dogma� per lungo tempo sostenuto incondizionatamente si dimostra falso. Ma una volta compreso questo processo, �non ha pi� senso usare �nessuna prova� come sinonimo di �falso��, nonostante sia una consuetudine cos� profondamente radicata nel giornalismo scientifico. Nei casi in cui si presenti la necessit� di utilizzare l�espressione �non ci sono prove� � tipicamente, in mancanza di convinzioni forti e di studi riguardo a una determinata ipotesi, che sia per qualche motivo diventata degna di attenzioni nella cronaca � il suggerimento di Alexander a chi si occupa di comunicazione della scienza � di esplicitare che l�assenza di prove riguarda non soltanto una determinata ipotesi ma anche altre ipotesi in generale sullo stesso fenomeno. E quindi di non limitarsi a dire, per usare il suo esempio, che �non ci sono prove che l�olio di serpente funzioni�. Se poi si tratta di un caso in cui i migliori medici e scienziati del mondo concordano, allora � meglio evitare �false oggettivit� e preferire un titolo chiaro del tipo �Gli scienziati: l�olio di serpente non funziona�. Il modo pi� virtuoso di gestire l�incertezza, conclude Alexander, resta comunque quello di andare pi� a fondo nelle questioni che emergono di volta in volta nel dibattito. �Se vale la pena fare un pezzo sul perch� non ci siano prove di qualcosa, probabilmente � perch� alcune persone credono che le prove ci siano�, e allora � il caso di chiedersi quali siano quelle prove ed eventualmente perch� sia sbagliato crederci. Cervello e sonno: il lavoro della mente quando dormiamo (di Fiorenza Giganti, �Psicologia contemporanea� n. 12/21) - Recenti studi ci hanno fatto capire che il sonno e il sogno hanno un ruolo in alcuni processi cognitivi, quali l�apprendimento di nuove conoscenze e il consolidamento e l�integrazione delle nuove memorie. - �Nam qui dormiunt libenter, sine lucro et cum malo quiescunt� (Infatti coloro che volentieri dormono, riposano senza alcun profitto e a loro discapito) scriveva il commediografo latino Plauto, in Rudens (La gomena), composta tra la fine del III e l'inizio del II secolo a.C. Da questa frase deriva il famoso proverbio �Chi dorme non piglia pesci�, citato per indicare che il dormire (o comunque il permanere in una condizione di riposo o di inattivit�) non porta alcun guadagno. Diversamente, oggi, la ricerca scientifica ci dice che il sonno � molto importante non solo per il nostro corpo, ma anche per la nostra mente (per una trattazione approfondita, si veda Ficca, Fabbri, 2019): ciascuno di noi trascorre circa un terzo della propria vita dormendo e questo tempo non � affatto perso. Sono passati diversi secoli da quando Aristotele descriveva il sonno come un fenomeno passivo e ne attribuiva l'inizio a fattori esterni (i vapori generati dalla digestione del cibo, la cessazione degli stimoli ambientali ecc�). Attualmente, sappiamo invece (anche grazie all'uso di tecniche e apparecchiature elettrofisiologiche sempre pi� sofisticate) che il sonno � un processo fisiologico complesso, che ha inizio e si mantiene grazie all'attivazione di determinate aree cerebrali e alla produzione di specifiche sostanze chimiche. Una delle scoperte pi� importanti che gli scienziati hanno realizzato intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso riguarda il fatto che il sonno non � un fenomeno omogeneo, ma � suddiviso in stati e stadi diversi. In particolare, attraverso l'analisi dell'attivit� cerebrale, i ricercatori hanno identificato due tipi di sonno, il sonno REM (Rapid Eye Movements) e il sonno NREM (Non REM), il quale a sua volta si differenzia in tre stadi in base alle caratteristiche dell'attivit� cerebrale. In particolare, all'interno del sonno NREM distinguiamo una porzione di sonno pi� leggero (stadi N1 e N2) e una porzione di sonno pi� profondo (stadio N3), in cui il nostro corpo e il nostro cervello recuperano dalle �fatiche� della veglia. Ma il tipo di sonno che inizialmente ha suscitato maggiore interesse nei ricercatori � sicuramente il sonno REM, chiamato cos� per la presenza di movimenti oculari rapidi, e che presenta particolari caratteristiche, quali la quasi totale perdita di tono nei muscoli antigravitazionari (i muscoli che ci permettono di mantenere la posizione eretta), importanti cambiamenti nelle funzioni vegetative (per esempio, irregolarit� cardiache e respiratorie) e un'attivit� cerebrale caratterizzata da elevata frequenza e bassa ampiezza delle onde elettriche cerebrali simile a quella che osserviamo in veglia. In altri termini il corpo dorme, ma il cervello rimane attivo! Il sonno NREM e il sonno REM si alternano in modo regolare durante l'episodio di sonno organizzandosi in cicli, ossia sequenze di sonno NREM-REM che si ripetono nel tempo, a cui sono legate importanti attivit� biologiche (per esempio, processi anabolici e di sintesi proteica) e cognitive (per esempio, il consolidamento e la riorganizzazione delle tracce di memorie che si sono create durante la veglia). Gli scienziati solitamente rappresentano l'episodio di sonno attraverso un grafico che offre informazioni non solo sulla successione nel tempo dei diversi stati di sonno, ma anche sulla sua architettura interna. L�osservazione di questo tipo di grafico mostra che il sonno pi� profondo (stadio N3), essenziale, come abbiamo detto, per il recupero sia fisico sia mentale, prevale nella prima parte dell'episodio, mentre il sonno REM e gli stadi pi� leggeri del sonno prevalgono nella seconda parte. Questa struttura si traduce anche in una diversa reattivit� agli stimoli ambientali durante il sonno e, in particolare, in una maggiore difficolt� a essere svegliati da stimoli esterni nelle prime ore del sonno rispetto alle ultime. Infatti, mentre dormiamo non siamo completamente disconnessi dall'ambiente esterno, poich� stimoli sufficientemente intensi o rilevanti possono essere elaborati dal nostro cervello o addirittura svegliarci, sebbene questo accada in misura maggiore in certi momenti del sonno rispetto ad altri. In particolare, durante il sonno REM il nostro cervello risponde a eventuali stimoli sensoriali come se fosse sveglio. � proprio la cornice di attivazione fisiologica e neurovegetativa che caratterizza il sonno REM ad aver attirato l'attenzione dei ricercatori con l'ipotesi che durante questo tipo di sonno fossero prodotti i nostri sogni e fossero consolidati gli apprendimenti della veglia. Gli scienziati hanno iniziato a studiare il sogno in laboratorio, svegliando in momenti diversi della notte giovani studenti e chiedendo se e cosa avevano sognato prima di essere svegliati. I primi risultati sembrarono mostrare che i sogni fossero prodotti solo durante la fase REM (informazione errata che ancora oggi si trova su alcuni libri e riviste non specialistiche), ma studi successivi dimostrarono, al contrario, che la presenza di attivit� mentale durante il sonno � pressoch� continua, e la differenza fra i resoconti di sogni che si raccolgono dopo risvegli in fase REM o in fase NREM � soprattutto qualitativa. In particolare i sogni pi� bizzarri, pi� vividi, con un maggiore coinvolgimento emotivo e che si ricordano in maggior misura, sono quelli che si verificano soprattutto in sonno REM, mentre i sogni che assomigliano a una forma di pensiero pi� astratto simile a quella che abbiamo quando siamo svegli, sono quelli che si verificano generalmente in sonno NREM. Agli psicofisiologi che iniziarono a studiare il sogno in laboratorio non interessava sapere quali significati nascosti si celassero dietro i sogni (lasciavano questa indagine agli psicoanalisti), ma piuttosto quali fossero i processi cognitivi coinvolti nella produzione di un sogno e se i sogni potessero svolgere un ruolo per il funzionamento della nostra mente. Infatti, sebbene le stranezze che spesso caratterizzano i nostri sogni siano state interpretate come la conseguenza di un basso livello di funzionamento dei processi cognitivi che in veglia elaborano e organizzano in modo coerente e plausibile le informazioni, la nostra attivit� onirica � comunque espressione di un cervello che continua a lavorare anche mentre dormiamo. Volendo sintetizzare i principali risultati dei numerosi studi che sono stati svolti a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso (Cipolli et al., 2017) possiamo dire che la produzione dei sogni � strettamente legata ai processi di memoria e che il ricordo del sogno al risveglio � modulato da vari fattori legati, per esempio, alla salienza del sogno, al contesto in cui dormiamo (a casa o in laboratorio), alle attivit� svolte subito dopo il risveglio, che possono interferire sul ricordo, al tipo di risveglio (brusco o graduale) e al tipo di sonno da cui ci svegliamo. Non esistono persone che non sognano mai, ma esistono invece differenze sia intra- sia inter-individuali rispetto alla frequenza con cui si ricordano i sogni, legate anche a quanto un individuo sia motivato a ricordarli. Quali sono gli input che generano i nostri sogni? Gi� Freud aveva osservato che alcuni contenuti onirici possono essere ricondotti a ricordi e conoscenze che il soggetto da sveglio � ignaro di possedere. Anche oggi gli psicofisiologi ritengono che l'origine dei contenuti onirici possa risiedere nella riattivazione, durante il sonno, di tracce di memoria relative sia a eventi recenti o passati sia a conoscenze generali e astratte o anche a comportamenti o memorie autobiografiche del soggetto. Queste memorie costituiscono il materiale iniziale utilizzato dal cervello per costruire la trama del sogno sul quale poi si attivano processi, al di fuori della consapevolezza del soggetto, che operano una selezione e una prima organizzazione in una trama narrativa. Ci sarebbe quindi una continuit� tra la vita psicologica diurna e quella notturna (sleep continuity hypothesis) che permetterebbe al sonno di avere anche un effetto positivo sulla regolazione delle nostre emozioni e sulla soluzione di problemi rimasti irrisolti durante la veglia. Inoltre, sempre seguendo un approccio cognitivista, un'altra importante funzione svolta dai sogni sarebbe quella di facilitare il consolidamento delle informazioni acquisite in veglia. A tal riguardo diversi studi hanno evidenziato che i soggetti che incorporavano nel contenuto dei loro sogni elementi relativi ad apprendimenti che si erano realizzati in veglia (per esempio l'apprendimento di una lingua straniera o di un nuovo videogioco) avevano prestazioni migliori rispetto a coloro che non riportavano tali elementi nella loro produzione onirica. Rispetto alla relazione fra sonno e memoria, � importante ricordare che, a partire dalla prima met� del secolo scorso, numerosi studi hanno mostrato che il sonno � nel suo complesso, e non solo in relazione alla produzione onirica - ha un effetto positivo sul consolidamento delle memorie acquisite durante la veglia (per una rassegna sull'argomento si veda Conte, Ficca, 2013). In particolare, i primi studi svolti intorno agli anni Venti del secolo scorso evidenziarono che l'apprendimento di sillabe senza senso era migliore dopo un episodio di sonno rispetto a un intervallo temporale di uguale durata trascorso in veglia. Questo effetto, definito nella letteratura scientifica con il termine di �sleep effect�, fu inizialmente attribuito alla ridotta quantit� di interferenze durante il sonno dovuta a una riduzione delle afferenze sensoriali. Tuttavia, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, in base ai risultati di altri studi, fu ipotizzato che il nostro cervello svolgesse attivamente, durante il sonno, delle operazioni volte a stabilizzare le tracce di memoria. Ricerche successive ipotizzarono poi un ruolo specifico del sonno NREM per il consolidamento di memorie dichiarative (che si riferiscono al ricordo delle conoscenze generali sul mondo e sul linguaggio, la cosiddetta �memoria semantica�, e degli eventi che hanno una specifica connotazione spazio-temporale, la �memoria episodica�) e del sonno REM per il consolidamento di memorie procedurali (che si riferiscono all'acquisizione graduale di abilit� quale risultato della pratica nel fare le cose). Un'ipotesi alternativa � stata proposta dai cosiddetti �modelli sequenziali�, in cui si ritiene determinante per il verificarsi dello �sleep effect� la cooperazione dei due tipi di sonno e in particolare il ciclo NREM-REM. A livello neurobiologico il consolidamento della memoria durante il sonno sarebbe possibile grazie a una �potatura sinaptica� che avrebbe luogo durante il sonno. Nello specifico, mentre dormiamo il nostro cervello eliminerebbe le informazioni pi� inutili e irrilevanti, e renderebbe pi� solide, e quindi durature, quelle pi� importanti, attraverso un meccanismo di depotenziamento/potenziamento sinaptico. Secondo altri autori il consolidamento delle informazioni sarebbe dovuto a una riattivazione, durante il sonno, degli stessi pattern neurali che si sono attivati durante gli apprendimenti nel corso della veglia e l'incorporazione nel contenuto dei sogni di elementi relativi ad apprendimenti diurni, precedentemente descritta, potrebbe esserne una prova. In particolare, alla base di questo processo vi sarebbe, durante il sonno, uno scambio di informazioni tra l'ippocampo (una struttura coinvolta nella formazione e nella conservazione dei ricordi) e la neocorteccia che favorirebbe il cosiddetto �potenziamento a lungo termine� (l'aumento della forza della trasmissione neurale derivante dal rafforzamento delle connessioni sinaptiche) e che permetterebbe la trasformazione di apprendimenti inizialmente deboli in acquisizioni stabili e durature. In quest'ottica non sarebbe un solo tipo di sonno ad essere implicato nel consolidamento di un certo tipo di memoria, come si era inizialmente creduto, bens� l'intero episodio di sonno e, in particolare, la cooperazione ciclica dei due stati di sonno NREM e REM. In linea con questa ipotesi, alcuni studi svolti nel Laboratorio del sonno dell'Universit� degli Studi di Firenze mostrano che la disorganizzazione dei cicli di sonno porta a un peggioramento del ricordo di apprendimenti di tipo dichiarativo sia nell'anziano sia nel giovane adulto. La funzione che svolge il sonno per la memoria non � limitata solo a rendere pi� stabili e durature le informazioni acquisite in veglia, bens� anche a integrarle con informazioni preesistenti o addirittura a crearne di nuove. Pensiamo, per esempio, ai racconti aneddotici che attribuiscono all'effetto positivo del sonno (e dei sogni) la scoperta della formula del benzene o della tavola periodica degli elementi. Inoltre, recenti studi sperimentali svolti dal nostro gruppo di ricerca in collaborazione con il dipartimento di Psicologia dell'Universit� della Campania �Luigi Vanvitelli� mostrano che la rielaborazione delle tracce mnestiche dei nostri apprendimenti diurni - che si verifica durante il sonno - aumenta la qualit� e la continuit� del sonno stesso (Arzilli et al., 2019; Cerasuolo et al., 2019). In particolare, � stato osservato che svolgere, prima di dormire, un allenamento intensivo, che richiede l'attivazione simultanea di numerose funzioni cognitive, a un gioco sul cellulare (una versione modificata del gioco Ruzzle) porta ad avere un sonno pi� efficiente, meno frammentato e con una migliore organizzazione interna. Questi risultati possono rivelarsi molto utili non solo sul piano teorico, ma anche sul versante applicativo, in quanto suggeriscono che la pianificazione di training cognitivi prima del sonno potrebbe costituire un valido aiuto nel trattamento non farmacologico di alcuni disturbi del sonno. Quanto fin qui riportato dimostra dunque che, diversamente da quanto pensavano gli Antichi, il dormire non � affatto una perdita di tempo, bens� un periodo importante della giornata in cui il nostro cervello continua ad essere impegnato in una laboriosa attivit� di cui i nostri sogni potrebbero essere un rilevante correlato psichico. La sottile arte di invecchiare (di Alberto Manguel, �La Repubblica� del 12 gennaio 2022) - Scoprire il corpo che cambia, inventare una nuova routine. Ritrovare l�esperienza del tempo che passa nella lettura dei classici. Il racconto in prima persona di uno scrittore. - L�Italia sta invecchiando, ma non � detto che sia un male. Il Belpaese viene subito dopo il Giappone nella classifica delle nazioni con pi� anziani. Mi ricordo, in occasione della mia ultima visita a Firenze, di essermi arrampicato faticosamente fino a San Miniato al Monte e di aver notato uomini e donne pi� vecchi ma pi� agili di me che mi superavano, evidentemente abituati fin da piccoli a emulare gli stambecchi. Faccio indiscutibilmente parte della popolazione attempata del pianeta, ma ancora non riesco a capacitarmi di non essere pi� l'adolescente che mi guarda da foto scattate in luoghi e tempi remoti. Conosco con esattezza il momento in cui sono diventato vecchio. Fu il 15 novembre 1999 o gi� di l�, otto mesi dopo il mio cinquantacinquesimo compleanno. Vivevo a Calgary, nella provincia canadese dell'Alberta. L'inverno era cominciato presto e i marciapiedi erano ricoperti di ghiaccio. Stavo portando un vassoio di muffin alla mia vicina quando proprio davanti alla sua porta di casa, scivolai sul ghiaccio e caddi. Forse per proteggere i muffin, stesi in avanti le braccia e le mie gambe scivolarono all'indietro facendomi cadere in avanti, con conseguente strappo dei muscoli addominali. Cercai di rialzarmi e tutto quello che riuscii a fare fu sollevarmi con cautela a quattro zampe e arrivare, come un cane malfermo, fino alla casa della mia vicina. Non sentivo un gran dolore, ma nelle settimane successive un'ombra nera, come uno sversamento di petrolio, dilag� sulla mia pancia; non riuscivo nemmeno a piegarmi in avanti per allacciarmi le scarpe, o a sollevare le braccia per pettinarmi i capelli. Pian piano, l'ombra spar�, ma da allora non sono pi� riuscito a usare i muscoli addominali come si deve. Come in una Gestalt rovesciata, il mio corpo mi stava annunciando la sua presenza attraverso l'assenza progressiva delle sue componenti. La mia identit� comincia e finisce con il mio corpo, che fosse presente alla fine o assente all'inizio. Ora scopro parti del mio corpo che non sapevo esistessero, una terra incognita che sono costretto a esplorare, come un viaggiatore stanco e disilluso. Adesso il piacere deriva principalmente dal pensare, e i sogni e le idee sembrano pi� ricchi e chiari. La mente vuole dare piena prova di s�, ma il corpo, come un tiranno deposto, rifiuta di farsi da parte e insiste per avere attenzioni costanti: morde, prude, preme o cade in uno stato di torpore o di sfinimento ingiustificato. Una gamba si infiamma, un osso si raggela, una mano si blocca e un dolore non meglio precisato mi punzecchia in qualche punto delle viscere, distraendomi dai libri e dalla conversazione, e perfino dal pensiero stesso. Da giovane, mi sentivo sempre solo, perfino quando ero in compagnia di altri, perch� il mio corpo non mi assillava mai, non sembrava mai qualcosa di distinto da me, un ignominioso doppelg�nger. Era assolutamente, e indivisibilmente il mio unico io, singolare, invincibile, che non proiettava ombra, come Peter Schlemihl. Ora, perfino quando sono solo, il mio corpo � sempre l�, come un visitatore indesiderato, che fa rumore quando voglio pensare o dormire, che mi pianta il gomito nel fianco quando me ne sto seduto o me ne vado. La morte non mi spaventa; il dolore s�. Cicerone, che non mi � mai piaciuto come personaggio, fin da quando lo studiavamo al liceo, ha degli sprazzi di intuizione. Mettendo in bocca le sue parole all'ottantaquattrenne Marco Porzio Catone in un dialogo sulla vecchiaia, gli fa dire di aver sempre seguito la Natura come la migliore delle guide. �Non � verosimile che essa abbia descritto bene tutte le altre parti della vita�, aggiunge, �per poi buttare gi� l'ultimo atto, come un poeta senz'arte�. Non ha tutti i torti. Nessun lettore pu� immaginare un libro che ama senza un'ultima pagina: il libro infinito immaginato da Borges � un orribile incubo. Vogliamo posticipare le ultime parole il pi� a lungo possibile, ma sappiamo che devono esserci. Monsieur de Fontenelle, all'et� di novantanove anni, era seduto accanto al fuoco assieme a sua sorella, di pochi anni pi� giovane. �Ah, Monsieur de Fontenelle�, esclam� lei. �La morte si � dimenticata di noi!� Monsieur de Fontenelle si mise il dito sulla bocca e sussurr�: �Sssh!� Le uniche richieste pressanti che mi ha fatto il mio corpo dalla prima adolescenza e fino a qualche anno fa erano di natura sessuale. Chaucer dice che l'Indolenza � il custode che introduce gli uomini nella dimora di Venere: l'allegoria suona vera per me, nel senso che, a voler essere del tutto sinceri, gli svaghi sessuali mi hanno reso indolente in tutto il resto. Almeno fino ai trent'anni, tutto il resto, ogni altro genere di esplorazione, veniva in secondo piano rispetto al persistente godimento del corpo. Ora rimane una sorta di interesse archeologico per il sesso, attraverso la memoria, attravers� la narrazione, attraverso i piaceri estetici della contemplazione. Il corpo ha surrettiziamente rimpiazzato gli impulsi sessuali con piagnucolosi appelli all'attenzione per le articolazioni, i tendini, l'apparato urinario. Come una casa in cui viviamo da troppo tempo, ogni giorno c'� una cosa nuova da riparare. Cerco di tenere a bada il tempo in un luogo seguendo certi rituali: i preparativi la sera prima per la colazione del mattino dopo, sgombrare la mia scrivania e disporre penne e libri in ordine simmetrico, la sequenza di scarpe, mascherina e cappello prima di uscire a fare una passeggiata nel mio quartiere. Leggo Dante al mattino, un saggio a colazione e un romanzo giallo prima di andare a letto. Scrivo ogni giorno fino all'ora di pranzo e prendo appunti nel pomeriggio. Vado al mercato tutti i sabati. C'� un elemento di eternit� nella routine. Il segreto di Shangri-La e l'eterna giovinezza dei suoi abitanti era che non cambiava nulla nella vita della lamasseria in cima alle montagne del Tibet, come nel castello della Bella Addormentata. Il sonno, naturalmente, � il fratello della Morte, ci dice il poeta di Gilgamesh. Ma la routine non pu� impedire le tormentose trasformazioni della mia fisionomia. Credo di riuscire a ricordare di quando vidi per la prima volta la mia faccia nello specchio dell'armadio di mia madre, da bambino. La faccia che vedo adesso tutte le mattine � irriconoscibile per me. Ho una foto dei miei trisnonni appesa alla parete della mia camera da letto e ho sempre pensato che lui avesse un aspetto remoto. Ora trovo che gli assomiglio: le stesse borse sotto gli occhi, lo stesso sopracciglio corrugato, la stessa barba, la stessa aria distante. Cerco invano il viso che resta aggrappato alla mia mente, l'adolescente occhialuto con grandi orecchie e l'aria spaventata che ero una volta, ma � come se qualcuno avesse scarabocchiato sopra l'immagine, disegnando linee grosse sopra una superficie che fino a quel momento era intonsa. Cicerone faceva dire a Catone che l'et� anziana � naturalmente portata a parlare troppo. Lo so. Forse il motivo � che da giovani proviamo costantemente cose nuove, ci lanciamo nel mondo, mentre da vecchi la memoria del mondo irrompe e ci sommerge, e le parole e le immagini straripano. Monsieur de Fontenelle (ancora lui), quando il suo medico gli chiese come si sentisse rispose: �Provo una certa difficolt� d'essere�. La domanda di Amleto non regge: � limitata. Essere con difficolt�, essere sottoposti ai capricci di un corpo brontolone, essere meno agili, meno capaci fisicamente, pi� vigili, pi� curiosi. Di questo, sono immensamente grato.