Maggio 2022 n. 5 Anno VII Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi �Regina Margherita� Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero della Cultura. Indice Dal temperamento al carattere Pier Paolo Pasolini, un Cristo piccolo-borghese La grande vita di Walter Bonatti Dal temperamento al carattere (di Silvia Bonino, �Psicologia contemporanea� n. 279/22) - Il carattere non � qualcosa di innato e immodificabile, tantomeno a un�et� infantile. A plasmarlo contribuiscono anche l�ambiente e le esperienze. - La scena si svolge su una spiaggia affollata. Una bambina di circa 3 anni, seduta sotto un ombrellone insieme alla mamma, comincia a gridare, con voce sempre pi� alterata: �Lo voglio, lo voglio!�. La mamma le risponde con voce pacata, ma non riesce a calmare la piccola, che continua a ripetere la sua decisa volont� di vedere soddisfatto il proprio desiderio per qualcosa che gli astanti non sono in grado di identificare. Improvvisamente la bambina corre in direzione opposta al mare, verso la strada, piangendo e urlando; la madre la rincorre e la raggiunge, scatenando una crisi di pugni e calci che la donna sopporta senza reagire. Con fatica prende in braccio la bambina che si divincola e, rivolta alle persone che le stanno guardando, dice ad alta voce: �� il suo carattere. � fatta cos�: non c'� niente da fare!�. La frase non testimonia solo il disagio di una mamma costretta ad affrontare in pubblico un comportamento che suscita facilmente una curiosit� non sempre benevola, quando non un'esplicita riprovazione. Essa esprime anche una convinzione diffusa tra molti adulti, vale a dire l'idea che i bambini abbiano gi� a quell'et� un carattere ormai stabilmente definito e che l'adulto non possa fare altro che prenderne atto e rassegnarsi. Questo convincimento, per quanto diffuso, non trova fondamento nelle conoscenze di psicologia dello sviluppo di cui oggi disponiamo. Esso anzitutto confonde il temperamento con il carattere. Non � una questione nominale, ma di sostanza, che rimanda al tema pi� generale dei rapporti tra patrimonio biologico e ambiente, come vedremo tra poco. Il temperamento, infatti, non si identifica con un tratto di carattere ormai stabile, ma definisce un modo di porsi del bambino nei confronti dell'ambiente circostante a base biologica, individuabile gi� alla nascita. Come i genitori con pi� figli hanno spesso potuto autonomamente osservare, esistono neonati pi� attivi verso l'ambiente e pi� reattivi agli stimoli esterni. Tale reattivit� pu� dar luogo a reazioni oppositive e negative, come il pianto, in presenza sia di cambiamenti anche piccoli delle abitudini sia di situazioni frustranti, come un lieve ritardo nella poppata o nel cambio dei pannolini. Altri neonati sono invece pi� tranquilli e meno reattivi, mentre in alcuni queste caratteristiche sono accentuate fino alla passivit�. Un altro tratto temperamentale identificabile assai precocemente � la maggiore o minore socievolezza verso gli altri, adulti e coetanei. Queste caratteristiche temperamentali di base non sono gli unici elementi in gioco nel costruire, negli anni seguenti, i tratti di carattere di un bambino o di una bambina. I tratti temperamentali interagiscono infatti fin da subito con l'ambiente in cui il piccolo vive, in un complesso intreccio di influenze reciproche: in concreto, anzitutto con il comportamento dei genitori, a sua volta influenzato dalle loro aspettative e convinzioni. Cos�, un maschietto particolarmente tranquillo e adattabile potr� venire apprezzato da una mamma e un pap� che si sentono rassicurati dall'avere un bambino �facile� da allevare, ma non da un'altra coppia di genitori, che identifica l'essere maschio con un comportamento molto attivo, esplorativo e finanche aggressivo. Ugualmente, le stesse caratteristiche di minore attivit� potranno essere molto apprezzate in una bambina, in accordo con un'immagine femminile pi� passiva, mentre potrebbero non essere accettate da un'altra mamma, per il timore che la bambina diventi una donna apatica e sottomessa. Il comportamento di questi bambini, lungo gli anni dell'et� evolutiva, sar� quindi il risultato non solo del loro temperamento di base, riferibile al funzionamento biologico, ma anche della complessa interazione tra quest'ultimo e l'ambiente circostante; ambiente che dalla famiglia si allargher� prima all'asilo nido e alla scuola dell'infanzia, poi ai diversi gradi del sistema scolastico. Sono quindi numerosissime le influenze ambientali che via via contribuiranno a plasmare quello che sar� il carattere dell'adulto. Occorre considerare al riguardo che il cervello umano � dotato di una grandissima plasticit�, come ci insegnano le neuroscienze; questa non solo permane per tutto il ciclo di vita, ma � massima nel periodo dell'et� evolutiva in senso stretto, vale a dire dalla nascita alla prima giovinezza. Il cervello umano � infatti assai immaturo alla nascita e il suo sviluppo neurofisiologico giunger� a compimento solo molto lentamente, lungo gli anni della lunghissima infanzia che � caratteristica particolare e unica della nostra specie. Di conseguenza, per quanto le esperienze dei primissimi anni di vita lascino un segno ben rilevante, non si pu� certo ritenere che a 3 anni lo sviluppo del carattere sia compiuto e che �i giochi siano fatti�. Molte esperienze, negli anni seguenti e in ambienti diversi, daranno il loro contributo decisivo, modificando e indirizzando le tendenze temperamentali di base. In alcuni casi potranno anche stravolgerle; per esempio, un atteggiamento attivo ed esplorativo potr� essere molto limitato da un'educazione scolastica soffocante e repressiva. Analogamente, tratti caratteristici della prima infanzia, come l'egocentrismo e l'impulsivit�, potranno permanere e stabilizzarsi come atteggiamenti dominanti ben oltre tale periodo, in presenza di un'educazione permissiva e non autorevole. A tutto ci� si deve aggiungere che soprattutto a partire dall'adolescenza lo sviluppo cognitivo consentir� al ragazzo e alla ragazza di intervenire attivamente nel modificare i propri atteggiamenti, grazie alle crescenti capacit� di autoconsapevolezza e autoriflessione. Cos�, un ragazzo particolarmente reattivo e combattivo potr� riflettere su quanto gli altri non gradiscano sempre il suo comportamento, tendente a diventare facilmente aggressivo e prepotente, per modificarlo di conseguenza. Oltre alle disposizioni biologiche e alle influenze ambientali entra in gioco, quindi, anche l'azione dell'individuo, come conseguenza delle sue specifiche capacit� cognitive, che proprio lungo l'adolescenza giungono a maturazione. Sono quindi molteplici i fattori che, nella loro reciproca e complessa interazione, intervengono a edificare lungo il tempo i tratti caratteriali di una persona adulta, e ampio spazio vi hanno quelli ambientali e la stessa azione dell'individuo. Pier Paolo Pasolini, un Cristo piccolo-borghese (di Massimo Fini, �Il Fatto Quotidiano�, 12 marzo 2022) La prima volta che incontrai Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 � Roma, 2 novembre 1975) fu per un�intervista, naturalmente. Era appena uscito Il Fiore delle Mille e una Notte che aveva creato uno scandalo come tutte le cose che diceva o faceva Pasolini. Cos� il direttore dell�Europeo mi mand� a intervistarlo. Prima di trovarmi vis � vis con lui mi colpirono due cose: il quartiere dove abitava, l�Eur, un quartiere borghese, e la sua casa piccolo-borghese, con i centrini, i comodini e tutte le cose a posto. E si conosce l�odio che Pasolini portava alla borghesia. Poi me lo trovai davanti, seduto di fronte a me, su una spaziosa e luminosa terrazza. E non riesco a raccontarlo meglio che ricorrendo a quelle vecchie e ingiallite pagine dell�Europeo: �Pasolini il provocatore, Pasolini il seminatore di scandali, Pasolini l�omosessuale, Pasolini l�eclettico, Pasolini il cerebrale, Pasolini il� Eccolo ora seduto davanti a me questo straordinario Pasolini. Ma nulla da lui sembra emanare odor di zolfo. Tutto � normale. Normale � la sua casa, bella ma non sfarzosa, in un quieto condominio dell�Eur, normale � l�atmosfera che vi si respira� e normale � lui, Pasolini, col suo tono di voce pacato, i gesti misurati, sereni. Solo il volto di Pasolini � un po� diverso, un volto profondamente segnato, un volto quasi da Cristo, ma un Cristo molto diverso dal terribile �Cristo putrefatto� di Matthias Gr�newald o, meno che mai, dal Cristo oleografico e perfetto della liturgia cattolica, insomma un Cristo, anch�esso, molto normale, piccolo-borghese. E in questa atmosfera anche le cose che dice, quelle stesse che quando scrive suscitano scandalo, provocano, irritano o entusiasmano, paiono cose normali, elementari, quasi banali. Sar� forse per il modo in cui parla. Non ha infatti Pasolini, a differenza di altri intellettuali italiani, la conversazione spumeggiante, il linguaggio pirotecnico, la citazione seducente, ma un modo di parlare piano, rettilineo, di chi � profondamente consapevole della propria cultura e perci� non la esibisce�. In genere i personaggi pi� o meno importanti quando vengono intervistati si limitano a stendere il tappeto mostrando le proprie bellurie e la cosa finisce l�. Con Pasolini era diverso. Pier Paolo era profondamente interessato alla persona che gli stava davanti. Cos� l�intervista si trasform� in un colloquio. Questo paesaggio tranquillizzante fu interrotto dall�arrivo della madre sulla terrazza. Il comportamento di Pier Paolo cambi� di colpo. Divent� tutto un puci-puci, un pissi pissi bao bao, uno strusciarsi, un illanguidirsi, uno sciogliersi in un modo molle e quasi osceno. Si era completamente infantilizzato. Basterebbe questo rapporto con la madre per capire l�omosessualit� di Pasolini che, altrimenti, nel modo di fare e negli atteggiamenti non aveva nulla della classica �checca�. Poich� in quel primo colloquio si era creata una certa sintonia mi invit� a pranzo. Lasciando perdere i discorsi intellettuali, o piuttosto integrandoli, parlammo soprattutto di calcio. Era tifosissimo del Bologna, una citt� in cui aveva vissuto grazie alle peregrinazioni del padre, un ufficiale dell�Esercito Regio, e soprattutto un ammiratore, come me, di Giacomo Bulgarelli, capitano di quella squadra e della nostra Nazionale (e mi fa specie che alla morte di Bulgarelli, avvenuta il 12 febbraio del 2009, siano state dedicate poche righe, quando oggi, per una qualsiasi squinzia dello show business, si sprecano pagine). Pasolini il calcio oltre che amarlo lo giocava, e bene, anche se con qualche leziosit�, come il �passo doppio alla Biavati�, molto estetico ma del tutto inutile. Nel pomeriggio arriv� Ninetto Davoli e qui vidi un altro, e diverso, Pasolini. La sera Pier Paolo mi port� al Pigneto, uno dei quartieri pi� malfamati di Roma (ora � diventato trendy) popolato di marchette, di magnaccia, di piccola malavita. Pasolini era da tutti conosciuto e riconosciuto. Non per questo la situazione era meno pericolosa, anzi, forse, lo era di pi�. Non si va con un�Alfa Romeo (mi pare fosse un�Alfa Romeo) in un ambiente del genere se non si ama il rischio (non per nulla i suoi progenitori avevano perso tutto giocando d�azzardo) e se non si ha una certa fascinazione per la morte. Anche se � facile dirlo ora io ebbi l�impressione che Pasolini cercasse la morte. Come tutte le persone molto vitali era affascinato dalla morte, la grande pacificatrice di tutte le inquietudini. Per la morte di Pasolini, complice la Fallaci che aveva sentito dei boatos dal parrucchiere, si invent� la favoletta che era stato ucciso dai fascisti. Al perbenismo e all�ipocrisia dell�intellighenzia soprattutto romana, che pur conosceva bene le scorrerie notturne di Pier Paolo, non istava bene che lo scrittore fosse morto in quel modo. Eppure le �zone d�ombra� ci sono in ogni artista anzi la sua parte notturna � spesso all�origine di quella, chiamiamola cos�, diurna. Proust si dilettava ad andare in macelleria per vedere vivisezionare gli animali. Comunque sia, se �Pino la rana�, diciassettenne, avesse avuto dei mandanti era tutto suo interesse denunciarli. Pasolini era estremamente contraddittorio, un concentrato di contraddizioni. In un recentissimo libro (PPP) Alessandro Gnocchi afferma che Pasolini era �fedele ai comunisti ma non al comunismo�; direi di pi�: Pasolini non ha mai avuto nulla a che vedere col comunismo, a partire dal fatto che suo fratello minore, Guido, arruolatosi nei partigiani, sia stato ucciso proprio dai partigiani comunisti. Se si iscrisse al PCI e si aggreg� alla cricca di Moravia credo che sia stato per avere, lui intellettualmente un isolato, un eretico, una qualche rete di protezione. Comunque, nella sostanza, era un antimodernista, un antiprogressista, anche se, per la parte razionale che si portava dentro, non del tutto un anti illuminista (Le ceneri di Gramsci) basterebbe la famosa frase �darei l�intera Montedison in cambio di una lucciolata� per capire quale fosse l�ideologia di Pasolini. Era un reazionario, un nostalgico del passato, credeva in un mondo sottoproletario e contadino pi� semplice e pi� �candido�, che gi� allora non esisteva pi�. Per trovarlo dovette andare a cercarlo in Yemen dove gir� Il fiore delle mille e una notte. Ma proprio qui sta, secondo me, la contraddizione pi� estrema di Pasolini. Amava sinceramente la semplicit�, la purezza e appunto il candore dei �ragazzi di vita�, ma sessualmente prendeva piacere ad umiliarli. Cos� fece con �Pino la rana� che, a una richiesta troppo audace, si ribell� e lo uccise. Come romanziere Pasolini � mediocre, come regista, da dilettante, anche peggio (Uccellacci e uccellini, dove coinvolse un incolpevole Tot�, non si pu� rivedere). Fu invece un grandissimo intellettuale, un uomo coltissimo, un filologo sceltissimo, che, fra le altre cose, elev� i dialetti, in particolare il friulano, alla dignit� di lingua. Ma fu soprattutto un grande provocatore nel quale la provocazione non era mai fine a se stessa. � lui ad affermare negli anni Settanta che il fascismo, come l�abbiamo sempre inteso, non esiste pi� e in quelle forme non ci sar� mai pi�, � un fatto archeologico sostituito dalla �dittatura del consumo� che si porta appresso l�omologazione universale. In questo Pier Paolo Pasolini, anche se ha parecchi precursori a cominciare dall�Aldous Huxley del Mondo nuovo, � attualissimo e purtroppo profetico. La grande vita di Walter Bonatti (di Stefano Vizio, Ilpost.it) - Una vita cos� grande che ne contenne diverse, sulle pareti delle Alpi e del Karakorum a spostare in avanti l'alpinismo e in giro per il mondo a raccontarlo. - C�� stato un tempo in cui le imprese sulle Alpi e sulle montagne pi� alte del mondo erano un argomento da prima pagina sui quotidiani nazionali, e in cui gli alpinisti che salivano quelle vette rischiando la vita erano degli eroi nazionali: tra gli anni Cinquanta e Sessanta in Italia nessuno fu pi� popolare, discusso, contestato e amato di Walter Bonatti, morto a 81 anni il 13 settembre 2011. Bonatti visse una vita che ne contenne diverse, quasi tutte ricche di gloria, alcune piene di dramma e rancore, segnate da momenti di solitudine e poi per decenni dalla compagnia dell�attrice Rossana Podest�, con la quale ebbe una relazione che aggiunse i rotocalchi ai posti in cui si parlava di lui. Dalla controversa vicenda del K2 nel Karakorum pakistano alle grandi imprese sul Monte Bianco, dalle salite nelle Dolomiti al Cervino, Bonatti fu l�ultimo e probabilmente il pi� grande interprete italiano dell�alpinismo che viene spesso definito �classico�, quello che si concentr� sull�apertura di nuove vie di roccia e di ghiaccio sulle grandi pareti delle pi� importanti montagne alpine. Bonatti, come ricord� pi� volte Reinhold Messner, considerato in un certo senso il suo �erede�, diede dei punti di riferimento all�alpinismo in un ventennio in cui la disciplina continuava ad avere un aspetto di esplorazione, che l�aveva segnata all�inizio del Novecento, ma gi� conteneva la dimensione sportiva che avrebbe preso piede dalla fine degli anni Sessanta in poi. Bonatti era nato a Bergamo nel 1930 e aveva cominciato a scalare con la societ� di ginnastica della quale faceva parte a Monza. Fu tra i molti giovani che nell�immediato dopoguerra si diedero alla montagna e alle pareti di roccia, tradizionalmente passatempi per le classi agiate, pur provenendo dalla classe proletaria. Bonatti lavorava alla Falck a Milano, e spesso scalava la domenica dopo aver fatto il turno di notte in fabbrica. La sua carriera alpinistica cominci� ufficialmente nel 1951, quando al terzo tentativo riusc� a scalare per la prima volta la parete est del Grand Capucin, un obelisco di granito sotto al Monte Bianco, pieno di strapiombi e diedri liscissimi, in cui sembrava fino ad allora impossibile trovare una via per salire. La prima volta non ci era riuscito, e al ritorno aveva peraltro dovuto dormire in tenda fuori dal rifugio Torino perch� non poteva permetterselo. Riprov� dopo alcune settimane insieme all�alpinista Luciano Ghigo, di nuovo senza successo per via del maltempo. I due tornarono l�estate successiva, e dopo due notti in parete e un�altra tempesta riuscirono ad arrivare in cima. Il grande alpinista Gaston R�buffat la defin� �la pi� grande impresa su roccia realizzata fino ad oggi�, e per molti versi anticip� con chiarezza l�importanza che avrebbe avuto Bonatti: fino ad allora scalare una parete simile non sembrava fattibile, e non era puramente una questione di difficolt� tecnica e fisica quanto di concetto. Nei decenni precedenti si erano definite due grandi scuole d�arrampicata, una pi� purista che riteneva che le mani e i piedi dovessero essere gli unici strumenti per salire le pareti (a volte non era ammessa nemmeno la corda), un�altra che invece aveva adottato vari tipi di attrezzatura per aiutare la progressione su roccia spingendo pi� in l� il limite di ci� che si poteva salire. A seconda delle filosofie gli ausili �artificiali� potevano essere pi� o meno invasivi � si andava da un numero limitato di chiodi di protezione a staffe e ganci � e permisero inizialmente grandi imprese sul calcare dolomitico, compiute per esempio da Emilio Comici e Riccardo Cassin. Bonatti applic� l�arrampicata che sfruttava alcuni aiuti artificiali sul granito del Monte Bianco, che non si riteneva adatto perch� pi� duro, liscio, ripido e privo di fessure, e quindi pi� ostico a chiodi e cunei a cui assicurarsi. Bonatti e Ghigo, con coraggio e soprattutto ostinazione, si convinsero che fosse comunque possibile superare quella parete, e con una serie di grandi intuizioni individuarono il percorso che permise loro di arrivare in cima superando uno dopo l�altro gli strapiombi. Pur contenendone il numero, alla fine usarono 170 chiodi: un numero enorme per i tempi, cosa che fu molto criticata dai puristi ma che di fatto apr� un nuovo e gigantesco capitolo nella storia delle pareti che si potevano scalare sulle Alpi. Un ulteriore esempio dell�intuito e del coraggio di Bonatti fu un�altra sua grande impresa nel massiccio del Monte Bianco, quando nel 1955 pass� sei giorni sul pilastro sud ovest del Petit Dru, un�aguzza guglia di roccia di 600 metri. Durante la salita arriv� sotto a una parete alta decine di metri troppo liscia per essere superata, e senza la possibilit� di scendere o di salire. Era praticamente intrappolato, ma vide a circa 15 metri da lui alcuni spuntoni di roccia. Costru� una sorta di lazo con cordini e moschettoni, e dopo vari lanci riusc� ad arpionarne uno. A quel punto si dovette lanciare nel vuoto, e dopo un lungo pendolo fu in grado di risalire la corda ritrovandosi in un punto della parete pi� agevole, da cui riusc� a raggiungere la vetta. Quel tipo di impresa, da solo e in un posto dove nessun altro voleva salire, fu uno dei tratti distintivi della carriera di Bonatti. In mezzo, tra il Grand Capucin e il Petit Dru, aveva partecipato a una spedizione collettiva che avrebbe segnato irreparabilmente la sua storia e la sua vita. Nel 1954 fu incluso nella spedizione finanziata dallo Stato e organizzata dal Club Alpino Italiano (CAI) per salire il K2, l�ottomila del Karakorum gi� allora considerata la montagna pi� pericolosa al mondo, e mai salita prima. Avrebbe dovuto portare la gloria all�Italia, un anno dopo che il neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay avevano scalato l�Everest. Il 24-enne Bonatti di fatto aveva il ruolo del giovane galoppino. L�onore della vetta sarebbe dovuto andare ad Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, pi� vecchi e dal profilo pi� istituzionale. Ardito Desio, il geologo che guid� la spedizione, dimostr� da subito il suo piglio autoritario quando escluse Cassin, forse temendone il carisma. Dal campo base, Desio coordin� la salita dando ordini attraverso messaggi che venivano poi faticosamente portati agli alpinisti migliaia di metri pi� in alto. Dopo giorni di salita, in cui le coppie di alpinisti si alternavano tra salita e discesa per allestire i campi, portare l�attrezzatura e acclimatarsi, il 30 luglio Lacedelli e Compagnoni arrivarono all�ultimo campo, oltre gli 8.000 metri. Bonatti e il suo socio, l�hunza Amir Mahdi, erano evidentemente i pi� in forma della squadra, e arrivarono nel tardo pomeriggio con le bombole d�ossigeno per i compagni. Non li trovarono per� nel luogo concordato. Li cercarono, e riuscirono a contattarli urlando, senza per� ricevere informazioni precise. Passarono le ore, Bonatti e Mahdi salirono ancora, finch� sentirono i due compagni gridare di lasciare l� le bombole e tornare gi�. Ma Bonatti e Mahdi non potevano scendere, perch� ormai era arrivato il buio. Dovettero bivaccare senza tenda e sacco a pelo a 8.100 metri, scavando un piccolo gradino nel ghiaccio, e aspettando l�alba con temperature che scesero fino a -50 gradi Celsius. Mahdi quasi impazz�, e torn� che ancora era buio. Bonatti lo segu� qualche ora dopo. Lacedelli e Compagnoni, evitato il rischio di dover condividere la vetta, recuperarono le bombole e salirono in cima. La verit� su quello che successe quella notte non fu chiarita pubblicamente per decenni, e questo segn� profondamente Bonatti per il resto della sua vita. Nella relazione ufficiale pubblicata dal CAI fu inclusa la versione di Lacedelli e Compagnoni, che sostennero � con varie incongruenze � di aver allestito il campo pi� in basso, e di aver provato seriamente a comunicare con Bonatti e Mahdi, senza riuscirci. Molto deluso, una decina di anni dopo Bonatti raccont� la sua versione nel suo libro Le mie montagne, ma quella ricostruzione fu messa in dubbio sulla stampa, in una serie di articoli che accusarono Bonatti di aver tentato di sabotare la spedizione per ambizione personale. Bonatti vinse una causa per diffamazione, ma per altri trent�anni la verit� storica sul K2 rimase quella iniziale di Desio, Lacedelli e Compagnoni, difesi strenuamente dal CAI che non voleva mettere in discussione l�impresa. Fu soltanto negli anni Novanta che il CAI pubblic� una prima revisione dei fatti della spedizione, che inizi� a confermare quanto riportato da Bonatti, come fece anche pi� avanti lo stesso Lacedelli. Nel 2004, in parte perch� era sopraggiunta la morte di Desio � che visse 104 anni � il CAI commission� e pubblic� una definitiva relazione sulla spedizione, accreditando infine la versione di Bonatti. Quei decenni passati a sostenere una verit� che non gli veniva riconosciuta per� amareggiarono Bonatti, che ebbe un rapporto sempre pi� complicato con il CAI, con l�ambiente dell�alpinismo istituzionale che lo ostracizz� e con la stampa, che dedic� al caso del K2 moltissime attenzioni e costru� attorno a Bonatti una fama di individualista, incosciente e spregiudicato, disposto a tutto per soddisfare la sua enorme ambizione. Non aiut� il fatto che, dopo il K2, altre imprese di Bonatti furono caratterizzate da grandi drammi. Nel 1956 sul versante della Brenva del Monte Bianco, Bonatti fu colto da una tempesta insieme al suo compagno di cordata e a due giovani alpinisti belgi che aveva incontrato lungo il percorso. Bonatti e il suo compagno si salvarono percorrendo un lunghissimo tragitto passando per la vetta del Monte Bianco, gli altri due morirono dopo aver scelto una strada pi� breve ma pi� ostica. Nel 1961, poi, tentando di salire il Pilone Centrale del Freney sempre sul Monte Bianco, Bonatti rimase per cinque giorni in mezzo alla bufera a 50 metri dall�uscita della via, insieme ai suoi due compagni di cordata e a una cordata di quattro francesi. Il loro ritorno, attraverso il colle dell�Innominata e in direzione di un bivacco, fu estenuante: un membro del gruppo francese fu colpito da un fulmine che danneggi� l�apparecchio acustico che indossava e che insieme al freddo lo fece uscire di testa. A un certo punto aggred� un altro alpinista, temendo stesse estraendo una pistola per ucciderlo. In quattro, tra cui l�amico Andrea Oggioni, morirono di stenti sul ghiacciaio. Bonatti realizz� altre grandissime imprese, sulle Grandes Jorasses e sulle Dolomiti, ma anche in Asia scalando nel 1958 per la prima volta, e senza bombole d�ossigeno, il Gasherbrum IV, una montagna che non � uno dei 14 ottomila solo per poche decine di metri. Pochi mesi prima aveva tentato di scalare il Cerro Torre, una delle guglie pi� complesse al mondo, in Patagonia: in quell�occasione, peraltro, la spedizione di Bonatti intraprese una sfida in contemporanea con una squadra di cui faceva parte Cesare Maestri. La spedizione di Bonatti fall� di fatto per impicci logistici, e nemmeno quella di Maestri riusc� a salire in cima. Fu per il K2, per le varie spedizioni finite in tragedia e le relative polemiche e strumentalizzazioni della stampa che lo logorarono senza che lui avesse in realt� colpe, che nel 1965, a soli 35 anni, Bonatti decise di ritirarsi dall�alpinismo ai massimi livelli con un�ultima formidabile impresa. A 100 anni dalla prima salita del Cervino decise di riassumere in un�unica salita le pi� grandi e storiche difficolt� dell�alpinismo classico, tentando di scalare da solo e d�inverno la gelida, ripida e pericolosa parete Nord, lungo una via diretta e fino ad allora mai percorsa. Nel suo libro I giorni grandi del 1971 scrisse: �Da una parte mi attende un mondo vasto e avventuroso che finora ho appena intravisto, ma che so di amare; dall�altra c�� un alpinismo stanco ed ormai esaurito per la mediocrit�, l�invidia e l�incomprensione. Vivo da anni in un ambiente spossante, che sfiora i limiti della sopportazione. Intorno a me non c�� un�atmosfera amica che generi serenit�. L�autodifesa snervante a cui sono costretto mi logora e mi abbatte. Detesto il vittimismo, ma questa � la verit�. Molti spiano in me soltanto il pi� piccolo fallo, il pi� piccolo peccato, la pi� sottile fessura in cui far leva, per rendermi la vita amara. Forse agiscono cos� soltanto per provare a se stessi che sono un essere umano. E lo sono, infatti, seppure nel mio modo di vivere da solo, e spesso non capito. Non � la montagna, tuttavia, che mi delude, ma l�opacit� di certa gente. Ho deciso. Scender� dai monti, ma non certo per restare a valle: di lass� ho visto e capito altri orizzonti, e un grande giornale che crede in me, mi d� la possibilit� di raggiungerli�. La Nord del Cervino era gi� stata salita nel 1931, ripetuta da allora pochissime volte e solo una in inverno, per una via meno diretta e quindi meno �logica� e spettacolare, per gli standard alpinistici. All�inizio Bonatti non voleva salire da solo, ma poi non riusc� a mettersi d�accordo coi compagni e decise che era meglio cos�. Voleva dire di fatto percorrere la parete due volte in salita e una in discesa, per ancorarsi alla parete in modo da proteggere una eventuale caduta e recuperare man mano l�attrezzatura. La tecnica della �piolet-traction�, il sistema di scalata su ghiaccio in cui ci si tira su con due piccozze e il volto rivolto verso la parete, non era ancora diffusa e Bonatti sal� con una sola piccozza, scavando nel ghiaccio dei gradini che percorreva col fianco rivolto verso la parete. Quando dopo quattro notti in parete raggiunse la vetta, attorno al Cervino volarono gli aerei di chi aveva saputo della sua impresa e volevano vedere Bonatti ancora una volta in cima a una montagna. �Rimango quasi abbagliato. Penso alle aureole dei santi. Gli aerei che finora mi hanno assordato col loro rombo sembrano intuire la solennit� del momento. Forse per discrezione, si allontanano un po� e mi lasciano percorrere gli ultimi metri in silenzio, completamente solo. Come ipnotizzato, stendo le braccia verso la croce, fino a stringere al petto il suo scheletro metallico: le ginocchia mi si piegano e piango�. Il suo addio all�alpinismo estremo era stato una sorta di tributo alla storia dell�alpinismo, celebrata tra gli altri da Buzzati e riconosciuta da Giuseppe Saragat con la Medaglia d�oro della Presidenza della Repubblica. I limiti e le possibilit� dell�alpinismo che tante volte aveva spostato in avanti si erano ormai spostati in Himalaya, e Bonatti prefer� dedicarsi ad altro: il compito di portare avanti l�alpinismo sarebbe stato raccolto pochi anni dopo da Messner. Bonatti nei successivi decenni mise all�opera un�altra sua grandissima qualit�, quella di narratore, divulgatore e fotoreporter. Scese in canoa lo Yukon in Alaska, sal� il Kilimangiaro e il Ruwenzori in Africa, attravers� da solo le foreste dell�Uganda, percorse tanti tratti del Rio delle Amazzoni cercandone le origini in Per�, visit� le popolazioni indigene della giungla indonesiana, scal� l�Aconcagua nelle Ande ed esplor� la Patagonia e l�Antartide, raccontando tutto nei libri e nei reportage, molti dei quali furono pubblicati sulla rivista Epoca. Dal 1980 fu compagno di Rossana Podest�, ragazza-copertina degli anni Sessanta e star hollywoodiana nel kolossal Elena di Troia. In un�intervista Podest� disse che, dovendo scegliere con chi naufragare su un�isola deserta, avrebbe preferito Bonatti. Lui le scrisse proponendole un appuntamento a Roma. Invece di andare davanti all�Ara Coeli, per�, la aspett� qualche decina di metri pi� lontano, davanti all�Altare della Patria. Quando dopo ore si incontrarono, Podest� lo prese in giro chiedendogli che esploratore fosse, se si perdeva nel centro di Roma. Vissero insieme per trent�anni, anche dopo che Bonatti si ammal� di tumore al pancreas. Podest� per� non glielo rivel�, per timore che si uccidesse. Bonatti mor� a 81 anni il 13 settembre 2011 e le sue ceneri furono tumulate a Portovenere, nella tomba dove dal 2013 � sepolta anche Podest�.