Marzo 2023 n. 3 Anno VIII Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi �Regina Margherita� Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero della Cultura. Indice Comunicato: disponibilit� di copie residue in omaggio Odore di Maschio Filosofi stupefacenti Galileo: vivere e lavorare ai tempi della peste Volevo i pantaloni Comunicato: disponibilit� di copie residue in omaggio Informiamo i nostri lettori che sono disponibili 6 copie Braille complete dell�opera Produzione e traffici nella storia della civilt�, di Armando Saitta. L�opera � cos� composta: 1� libro: 5 volumi; 2� libro: 5 volumi; 3� libro: 8 volumi. Chi fosse interessato a ottenere in omaggio una copia dell�opera sopra indicata pu� farne richiesta telefonicamente, contattando il nostro Ufficio Utenti al numero 039.28327206 oppure 039.28327209. La stampa Braille, effettuata dalla Stamperia di Firenze, risale al 1973 e le copie potranno essere distribuite soltanto fino al loro esaurimento. Odore di Maschio (di Claudia Consonni) Ci sono diversi modi per far violenza ad una donna. Per scivolare dalle parole ai gesti, dai complimenti alle toccatine, dagli sguardi impalpabili eppure spessi come muri ai messaggi, alle mail fluttuanti nell�aria, alla manipolazione dei figli, ai regali e agli oggetti che s�interpongono tra lui e lei prima di arrivare al sangue. E la realt�, pi� potente dell�immaginazione, non ce li risparmia. Se la donna poi � disabile, allora! Le possibilit� si allargano a dismisura. Se � cieca e non pu� vedere il volto dello sconosciuto, aaah! Quale sensazione di leggerezza deve provare lui, godimento puro e impunibilit� certa. Milano � azzurra, tiepida. Siamo in primavera inoltrata, una mattina verso mezzogiorno di un giorno feriale del 1982. Sono su un autobus sferragliante, la 60 che passa da Cadorna Stazione Nord, si dirige verso il Castello, Piazza Cordusio, lascia di fianco il Duomo, va in San Babila, gira in Largo Augusto e poi via dritto lungo Corso di Porta Vittoria. Siedo su un seggiolino rigido, di quelli senza imbottitura che ti tagliano la schiena a met�. Ho i capelli scuri, sciolti sulle spalle, gli occhi azzurri ben aperti, vigili, attenti. Indosso sandali fucsia, jeans e una camicetta di Sangallo delicata come un fiore di pesco e sono di corporatura sottile. Che cosa dire ancora di me: sono adulta, ho un fidanzato, ma� sono cieca. Occupo un posto singolo, con il finestrino a sinistra e il corridoio a destra. Qui, rispetto ai seggiolini affiancati c�� pi� spazio per il mio cane guida che sta immobile accovacciato sotto al sedile. Ad ogni fermata si aprono le porte, l�autobus si svuota e si riempie in continuazione, per�, si formano anche spazi vuoti perch� non � ancora ora di punta. Le fermate toccano luoghi strategici e cos� tra i viaggiatori c�� molta variet�. Riconosco bene dalle voci alcune ragazze in fondo alla carrozza, sono studentesse. Alcuni pensionati frettolosi, con le buste della spesa appese al braccio spingono le persone che hanno davanti. Seduta a riposare c�� qualche donna che va a servizio negli appartamenti di lusso perch� questa � una zona storica, bella e cara. Da San Babila a Palazzo di Giustizia c�� un gran movimento di avvocati che dagli studi del centro vanno al Tribunale. Clienti danarosi, faccendieri con la valigetta 24 ore e yuppie, gente che odora di profumi firmati, dopobarba e sigarette. Capita anche d�incontrare un tipo ben diverso di umanit� che emana puzza di sudore, di adrenalina, di paura, di aule di tribunale. Sono testimoni, imputati, uomini e donne che frequentano i processi e che in autobus danno sfogo alla rabbia, al dolore, al desiderio di giustizia e qualche volta di vendetta. Le porte alla mia destra si aprono e si chiudono sbattendo e facendo vibrare il mezzo. Siamo in San Babila, la carrozza si riempie, corpi ammassati, bloccati nel corridoio e qualcuno o qualcosa si appoggia al mio braccio. Lentamente le persone si spostano, scorrono a cercare da sedere, quella pressione tra il braccio e la spalla rimane ferma, fissa, e continua a muoversi. - Come mai? - Chi si sta appoggiando a me in questo modo? Forse � un oggetto che sporge da una borsa? - Ma non mi vede? - Possibile che non se ne accorga? - Uffa! Mi sta dando fastidio! - E perch� non sta fermo? - Che trovi la posizione e si sposti una buona volta! Sono sveglia, attenta, con gli occhi ben aperti e dunque cerco di comprendere che cosa sta succedendo. La cosa, se � poi una cosa, non si pu� muovere da sola, ma deve seguire i movimenti di un corpo o di una mano. - Mi sembra impossibile che non mi veda! - Torno a chiedermi. Deve essere di spalle, o magari � uno studente con lo zaino che contiene, in fondo alla sacca, qualche cosa di duro che va proprio ad appoggiare contro di me. Questa � una buona ipotesi. L�oggetto sul fondo dello zaino potrebbe essere un accendino messo in verticale perch� il movimento va su e gi�. Un altro ragionamento mi suggerisce che a quell�altezza, da seduta, tra la spalla e il braccio, una persona in piedi accanto a me dovrebbe avere, se di schiena, la fine dello zaino o le tasche dei pantaloni quindi, l�accendino potrebbe stare in una tasca, ma se fosse di fronte? Sicuramente non � una signora, perch� mi vedrebbe e si sposterebbe scusandosi. No, � uno studente con lo zaino sulle spalle, un adolescente chiuso nel suo mondo, magari con le cuffiette, che non si accorge di niente, n� del suo corpo, n�, tanto meno, di quello degli altri. Fatta questa considerazione mi sento rassicurata ma, lo sfregamento della cosa contro il pizzo della manica � diventato insopportabile, quasi doloroso, esasperante. Bisogna che attiri la sua attenzione e glielo faccia smettere! Per� non sono sicura che � un�accendino, mi sembra un oggetto pi� grande. Un pacchetto di sigarette non �, perch� dovrebbe essere pi� morbido e io sento qualche cosa di duro, di rigido. Un portachiavi forse. Nemmeno, perch� non ho la percezione del metallo. E allora?� Quel su e gi� continuo mi toglie il respiro! Le ragazze in fondo alla carrozza gridano: - Adesso basta! Loro hanno visto e compreso, ma che cosa? Lentamente giro la testa, il naso, a pochi centimetri dalla cosa vede, sente e capisce tutto: Odore di maschio! Deglutisco ammutolita, sbiancata� - Verme, sei un lurido verme! - Vorrei gridare, ma non ne ho la forza e taccio. Le porte si spalancano fragorose alla fermata del Palazzo di Giustizia. Lui, fulmineo, scende e se ne va. - Chi era? - Com�era il suo volto? Respiro a fondo una, due, tre volte. Ho avuto un attimo d�assenza, di smarrimento, poi mi sono sentita offesa, ingannata e infuriata. Con un movimento lento, le dita tremanti, ho toccato la manica. Era asciutta, integra, con un appena percettibile odioso odore di maschio. Forse a lui era venuto, ma io ero pulita, intatta. Non ho pianto, non mi sono bloccata, tra le braccia del mio amore ho ritrovato fiducia e serenit�, per�, questa storia non gliel�ho raccontata. Quella camicetta di pizzo di Sangallo, delicata come un fiore di pesco mi aveva protetta. Era un regalo di mia madre, l�ultimo capo che aveva cucito per me. Ogni volta che faccio scorrere le ante del guardaroba, sfilano nella penombra le grucce allineate. Le dita s�infilano tra le tinte estive e quelle invernali, affondano nei soffici tessuti di lana e velluto, scivolano sulle viscose, sui cotoni aggrovigliandosi nelle nuvole dei voile, le passano tutte una per una fino all�ultima, quella schiacciata contro la parete dell�armadio. Nascosta dentro al guscio di una giacca in renna fuorimoda, tutta linda e profumata di buono, fragile come un fiore di pesco, c�� lei. Grazie mamma. Filosofi stupefacenti (di Vito Tartamella, �Focus� n. 356/22) - Alcuni dei maggiori pensatori hanno fatto uso di droghe. Come cure, campi di studio o ricerche mistiche. - I filosofi non erano tutti algidi pensatori razionali. Alcuni hanno avuto una vita spericolata, costellata dall'uso (e abuso) di stupefacenti. Nietzsche predicava il Superuomo ma si ingozzava di narcotici per lenire le sue ischemie. Freud avr� pure esplorato le profondit� dell'anima ma era un cocainomane compulsivo. Sartre era cos� �dopato� che si vedeva inseguito da granchi giganti. Per non parlare di Platone che partecipava a riti mistici bevendo un cocktail allucinogeno. Dunque i filosofi come certe rockstar maledette? �Siamo abituati a vederli come santi laici, che si affidano solo al lume della ragione, mentre invece erano pur sempre umani, con le loro debolezze e irrazionalit�, dice Alessandro Paolucci, filosofo e social media manager, che ha raccontato l'aspetto dionisiaco dei pensatori nel libro Storia stupefacente della filosofia (Il Saggiatore). �Questo li rende pi� vicini a noi. E ci fa comprendere meglio il loro pensiero e la loro vita�. Il saggio racconta le vite di 8 filosofi che hanno usato le sostanze psichedeliche per i motivi pi� diversi: dal misticismo alla creativit�, dall'indagine sulla conoscenza umana alla cura per alcune patologie, con esiti disastrosi. Per buona parte della storia, del resto, le droghe non sono state percepite come �paradisi artificiali� ma come farmaci speciali, sottovalutando in modo clamoroso la dipendenza e i danni arrecati alla salute. Le visioni di Platone Partiamo da uno dei padri del pensiero occidentale, il greco Platone. La sua filosofia, che esaltava il valore del Mondo delle Idee rispetto alla fallacit� dei sensi, aveva in realt� una radice mistica: i misteri eleusini, nei quali i partecipanti ricevevano un'anticipazione dell'Aldil�. Oltre a digiuni, pellegrinaggi e danze, durante i riti i partecipanti bevevano il ciceone, una bevanda a base di cereali. Secondo gli storici, quei cereali erano contaminati da una muffa parassita, la Claviceps paspali, che ha una potenza pari a 1/20 dell'Lsd. E cos� i passi del Fedone, in cui Platone descrive la conoscenza delle Idee, vanno visti in una luce diversa: �Perfette, semplici, immutabili e beate erano le visioni che contemplavamo in una luce pura�. Non esercizio filosofico, ma mistica artificiale: il trip psichedelico permetteva all'anima di ricongiungersi al Mondo delle Idee superando le illusioni dei sensi. Platone non fu l'unico intellettuale della Grecia antica iniziato ai misteri eleusini: nell'elenco ci sono Plutarco, Eschilo, Pindaro ed Euripide. I calmanti di Marco Aurelio Secoli dopo, invece, l'imperatore e filosofo Marco Aurelio beveva ogni sera un intruglio di erbe officinali, la teriaca. La pozione era stata inventata da Crautea, medico di Mitridate, sovrano del Ponto, ossessionato dal timore di essere avvelenato com'era capitato a suo padre. Mitridate aveva chiesto a Crautea di renderlo immune a tutti i veleni: la teriaca conteneva una quarantina di ingredienti (zafferano, zenzero, anice, incenso, e molti altri) macerati nel vino e nel miele, con l'aggiunta di carne di vipera cotta: se la vipera vive a contatto con il proprio veleno senza essere uccisa, pensavano gli antichi, la sua carne deve contenere un antidoto. Nella pozione c'era anche oppio invecchiato, che aveva effetto soporifero: questo garantiva a Marco Aurelio, insonne e ipocondriaco, di dormire la notte, superando lo stress dei complotti di corte. L'imperturbabilit� che predicava in filosofia, insomma, non era naturale. Freud, un cocainomane Col passare dei secoli, la scoperta di nuove sostanze psicotrope influenz� i pensatori. A partire da Sigmund Freud, che sulla cocaina voleva fondare la propria carriera scientifica. Nel 1883, un medico dell'esercito tedesco, Theodor Aschenbrandt, aveva inviato una partita di coca ai soldati della Baviera, notando che aiutava a sopportare la fatica e la fame. Freud volle approfondire gli effetti di questa sostanza, entusiasmato dalla propria esperienza: �Nella mia ultima depressione�, scriveva nel 1884, �ho preso di nuovo la coca, e una piccola dose mi ha portato alle stelle in modo fantastico�. Per il padre della psicoanalisi la coca era come la pozione di Asterix: avrebbe potuto �curare ansia, depressione, disturbi alimentari, isteria, asma�. Ma l'entusiasmo del consumatore gli fece fare un clamoroso errore di valutazione scientifica. Si mise in testa di curare con la coca il dottor Ernst von Fleischl-Marxow dipendente dalla morfina, che usava per curare i dolori cronici a un dito amputato. Ma una tossicodipendenza non si cura con un'altra dipendenza, e ben presto Fleischel inizi� ad avere allucinazioni fino alla morte. Freud comprese di aver sbagliato, ma non smise di sniffare. E la polvere bianca potrebbe aver avuto un ruolo anche nella sua attivit� clinica: i suoi pazienti gli raccontavano gli episodi pi� imbarazzanti della propria vita sessuale in un'epoca in cui farlo con uno psicologo era a dir poco insolito; forse, ipotizza Paolucci, �Freud dava ai pazienti una piccola dose di coca per far loro superare l'imbarazzo?�. Gli analgesici di Nietzsche Diverso il caso di Friedrich Nietzsche, che si imbottiva di narcotici per curare piccole ischemie delle arterie cerebrali che gli causavano dolori insopportabili. Cos� utilizzava tutte le sostanze disponibili: bromuro di potassio (calmante), atropina per i dolori agli occhi (allucinogeno), chinino (tossico), idrato di cloralio (sedativo pesante), tintura di hashish e soprattutto oppio: �Io sono un semialienato afflitto da emicranie, cui la lunga solitudine ha del tutto sconvolto il cervello. Arrivo a questa valutazione ragionevole della situazione dopo aver preso - per disperazione - una dose enorme di oppio. Ma invece di perdere per questo l'intelletto, sembra che lo stia finalmente riacquistando�. In questa lettera Nietzsche si riferisce al laudano, un composto a base di alcol e oppio. E cos�, dopato dai sedativi, alternando sbalzi d'umore e dolori, Nietzsche scrisse le sue opere principali. E il suo stile aforistico e frammentario fu una scelta stilistica obbligata, dato che le sue malattie non gli consentivano di scrivere a lungo. Tutta la sua filosofia � un invito a prendere di petto la durezza della vita, accettandola senza illusioni. Ma lui ci riusc� solo con �l'aiutino� della chimica. La vita spericolata di Sartre Nel 20o secolo le droghe vecchie e nuove sono diventate per alcuni filosofi un laboratorio di studio sul funzionamento della mente: Walter Benjamin considerava l'hashish uno strumento per una �illuminazione profana�, Michel Foucault viveva le droghe come un modo per �uscire dai limiti della natura e dalla gabbia repressiva del potere�. Ed Ernst J�nger prov� un'ampia gamma di sostanze: Lsd, fenmetrazina, niopo (pianta psicotropa del Sud America), psilocibina, ecstasy. Il pi� spericolato, per�, fu il padre dell'esistenzialismo, Jean-Paul Sartre. Per mantenere i suoi ritmi di lavoro febbrili, faceva scorta di Corydrane, un farmaco �tonificante� in voga negli anni '50: le compresse contenevano 500 mg di aspirina e 7 mg di anfetamina. Arrivava a �calarsi� 20 compresse al giorno, pari a 140 mg di anfetamina: una dose da cavallo. Per scrivere la Critica della ragion dialettica, che conciliava socialismo e libert�, Sartre lavorava 10 ore al giorno, �masticando pastiglie di Corydrane, alla fine ne prendevo 20 al giorno�, scrive. �Le anfetamine mi davano una rapidit� di pensiero e di scrittura almeno tripla rispetto al mio ritmo normale. Scrivere in filosofia consisteva tutto sommato nell'analizzare le mie idee, e un tubetto di Corydrane significava: queste idee verranno analizzate nei prossimi due giorni�. Cibo per la mente, ma pagato a caro prezzo: per dormire, Sartre doveva ricorrere ai sonniferi, ma per decenni non riusc� a dormire pi� di 4 ore a notte. Sartre prov� anche la mescalina: sotto i suoi effetti vide ombrelli-avvoltoi, scarpe-scheletri, facce mostruose. E le allucinazioni continuarono a perseguitarlo anche dopo il trip: diceva di essere inseguito da granchi giganti. Non a caso nella Nausea racconta l'impossibilit� del protagonista di distinguere fra realt� e allucinazioni. Per molto tempo Sartre dovette convivere con queste visioni: �Parlavo abitualmente con i granchi quando camminavo e loro mi stavano a lato. Dopo qualche tempo iniziai a ignorarli, e un po' per volta se ne andarono�. Galileo: vivere e lavorare ai tempi della peste (di Hannah Marcus, �Le Scienze� n. 628/20) - L�epidemia del 1630-1633 colp� l�Italia negli stessi anni del drammatico scontro tra lo scienziato e l�Inquisizione, influenzandone il corso. - Nel giro di pochi mesi, il nuovo coronavirus ha messo sottosopra il nostro mondo, costringendo un po' tutti a lavorare in modi del tutto nuovi. Per gli scienziati in particolare, un modello pi� volte citato di produttivit� legata a un'epidemia � quello di Isaac Newton, che trascorse il 1666, il suo annus mirabilis, tenendosi al riparo dalla pestilenza nella campagna inglese e sviluppando le sue idee sulla gravitazione, l'ottica e il calcolo differenziale e integrale. Isolamento, tranquillit� e contemplazione, per�, costituiscono uno solo dei possibili modelli per l'attivit� scientifica in tempi di pestilenza; un modello cui pochi di noi possono realmente sentirsi vicini. Galileo Galilei, l'astronomo, fisico e matematico che fece del telescopio uno strumento scientifico e pose le basi della nuova fisica del moto, pu� invece ispirarci con un modello di lavoro scientifico in tempi di crisi che sembra pi� prossimo alla nostra realt�. In effetti, alcuni fra gli anni pi� travagliati e pi� esposti in pubblico della vita di Galileo furono proprio quelli della grande pestilenza del 1630-1633. Primi incontri con la peste Nato nel 1564, Galileo era poco pi� che un bambino durante la grande pestilenza che devast� l'Italia settentrionale nel 1575-1577, uccidendo 50.000 persone, un terzo di tutta la popolazione, nella sola Venezia. Da studente di medicina all'Universit� di Pisa, dove cominci� i suoi studi, deve certamente aver appreso molto su quella famigerata malattia. Pur avendo abbandonato presto la medicina, malgrado i desideri paterni, per dedicarsi invece alla matematica e all'astronomia, Galileo continu� comunque a leggere sulla peste e a parlarne. Nel 1592, Galileo si era assicurato una posizione di prestigio all'Universit� di Padova; poi nel 1610 pubblic� il Sidereus nuncius. � uno smilzo volumetto che riferisce delle scoperte da lui fatte con il telescopio: dalle pagine irrompono stelle mai viste prima, montagne che svettano sulla superficie della Luna, e le nuove �stelle medicee� (che poi sono satelliti), cos� chiamate inizialmente nella speranza di assicurarsi un potente protettore, che orbitano intorno a Giove. Nello stesso anno il suo amico Ottavio Brenzoni gli invi� una copia del trattato che aveva da poco pubblicato sulla peste; il che, con il senno di poi, ci aiuta a tener presente che le scoperte fatte da Galileo su in cielo non possono mai essere del tutto disgiunte da ci� che accadeva in terra. Nella corrispondenza di Galileo si ritrovano costanti riferimenti alla pestilenza che scoppi� in Toscana nel 1630. C'� per esempio la risposta di suo figlio Vincenzio, che si difende per essersi rifugiato in un paesino in quel di Prato lasciando il figlioletto a Galileo: �[...] dico prima, che quando mi risolvetti a venir qua su, fui mosso dal desiderio di salvar la vita, e non per venir a spasso e pigliar aria�. Simpatia e comprensione desta l'umorismo nero di Niccol� Aggiunti, discepolo di Galileo e professore di matematica a Pisa, che dopo la chiusura dell'universit� era tornato a Firenze, a casa del padre, e si duole di essere ricaduto sotto l'autorit� del genitore: �Io veramente mi aiuterei col far buona vita; ma mio padre, che vuol ch'io muoia sano, mi governa con le bilancine, e acci� che io non muoia di peste, mi vuol far morir di fame�. E ci basta ripensare alla vita che facevamo qualche mese fa per capire che cosa intendeva, nel 1631, il matematico Benedetto Castelli, il miglior amico di Galileo, quando notava stancamente che gli parevano �mill'anni� da quando Galileo era stato a Roma con lui. La pubblicazione del Dialogo La stessa pestilenza divenne anche un ostacolo, e un'opportunit�, per la pi� famosa e controversa delle sue pubblicazioni. Galileo era stato a Roma nella primavera del 1630 e aveva cercato di fare in modo di pubblicare in quella citt� il suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Per riuscirci, era necessario organizzarne la stampa attraverso la societ� scientifica di cui era membro, l'Accademia dei Lincei, e ottenere il nulla osta alla pubblicazione sottoponendosi alle procedure dei censori del Vaticano. Quell'estate, per�, a Firenze scoppi� la pestilenza e Galileo si risolse a pubblicare l'opera nella propria citt�, complicando cos� di molto le normali procedure della censura. Parti del Dialogo furono controllate dalle autorit� romane, ma altre sezioni, e poi soprattutto la stampa finale, si fecero a Firenze con il riluttante assenso dei censori di Roma. L'andamento di queste procedure censorie, disarticolate fra due citt� e diversi centri di autorit�, cre� in realt� uno spazio in cui Galileo pot� esporre i suoi argomenti a favore del moto della Terra in modo pi� deciso e convincente di quanto non gli sarebbe stato forse concesso in altre circostanze. Nel febbraio del 1632 il Dialogo era ormai stato stampato, a Firenze. Di norma la posta impiegava solo qualche giorno per collegare Firenze e Roma, ma a causa della peste molte citt� avevano imposto restrizioni sanitarie sui viaggi e il trasporto delle merci. Di conseguenza, a giugno non erano arrivate a Roma che due sole copie del Dialogo, e altre sei giunsero a luglio. Con il numero delle copie, crebbe l'attenzione verso il suo contenuto e le sue argomentazioni. Quando poi il testo arriv� fino ai circoli delle alte gerarchie cattoliche romane, papa Urbano VIII e la Compagnia di Ges� espressero immediatamente la propria indignazione per le libert� che Galileo si era preso in tempi di peste, e nel giro di una settimana il libro venne bandito. Nel settembre 1632 Galileo fu convocato a Roma per essere interrogato dall'Inquisizione. Andava scemando l'epidemia; stava per iniziare il processo a Galileo. Il processo e gli ultimi anni Gli stessi ritardi che avevano rallentato l'invio, la pubblicazione e la circolazione del suo libro sembrarono adesso lavorare a favore di Galileo, che sostenne la propria innocenza e chiese che il processo fosse tenuto a Firenze, dove viveva. �E per ultima conclusione - scrisse al termine di una lunga lettera all'amico, nipote del Papa, cardinale e inquisitore Francesco Barberini - quando n� la grave et�, n� le molte corporali indisposizioni, n� afflizzion di mente, n� la lunghezza di un viaggio per i presenti sospetti travagliosissimo, siano giudicate da cotesto sacro e eccelso Tribunale scuse bastanti ad impetrar dispensa o proroga alcuna, io mi porr� in viaggio�. L'Inquisizione romana rispose senza mezzi termini: Galileo doveva porsi in viaggio, o sarebbe stato arrestato e condotto a Roma in ceppi. Il 20 gennaio 1633 Galileo part�. Il suo viaggio dur� pi� di tre settimane, quarantena obbligatoria compresa. Sei mesi dopo ebbe termine il suo processo. Galileo ammise i suoi errori e rinneg� i propri scritti davanti alla Santa Inquisizione e part� da Roma per recarsi a Siena, e poi alla sua villa di Arcetri, fuori Firenze, dove avrebbe trascorso agli arresti domiciliari i rimanenti nove anni della sua vita. Per la maggior parte degli osservatori della censura e del processo contro Galileo, ci� che contava erano le sue idee; ma la figlia, suor Maria Celeste, monaca di clausura dell'ordine delle Sorelle povere di Santa Chiara, si occup� a distanza delle condizioni fisiche di Galileo. Rinchiusa fra le mura del suo convento, Maria Celeste preparava per lui cibi e medicinali per tener lontana la peste. A una sua lettera del novembre 1630 alleg� due elettuari - miscele di principi ed estratti vegetali impastati con miele - che dovevano proteggere la sua salute: �Gli mando due vasetti di lattovaro preservativo dalla peste. Quello che non vi � scritto sopra, � composto con fichi secchi, noci, ruta e sale�, tenuti insieme dal miele. Gli raccomandava di prenderne �la mattina a digiuno quanto una noce, con bervi dietro un poco di greco o vino buono; e dicono che � esperimentato per difensivo mirabile� contro la peste. Il secondo farmaco andava preso alla stessa maniera, ma Maria Celeste lo avvertiva che aveva un sapore pi� amaro; per� gli prometteva che avrebbe migliorato la ricetta se il padre avesse desiderato continuare ad assumere l'uno o l'altro dei preparati. L'anno della peste e del processo presso l'Inquisizione fu per Galileo anche un anno di accudimento intergenerazionale a distanza, con Maria Celeste che si adoperava da dietro le mura del convento per approntare rimedi medici e spirituali in appoggio e a sostegno dell'amato padre. In ansia per la reputazione del padre, Maria Celeste, come altri familiari di Galileo, gli scrisse con regolarit� durante il suo viaggio di ritorno, aggiornandolo sui casi di peste nelle zone circostanti. Le lettere giungevano a cadenza regolare; contenevano notiziole epidemiologiche, dettagliavano il numero dei nuovi contagiati del posto e riferivano della sorte di chi guariva o soccombeva al male. La sua famiglia tenne dietro all'andamento della pestilenza mentre seguiva il procedere del viaggio di Galileo, che rientrava dove avrebbe trascorso, agli arresti, il resto della vita. Noi che abbiamo dovuto affrontare una separazione forzata dai nostri cari, dovremmo ricordarci dei tanti modi in cui la famiglia di Galileo lo sostenne devotamente a distanza in un periodo cos� tumultuoso. Gli anni della peste di Galileo illuminano le reali condizioni dell'impegno scientifico in un mondo pieno di difficolt�. La sfida di articolare le nuove scoperte scientifiche che entrano in conflitto con le dottrine politiche e religiose, e quella di portare avanti un programma scientifico internazionale per quasi un decennio di isolamento e di prigionia. E poi, ovviamente, la difficolt� di vivere in un tempo funestato dalla pestilenza. A noi, che ci siamo sforzati di trovare il modo di continuare il nostro lavoro scientifico di fronte alla pandemia da coronavirus, io proporrei di eleggere Galileo a esempio di ci� che pu� fare uno scienziato al tempo della peste. Sostenuto dal suo rapporto con la famiglia e gli amici, e rinforzato da elettuari di frutta secca e miele, Galileo con la sua vita ci insegna che fare scienza ai tempi di un'epidemia non � mai stato semplice; e che per� resta essenziale perseverare, a dispetto di tutto. Volevo i pantaloni (di Lidia Di Simone, �Focus Storia� n.193/22) - La riscoperta di Rosa Bonheur: pittrice famosa quando le donne nell'arte erano poche e mal viste, indoss� i calzoni in pieno '800, diventando icona dell�emancipazione femminile. - Prima che animalier diventasse, nel 1947, il sorprendente tema della passerella a stampa leopardata di Dior, il termine francese indicava quegli artisti �di genere� specializzati nel ritrarre soggetti del mondo animale. La definizione era stata coniata dalla critica nel 1831. Quegli artisti realizzavano bronzetti che raffiguravano cavalli, tori, leoni o bestie che sbranavano leprotti, molto apprezzati nell'800. Pi� il bestiario era finemente tratteggiato, pi� il peintre animalier o lo scultore raggiungevano una vasta platea di compratori. E poi arriv� lei, la pittrice francese Rosa Bonheur (1822-1899). �C'� chi parla di genio, soprattutto nel disegno. Era capace di disegnare un animale a memoria o a partire da foto che lei stessa scattava. Gli esperti dicevano che sfidava i dagherrotipi. I suoi disegni erano in effetti cos� vicini al reale che oggi sono usati per studiare le caratteristiche di specie animali ormai estinte�, racconta la sua biografa Marie Borin, autrice di Rosa Bonheur, une artiste � l'aube du f�minisme (Pygmalion). Ma soprattutto era �una grande artista e una grande personalit�. Le sue esperienze di vita di donna e pittrice sono indissociabili�. Eppure, negli anni, di Rosa Bonheur si era persa ogni traccia. La peintre animali�re venne al mondo il 16 marzo 1822. Sua madre, Sophie Marquis, era figlia adottiva di un ricco commerciante bordolese, Jean-Baptiste Dublan de Lahet. Suo padre, Raymond Bonheur, pittore paesaggista, era amico di Francisco Goya, il pi� grande artista di Spagna, che viveva in esilio proprio a Bordeaux. Fu il pap� ad avviare Rosa all'arte fin da piccola, cos� come fece con gli altri tre figli e con l'ultimo figlio di secondo letto. Questo fece la fortuna di Rosa, che si ritrov� giovanissima con la prospettiva di un mestiere in mano. La cosa le sarebbe tornata utile, perch� presto la famiglia avrebbe conosciuto la miseria e a 11 anni la ragazzina avrebbe perso la madre. Il padre di Rosa era un seguace delle teorie di Saint-Simon, il filosofo pioniere del socialismo che aveva benedetto la manifattura, gli operai e gli imprenditori, insomma i ceti produttivi, come unico elemento di salvezza nella societ� della Restaurazione, contro il retaggio dell'Ancien R�gime costituito dagli oziosi nobili, preti e cortigiani. Il sansimonismo aveva prodotto, oltre a una societ� segreta, l'esaltazione del ruolo femminile, una vera novit�, e Rosa se ne era nutrita nel corso delle lunghe letture di scritti liberali cui il padre la sottoponeva. Quando per� la setta sansimoniana era approdata a un �nuovo cristianesimo� comunitario, Raymond Bonheur si era ritirato per due anni, con gli altri apostoli di questo credo per spiriti coltivati, nel convento parigino di M�nilmontant. Il loro obiettivo era la presa del potere in modo non violento, con la diffusione di una dottrina alla cui base c'era l'attesa di un messia donna. Ma mentre pap� pregava mistiche figure femminili, la famiglia cadeva nella povert� estrema, affidata alle sole forze di mamma Sophie. Infatti era venuto meno anche il sostegno economico del nonno Dublan de Lahet, che sul letto di morte, nel 1830, aveva confessato a Rosa di essere il suo vero padre. Il dramma era servito. In questo processo di proletarizzazione della famiglia Bonheur, qualche vantaggio comunque c'era: frequentando i sansimoniani Rosa era entrata in contatto con un ambiente di banchieri e industriali, medici e ministri, fondatori di compagnie ferroviarie e segretari di gabinetto del Secondo impero che Napoleone III avrebbe instaurato di l� a pochi anni. Erano tutti seguaci del filosofo socialista, ma ben introdotti nei gangli del potere. Un milieu colto e di larghi mezzi, in grado di apprezzare la sua arte. �A ciascuno secondo le sue capacit�, a ogni capacit� secondo le sue opere�, predicava SaintSimon. E Rosa prese questi dettami alla lettera, tirando fuori pennelli e colori. Figlia amata e coccolata, finch� c'erano stati i soldi, aveva trascorso l'infanzia come un maschiaccio, giocando con i fratelli e rifiutando i libri. La sua meta preferita erano le fattorie piene di bestiame dove la famiglia passava le domeniche. Per aiutarla a leggere, sua madre le faceva associare le lettere dell'alfabeto all'immagine degli animali, che la bambina riproduceva sulla sabbia. E questo fu la sua fortuna, combinata all'unica disciplina che la legava a un impegno quotidiano, la pratica casalinga del disegno, la copia ripetuta e ossessiva di modelli forniti dal padre. Come disse la stessa Rosa alla sua ritrattista e biografa Anna Klumpke, i soli insegnanti che aveva avuto erano stati �il padre e la natura�. Il trasferimento nella capitale nel 1829, aveva aggiunto qualcosa alla sua formazione, dando modo a Rosa di studiare dal vivo le opere dei grandi maestri esposte nelle sale del Louvre. La giovane subiva il fascino dei dipinti nordici del '600 a tema animale, leggeva trattati di storia naturale e cercava di riprodurre con precisione l'anatomia delle bestiole di cui si circondava. La misero a lavorare come sartina, ma non funzion�. Lei voleva disegnare, e il padre si vide costretto a prenderla nel suo atelier. La incitava a fare sul serio e superare in bravura le grandi ritrattiste del Settecento, come �lisabeth Vig�e-Lebrun. Lei gli diede retta e nel 1841, a 19 anni, fece il suo ingresso al Salon, la maggiore istituzione artistica francese, con un paio di tele: una riproduceva i Deux lapins, due conigli (oggi al MUSBA, Mus�e des Beaux-Arts di Bordeaux). Erano opere la cui minuzia quasi fotografica merit� subito ottime critiche e riconoscimenti nel mondo della pittura accademica. In capo a qualche anno, fu chiaro agli esperti che la Bonheur aveva superato i maestri. Da allora divenne una delle figure maggiori della scena artistica dell'epoca. La Seconda repubblica, nata sulle barricate di Parigi nel 1848, le fece una commessa importante, un soggetto rurale: Aratura nelle campagne di Nevers (oggi esposto al Museo d'Orsay), acclamatissimo al Salon del 1849. Era l'epoca del Neoclassicismo, dei grandi soggetti storici, della peinture d'histoire - che riproduceva le scene bibliche e le grandi battaglie, i cavalieri medievali e i miti antichi -, considerata allora il vertice dell'arte. La Bonheur voleva portare i suoi animali allo stesso livello, e ci riusc�. Rosa aveva assistito alla morte della madre, che nel 1833 si era spenta per consunzione lavorando come una bestia per sopperire al mancato sostegno del marito. Marie Borin riporta cos� le parole dell'artista: �Mia madre, questa donna cresciuta come una principessa, mor� di povert� e di fame, mentre mio padre predicava il bene dell'umanit� tra i sansimoniani�. Quindi, aveva maturato la convinzione che una donna doveva contare solo su se stessa, senza aspettarsi nulla da un uomo. Eppure c'era un luogo dove, pur con tutta la sua grinta, Rosa aveva bisogno di prendere in prestito gli abiti maschili. Stava preparando studi sui cavalli, ma per ritrarre la loro potenza e i muscoli guizzanti doveva approfondirne l'anatomia. Dove trovare cavalli sezionati per copiare dal vero tendini e garretti, colli e dorsi arcuati? La soluzione era il mattatoio pubblico. Cos�, per frequentarlo senza rischiare offese o peggio, vere e proprie aggressioni, scelse di indossare pantaloni e casacca, la stessa mise che aveva usato in campagna da bambina. Peccato che a Parigi i calzoni fossero vietati alle donne, pena l'arresto immediato. Dovette quindi chiedere un �permesso di travestimento� alla polizia. Permesso che arriv�: la Bonheur fu autorizzata a mettersi in calzoni per un periodo di sei mesi, �per ragioni di salute� e a condizione che non usasse il travestimento per andare a �spettacoli, balli e altri luoghi di riunione aperti al pubblico�. L�ex maschiaccio arriv� cos� a vestirsi da uomo in ossequio alla pittura. E fin� per non abbandonare pi� quella pratica tenuta. Questa determinazione nell'affrontare il lavoro le port� in fretta grandi risultati. Il suo Mercato di cavalli (oggi al Metropolitan di New York) le valse fama mondiale. Nel 1865 l'imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, visit� il suo studio, nel castello di By a Thomery, per conferirle la Legion d'onore. Era la prima artista a riceverla. Oggi il castello � sede del museo a lei dedicato. Si trova vicino a quella foresta di Fontainebleau dove gli impressionisti avrebbero imparato a dipingere en plein air. Ma Rosa lo faceva gi� prima di loro: aveva riempito i suoi giardini di animali e si era fatta costruire piccoli atelier nel bosco, quasi casine delle fate, che le servivano per ritrarre da vicino il suo zoo. Mor� in quella casa all'et� di 77 anni. Per i biografi del Novecento non c'erano dubbi: Rosa Bonheur era una femminista ante litteram; ed era omosessuale, cosa che invece lei neg� sempre. Questa voce, secondo l'artista era �una falsa interpretazione della sua vita e un'incomprensione totale�, come riferisce la biografa Marie Borin. Femminista lo fu di certo, perch� il suo obiettivo era �relever la femme�, come diceva lei stessa, ovvero spingere la donna, aiutarla a rialzarsi, a raggiungere l'emancipazione sociale e l'indipendenza finanziaria: �Voglio guadagnare tanti soldi, perch� non c'� null'altro che possa fare per fare quello che voglio�, diceva dopo aver conosciuto la miseria. La drammatica fine dell'amata madre, umiliata e morta di fatica o di malattia - forse di colera, poco importa - ma comunque sepolta in una fossa comune nel cimitero di Montmartre, aveva portato Rosa a scegliere il lavoro. E il nubilato. Si sentiva pi� vicina agli animali, suoi compagni di vita fino alla fine, che non agli uomini, fonte di grandi delusioni. Ma ebbe comunque al suo fianco una grande amica, Nathalie Micas, che conobbe a Parigi nel 1836, all'et� di 14 anni. Abbandon� la famiglia per andare a vivere a casa dei Micas: il padre dell'amica la spinse ad aprire un suo atelier, la mamma la tratt� come figlia e ne cur� gli interessi. Nathalie fu la sua compagna? Pu� darsi. Dopo 53 anni di convivenza, solo la morte di lei le separ�. Ma il loro fu soprattutto un progetto di lavoro (anche Micas era pittrice), di sorellanza ed emancipazione. Con una motivazione in pi�. Nathalie era figlia illegittima: sua madre Henriette era stata cacciata di casa a 17 anni e sposando Micas era sfuggita al triste destino delle ragazze madri, la prostituzione. Anche per questo Nathalie aveva la stessa missione di Rosa: migliorare il destino delle donne. Quando Anna Klumpke, validissima pittrice, fece il suo ingresso nel castello di Thomery per ritrarre l'anziana artista, questa la incaric� anche di prendere appunti per scrivere la sua biografia (Rosa Bonheur, sa vie son oeuvre, pubblicata in Francia nel 1908). In capo a un anno, la pittrice era morta, ma aveva destinato alla sua giovane sodale un lascito importante di opere e una missione da portare avanti. L'amicizia con Buffalo Bill Quando il Wild West Show, il circo di Buffalo Bill (al secolo Bill Cody), arriv� a Parigi nel 1889, poteva mancare Rosa Bonheur? L'artista fu invitata dietro le quinte dello spettacolo e tracci� alcuni schizzi degli indiani lakota con le loro famiglie, dei cavalli da rodeo e di animali che non aveva ancora visto, i bisonti. Per ringraziare invit� il colonnello Cody nel suo castello. Fu cos� che nacque il ritratto di Buffalo Bill, mentre tra Nuovo e Vecchio mondo nasceva una solida amicizia. Chi ha inventato l'animalier? Nell'antica Grecia c'era lo zoote, la tipologia decorativa che prendeva come soggetto il mondo animale. Ma le stampe a tema tigrato, zebrato, leopardato, pitonato, tartarugato, insomma il maculato, sono invenzione degli stilisti. Negli Anni '40 la prima pin-up, Betty Page, us� il maculato per i suoi bikini sexy. Ma fu Christian Dior, re del New Look, ispirato dalla sua musa Mitzah Bricard, a usare lo chiffon leopardato nella sua sfilata primavera-estate del 1947. I modelli si chiamavano Jungle (corto da cocktail) e Africaine (un abitino aderente e drappeggiato). Marilyn Monroe indoss� un manicotto di pelliccia animalier con mantella nel 1953 per il film Gli uomini preferiscono le bionde. Audrey Hepburn us� il cappello maculato firmato da Givenchy in Sciarada (1963). La lingerie zebrata arriv� tra gli Anni '70 e '80. In seguito, Roberto Cavalli propose la stampa ghepardo. Seguirono Valentino nell'87, Gianni Versace con le camicie di seta maculate per il pr�t-�-porter maschile e pi� di recente Azzedine Alaia con il suo total look in tema.