Giugno 2024 n. 6 Anno IX Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi �Regina Margherita� Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 c.c.p. 853200 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero della Cultura. Indice Endiadi Perch� mangiamo anche quando non abbiamo fame? Paul Bley: alchimista del jazz Addio a Franca Nuti, signora del teatro italiano Endiadi (di Paolo Maria Mariano, �Prometeo� n. 147/19) - La scienza � un modo di declinare la filosofia: radici comuni delle forme di conoscenza. - Serve la filosofia alla scienza? Segue dibattito in cui tutte le posizioni, per quanto differenti, esprimono riflessioni di natura filosofica, qualunque sia la conclusione e, soprattutto, il percorso seguito per raggiungerla. Per questa ragione, piuttosto che affrontare la possibile formulazione di una risposta diretta, credo sia meglio guardare alla questione da una prospettiva un po' discosta, anzi, porsi perfino il problema della validit� o almeno del senso di quella domanda. Allora, chiedo di rimando: la scienza non � forse una narrazione (con caratteristiche peculiari) di almeno alcuni aspetti dell'interazione che gli umani hanno con il mondo, e del mondo con il mondo, e quindi � essa stessa filosofia, o meglio un modo per declinarla? Nell'organizzazione delle cose umane si tende a suddividere e quindi classificare in discipline il processo di conoscenza di noi stessi e di ci� che ci appare intorno. La domanda d'apertura allora ha a che fare con la distinzione che si pone �istituzionalmente� tra studi scientifici e umanistici, una distinzione che ritengo - e lo dichiaro subito per evitare equivoci - sia dettata quasi essenzialmente da ragioni di convenienza, di conquista e di controllo del territorio, un allontanamento dalla perdita di respiro che provoca la vertigine data dalla vastit� di ci� che si sa e, soprattutto, dal percepire ci� che non si sa. Cos� come ragioni di controllo del territorio e di affermazione personale spingono spesso a propagandare una risposta o l'altra con toni enfatici o attraverso slogan piuttosto che sulla base di un'analisi attenta. Ciascuno di noi ha percezione di cosa sia scienza, alla quale mi riferir� qui in senso ristretto, pensando solo alle scienze cosiddette dure, e ha percezione di cosa siano gli studi umanistici. Per ciascuno di noi, per�, le sfumature possono essere diverse. Pu� essere quindi utile precisare almeno un po' il senso. � possibile proporre una distinzione nei termini della tipologia dei risultati, gli uni di natura sia qualitativa che quantitativa, capaci di esprimere previsioni verificabili, gli altri di natura eminentemente qualitativa: riguardano l'essere umano nella sua interazione emozionale con il mondo e nella definizione della sua dignit�. D'altra parte, se ci rivolgiamo a chi si autoproclama veggente, ci dar� una previsione che potr� anche essere quantitativa. Possiamo dire che sia scienza? La risposta � di sicuro negativa, sempre che in noi non ci sia un'inclinazione per il pensiero magico, che lo faccia immaginare congruo con la percezione fenomenologica, con tutti i problemi di psicologia clinica di cui questo pu� essere indizio. Comunque sia, da un punto di vista persino ingenuo, quello del bambino che dichiara la nudit� del re, non riusciamo a dire che l'attivit� del veggente sia scienza. Di conseguenza, la distinzione in termini di natura ideale dei risultati non sembra essere sufficiente. Tentiamo allora un'analisi delle metodologie. Siamo convinti che uno scienziato sia sempre tenuto a presentare all'interlocutore qualcosa che sia preciso, analizzabile in maniera critica, riproducibile. Pretendiamo che sia qualcosa la cui origine si possa controllare; qualcosa i cui confini siano ben definiti; qualcosa che emerga da un processo critico e che sia suscettibile di aggiornarsi o accettare di ridurre i propri confini in presenza di falsificazioni delle proprie proposte o, comunque, come conseguenza di un successivo approfondimento critico. Vogliamo qualcosa che non sia l'espressione di un processo retorico in cui non si cerchi intenzionalmente la verit� delle cose, per quanto si possa solo sperare di avvicinarsi ad essa, ma si voglia solo prevalere nella contesa con un interlocutore anche potenziale. Pensiamo, quindi, alla scienza come all'emergere del pensiero razionale, della capacit� critica, anche e soprattutto in senso costruttivo, e qui mi riferisco a una capacit� interpretativa e propositiva, quella di costruire modelli di fenomeni naturali, modelli che sono - e su questo torner� - rappresentazioni di ci� che del mondo percepiamo. D'altra parte, l'analisi critica razionale appartiene anche agli studi che classifichiamo come umanistici e ci� giustifica espressioni come �scienze umane�, �scienze giuridiche�, �scienze politiche�; di certo quell'analisi non ha lo stesso rapporto con locuzioni come �scienze occulte�, di cui non intendo discutere in questa sede. Nella lingua tedesca si usano termini come Literaturwissenschaftler o Kunstwissenschaftler, senza che nessuno pensi istintivamente che siano espressioni ironiche. L'analisi generale della metodologia pare quindi non essere esaustiva. Possiamo avanzare una distinzione che vada al di l� dei temi specifici e della capacit� di fruire dei risultati, quando pensiamo all'attivit� dello studioso di �filosofia naturale� - uso il senso dato ai tempi di Newton per indicare l'analisi dell'universo dei fenomeni naturali - e del matematico e la immaginiamo in contrapposizione, per cos� dire, a quella di un poeta, un pittore, un narratore, un compositore, esempi di certo �umanistici�. Ricordiamo, allora, che il filosofo naturale, per quanto voglia e debba ricorrere alla fantasia, ha sempre il dovere di confrontarsi con l'insieme dei fenomeni cui si riferisce. Cos� il matematico ha il peso della necessit� della dimostrazione rigorosa, espressa in una logica non contraddittoria, e questa necessit� � propria anche di chi si occupa dei fenomeni naturali, nel suo farne rappresentazioni in termini matematici. Tutto ci� imbriglia la fantasia? Sancisce una distinzione? In realt�, non appena si formulano queste domande, ci si ricorda che ci� che poeti, pittori, narratori, compositori esprimono emerge dalla loro interazione con il mondo che li circonda, anche quando rappresentano l'inverosimile; per loro, per�, dell'interazione con il mondo � l'aspetto emozionale ad avere un ruolo essenziale. La domanda si ripresenta: tutto ci� imbriglia la fantasia? Tra le righe c'� comunque da ricordare che la fantasia emerge da noi, quindi � essa stessa parte del mondo, e tiene conto del mondo � di fatto, ancora una volta, sembra quasi che la domanda sia insufficiente (o perfino posta male) per stabilire una differenza, quella di cui ho discusso fin qui. Il critico d'arte e filosofo statunitense Arthur Danto sosteneva che la scienza si preoccupa di fenomeni empirici, mentre la filosofia esamina (indiscernibili) differenze che vivono al di fuori dell'esperienza. C'� per� da ricordare che si giunge a considerare e a discutere quelle differenze per astrazione (intesa qui come processo limite a partire) dall'esperienza, perch� siamo noi che le individuiamo e noi siamo carne e sangue, siamo nel mondo. Negli articoli tecnici che riguardano aspetti del mondo fisico leggiamo frasi riferite a enti astratti; per esempio: �il moto quantistico su qualche co-insieme di una super-variet� G/H, con G un super-gruppo e H solo un gruppo�. Oppure proponiamo un intero schema descrittivo di una classe di fenomeni fisici tangibili all'esperienza quotidiana, come ad esempio le fratture, invocando enti astratti, come i varifold che non riesco a figurare visivamente se non in maniera vaga, ma conosco attraverso le loro propriet�, quelle che mi hanno spinto a coinvolgerle nella descrizione delle fratture. In tutti questi casi ci riferiamo a elementi che vivono di per s� e compiutamente anche fuori dall'esperienza ma che si raggiungono (cos� come le questioni filosofiche) per astrazione dall'esperienza, in quel processo limite che la fantasia di qualcuno permette (qui � il miracolo della creativit� umana) e che poi diventa patrimonio di altri attraverso la valutazione critica delle sue conseguenze. Certo, mi si dir�, c'� l'esperimento. L'esperimento, per�, per essere interpretato o perfino per essere progettato, quando non sia accidentale, richiede una visione teorica del fenomeno cui si riferisce. Inoltre, la visione teorica che l'esperimento pu� suggerire (si pensi agli esperimenti mentali di Einstein) emerge dalla capacit� di elaborazione di chi percepisce quella �suggestione�, una capacit� che � frutto sia del suo talento sia del suo bagaglio culturale. Giorgio Pasquali, che fu filologo di vaglia, ricordava che �la filologia non � n� scienza esatta n� scienza della natura, ma, essenzialmente se non unicamente, disciplina storica: questo sa qualunque filologo serio che abbia riflettuto un poco sul proprio mestiere. E qualunque filologo non sia perfettamente ignaro dei metodi delle altre discipline, perfettamente privo di cultura generale, perfettamente incapace di pensare chiaramente, sa benissimo che non solo negli studi delle antichit� classiche ma, e pi� ancora, nelle altre discipline le verit� importanti sono state, prima che dimostrate, intuite fantasticamente; sa che segnatamente le matematiche esigono dai loro cultori una forza di immaginazione ben maggiore che non la filologia, dalla quale, secondo taluno, filologi scientifici in ossequio alla scienza vorrebbero bandita la fantasia. Senza la fantasia non ci si pu� raffigurare solidi, nonch� di n dimensioni, di tre; senza fantasia non si pu� intendere il pi� semplice teorema stechiometrico� (Filologia e storia, Le Monnier, Firenze 1964, p. 50). L'intuizione fantastica, di cui scrive Pasquali, emerge nella pratica del fisico e del matematico, ed � l'inizio di un cammino che attraversa i territori del confronto con i dati empirici e delle dimostrazioni formali che la corroborano e la raffinano. Lo stesso Pasquali, infatti, scrive �prima che dimostrate�, perch� bisogna completare il cammino di un processo di ricerca, dopo il quale si vede un panorama di altri possibili inizi per ulteriori cammini. Possiamo andare cos� avanti nella ricerca di analogie e differenze tra discipline che usiamo definire e distinguere per metodi e temi; se dovessimo procedere cos�, per�, perderemmo forse il senso pi� intimo della loro natura, tenderemmo a stornare l'attenzione dal fatto fondamentale che stiamo discutendo di aspetti del modo con cui decliniamo il processo di conoscenza di ci� che ci circonda e di cui facciamo parte. Allora le questioni sostanziali sono altre e riguardano la natura del processo di conoscenza nelle forme in cui esso si manifesta. Che cosa facciamo, infatti, quando descriviamo il mondo? Se ci soffermiamo su questo punto, ci accorgiamo che al di l� della differenza di temi, metodologie, modi di espressione dei risultati e della differente difficolt� dei linguaggi necessari per intenderli, la maniera in cui nasce e si sviluppa il processo di conoscenza nell'intimo degli attori che lo interpretano � lo stesso in tutte le discipline e concerne la natura di ci� che chiamiamo creativit�. Certo, qui si potrebbe discutere ampiamente se i risultati di alcune discipline come la matematica e la fisica-matematica siano scoperte o creazioni, e la discussione diventerebbe forse tediosa. Per questo tipo di discussione, chi ha raggiunto quei risultati non ha molto interesse: ritiene che siano creazioni, null'altro. Nel Tractatus (al numero 5.641), Wittgenstein sostiene che � il proprio mondo ci� che ciascuno descrive, e quel proprio � nel senso della percezione per cos� dire �sensoriale� del mondo, essa stessa una rappresentazione che d� luogo a un'altra rappresentazione di tipo linguistico. La scelta � quindi quella delle forme linguistiche, ognuna delle quali d� luogo a una formalizzazione. Se vogliamo che abbia carattere sia qualitativo che quantitativo, allora appare inevitabile riferirsi alla matematica, l'unico linguaggio in grado di qualificare e quantificare senza ricorrere a strutture linguistiche a esso esterne (in questo senso, accessorie). Il risultato della formalizzazione di quella percezione o della congettura di una possibile percezione, per estrapolazione da esperienza altra, si misura con le conseguenze che ne emergono e il confronto con la valutazione critica altrui che porta al confronto con altre possibili interpretazioni della stessa fenomenologia percettiva. L'analisi sviluppata nel tempo fa s� che quella lettura del mondo inizialmente propria, per chi la propone, diventi patrimonio di altri che ne fanno esperienza intellettuale e pratica. La richiesta che i modelli siano predicativi esprime il desiderio di prendersi una nuova porzione di mondo, cio� di far s� che il mio mondo, per usare l'indicazione di Wittgenstein, sia pi� grande. La condivisione dell'interpretazione della visione inizialmente personale, per cos� dire, ha un effetto corroborante per l'interpretazione stessa, cio� per la visione teorica dei fenomeni in questione, visione che � rafforzata e limata o perfino modificata dal confronto con l'esperienza e l'altrui valutazione critica, ma non riesce a disfarsi dei limiti connaturati alla natura umana di chi si impegna nel processo di conoscenza. In questo processo si aspira all'universalit� per progressivo distacco dall'intuizione. D'altra parte, per�, c'� consapevolezza dei limiti dell'intendere umano, non solo delle ragioni ultime dell'essere nel mondo e del mondo ma anche dell'origine del �perch� del mondo e dei fondamenti che ne hanno determinato la necessit� come loro conseguenza. Di certo si pu� tagliare il nodo gordiano delle origini sostenendo che tutto sia venuto per caso; se si fosse inclini a visioni espressioniste, si potrebbe parlare dell'emergenza casuale di strutture coerenti da un maelstrom caotico, ma anche qui c'� da capire cosa s'intenda per caso e, dopo averne accettato una definizione formale (matematica), rendersi conto che anche il caso ha le sue leggi. Cos�, i limiti insiti nell'atto di conoscenza e l'esperienza fenomenologica ci spingono a stabilire principi che delimitano gli ambiti del nostro operare. Sono questi gli assiomi delle teorie, qualcosa nella cui validit� si crede a priori per estrapolazione da quella che si ritiene essere ragionevolezza e dall'esperienza. Crediamo, infatti, a molto pi� di quanto siamo genericamente disposti ad ammettere. Sempre nel Tractatus, Wittgenstein attribuiva all'identit� di struttura tra gli elementi linguistici che usiamo per descrivere il mondo e i fatti sottostanti (la realt� fenomenologica), quella che chiamava forma logica, la possibilit� di descrivere il mondo. La struttura ora in questione � la tipologia di relazioni che intercorrono tra gli elementi linguistici usati e quelli dei fenomeni considerati (punti 2.15, 2.2 e seguenti, 4.01 e seguenti). Tutto ci� presume l'esistenza del mondo fisico fuori da noi ed � una questione particolarmente delicata da un punto di vista fondamentale. Quanto appare ai sensi dell'osservatore � per lui il mondo fisico e quindi costui, tendenzialmente, non rinuncia alla sua azione investigativa. L'essere umano - diceva Wittgenstein nelle sue note su Frazer e ricordando, immagino, Cassirer - � un animale rappresentativo: ha bisogno di simboli per riconoscersi. Gli assiomi che postuliamo o accettiamo senza dimostrazione nella costruzione di modelli matematici della natura hanno il ruolo di simboli in cui riconosciamo la nostra attivit� interpretativa dei fenomeni. D'altra parte, per�, quel nostro agire indica che, in pi�, l'essere umano � un animale congetturale. Immaginiamo che una qualche classe di fenomeni si sviluppi attraverso certi meccanismi, poi cerchiamo una forma logica rigorosa che esprima quella nostra immaginazione, e la cerchiamo in un processo di progressiva astrazione che per noi raggiunge un limite compatibile con le nostre aspettative e le nostre abilit� per cos� dire tecniche. In questo modo costruiamo una narrazione di quanto pensiamo essere reale. Nel costruire una rappresentazione che esprima il meccanismo pertinente a un fenomeno o, per meglio dire, a una classe di fenomeni, scegliamo un linguaggio, un modo di espressione, tendenzialmente matematico; in ci� esprimiamo un'idea attraverso quel linguaggio. Possiamo adottare differenti generalit� formali nell'esprimere uno stesso modello. Possiamo individuare modi diversi di esprimere lo stesso meccanismo, secondo linguaggi diversi che indicano modelli differenti, oppure secondo modi diversi nello stesso linguaggio, ottenendo ancora una volta modelli diversi anche solo per aspetti interpretativi, se non per fatti formali. Ogni scelta matematica per rappresentare lo svolgersi di un fenomeno naturale, oltre a essere motivata dalla congruit� con gli enti che paiono rilevanti a chi propone un modello, � anche una scelta stilistica mossa dal senso estetico di chi la fa, ed � quindi anche una scelta narratologica. Si sente che, tra scelte possibili, quella adottata pu� essere la pi� indicata non solo all'esigenza momentanea, cio� a esporre quelli che si ritiene siano i meccanismi essenziali di una classe di fenomeni, una diegesi dell'impianto retorico classico in essenza, ma soprattutto con una visione di prospettiva di sviluppo, nel senso della possibilit� di aprire nuovi percorsi d'indagine. Naturalmente questa narrazione tende all'universo dei fenomeni. Non � materia di una pura discussione qualitativa, n� � oggetto di trattativa fine a se stessa (incidentalmente, tentare di ridurre �tutto� a trattativa equivarrebbe a dire in maniera felpata che �alla fine vince il pi� forte indipendentemente dai fatti soggiacenti�). Questo tipo di narrazione deve confrontarsi con l'analisi critica, con l'attivit� sperimentale e osservativa, che pure guida, e non ultima con la necessit� inevitabile delle dimostrazioni formali. � una continua lotta tra chi la formula e la natura, una lotta di comprensione, un'attivit� di scavo che non pare avere fine. Anche nella ricerca matematica pura, cio� nel tentativo di ampliare le strutture di quel linguaggio che � la matematica e che comunque emerge dalla nostra percezione del mondo (nella prima parte della Praefatio dei Principia, Newton ricorda che la geometria deriva dalla meccanica), un teorema prima si sente e, solo poi, si passa tanto tempo a cercare di dimostrarlo, e anche qui la dimostrazione pu� o meno dare luogo a differenti prospettive. Un esempio � il caso del problema della regolarit� h�lderiana delle equazioni uniformemente ellittiche. Ennio De Giorgi e John Nash presentarono due dimostrazioni indipendenti e differenti nel 1958: l'argomento di Nash era chiuso in se stesso, sia pur perfetto ed elegante, quello di De Giorgi ha aperto un mondo. In questo sentire e nelle scelte conseguenti svolge un ruolo un fattore estetico che parte da una sorgente soggettiva, connessa alla sensibilit� e alla cultura del singolo, ma poi tende ad astrarsi per la diffusione e le conseguenze delle idee che quel singolo propone, e perfino a storicizzarsi, fattore, per�, di cui al momento non riesco a dare una definizione precisa in grado di resistere almeno alla critica ingenua, ma che comunque collego all'economia delle ipotesi, alla consequenzialit� delle argomentazioni, al loro essere dirette, non farraginose. Nei modelli matematici dei fenomeni naturali, la questione consiste nel definire il ruolo di questo fattore estetico riguardo alla connessione del modello con i fatti soggiacenti la percezione fenomenologica, questione che nasce dal constatare che esso funziona: � nota la posizione di Hermann Weyl sulla preminenza della bellezza nel suo lavoro di fisico. Da qui nasce la discussione sulla relazione tra scienza e arte, per me non tanto nella percezione visiva dei risultati, per esempio nelle raffigurazioni che emergono da alcune questioni matematiche - si pensi ai frattali, per esempio - quanto nel modo in cui si sviluppa il processo che porta a un risultato nell'animo di chi lo persegue, sia esso di fisica-matematica o di una delle arti tradizionalmente intese come tali. In un numero di �Philosophia Mathematica� del 2018 si � discusso se il fenomeno dell'estetica nella matematica rivelasse qualche importante analogia tra la pratica matematica e ci� che � storicamente inteso come arte. Personalmente credo che la domanda da porre possa perfino essere pi� circostanziata: possiamo dire che il processo interiore di chi vive le due pratiche abbia la stessa natura, nonostante le differenze nella tipologia e nell'essenza dei risultati, nel modo in cui sono espressi, nella loro connessione con la verit� e nella possibilit� di fruirli? Ritorna la questione delle distinzioni tra discipline. A questo proposito mi sembra interessante l'intervento di Paul K. Feyerabend al Boston Colloquium on Philosophy of Science del 1964-1966: �La specializzazione � stata sempre una marcata caratteristica delle culture altamente sviluppate. Ma uno specialista del passato era cosciente della necessit� di mettere in relazione i propri risultati con principi pi� generali ed era disponibile a prendere in considerazione una critica che mettesse in discussione il valore globale della sua ricerca, mentre ora la pratica della specializzazione � rinforzata aggiungendole una richiesta di autonomia. Non solo siamo in presenza di differenti campi del sapere, ma ognuno di questi � ansioso di difendere i propri confini e si oppone a qualsiasi interferenza dall'esterno. [...] Naturalmente non tutti insistono cos� sull'autonomia, ma stiamo parlando di tendenze, che si sono assai rinforzate negli ultimi due o tre secoli e che hanno contribuito in maniera decisiva alla formazione di quelle istituzioni che hanno con continuit� sostenuto l'esistenza della nostra cultura� (P.K. Feyerabend, Contro l'autonomia. Il cammino comune delle scienze e delle arti, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 19). L'argomento che � usato istintivamente a favore della richiesta di autonomia � la difficolt� a padroneggiare con competenza l'estensione e la complessit� delle varie discipline. La questione, per�, non � tanto conoscere tutto, ma piuttosto evitare la chiusura esclusiva, cadere cio� in un integralismo della specializzazione. Scoperte rilevanti hanno beneficiato dell'apporto di nozioni e di suggestioni provenienti da settori spesso apparentemente distanti. Un esempio fra tanti � la dimostrazione di Perelman della congettura di Poincar�: concetti di analisi matematica, geometria differenziale e fisica statistica hanno contribuito alla dimostrazione. Chi usa l'argomento della vastit� e del tempo limitato per giustificare il fatto di distogliere lo sguardo da ci� che non � la sua disciplina o perfino, e pi� frequentemente, da uno specifico sotto-settore di essa, non disconosce di certo la storia delle scoperte ma lascia implicitamente quel modo d'agire ampio a poche persone, eccezioni che sente lontane da s�, preferendo rimanere ancorato al campo che frequenta fin dai suoi primi passi nella ricerca. Non si tratta solo dell'istinto a cercare di conservare la posizione acquisita e, soprattutto, a non mettere in dubbio di meritarla; vi � anche il timore di non essere capaci di acquisire nuove conoscenze con un'efficacia paragonabile a quelle che gi� si possiedono. C'� infine il timore della stanchezza che porta a una possibile perdita d'influenza, di quell'effimero potere che lo studioso sente di avere. Sono tutti aspetti psicologici connessi all'affermazione di s�, disconnessi talvolta da un'auspicabile pace interiore. Feyer�bend aiuta ancora una volta a riflettere su questo tema, quando osserva che �far riferimento ad una supposta maggior libert� dei singoli campi nasconde in realt� la non diminuita schiavit� degli individui che in essi si muovono. Un individuo che lavora in un certo campo � soggetto a molte restrizioni. [...] Cos�, ad esempio, il fisico medio molto difficilmente metter� in discussione le teorie di base utilizzate nel suo particolare settore di ricerca, ma le dar� per buone. Non ha tempo per sottoporle ad esame se vuole risolvere con successo i problemi concreti di calcolo e di progettazione che sorgono nel loro utilizzo. Tuttavia egli potrebbe assumere un atteggiamento pi� rilassato: potrebbe concedersi un po' di tempo e unirsi a coloro che sono impegnati nella critica ai fondamenti. Perci� il fatto che egli le dia per buone non limita la sua libert� (ibidem, pp. 20-2 1). L'indipendenza genera ambienti chiusi che si considerano autosufficienti. Voler aderire a tali settori vuol dire in sostanza farsi cooptare. Per ottenere la cooptazione, la strada pi� semplice � quella di accettare i rituali della trib�, facendo capire di non oscurare i capitrib�, aspetto tanto pi� necessario quanto pi� i capitrib� sono di scarso valore. Questa via breve, per�, genera un atteggiamento acritico, quello che Feyer�bend con una certa inclinazione all'iperbole chiama schiavit�. L'attenzione di Feyerabend � rivolta soprattutto alla fisica e in particolare alla sua natura di disciplina basata sull'esperienza. �Nel Medioevo e nell'opera di Aristotele la domanda �Perch� l'esperienza?� riceveva una risposta. Non intendo neppure per un momento affermare che la risposta fosse del tutto corretta. Era tuttavia un passo nella giusta direzione e mostrava che le limitazioni alla ricerca che inceppano il ricercatore d'oggi non inceppavano il pensatore medioevale. La richiesta di autonomia e la corrispondente richiesta di escludere ogni metafisica - una richiesta che suona cos� moderna, e cos� progressiva - chiude la porta a questioni del genere ed elimina qualsiasi possibilit� di fornire una risposta, magari sbagliata. Questo � il primo svantaggio dell'autonomia. C'� poi una seconda ragione per la quale la richiesta di autonomia non pu� essere accettata senza una critica: l'autonomia, se portata consistentemente avanti, non ci mette in grado di esaminare il valore complessivo di un oggetto di studio. Un tale esame infatti presuppone princ�pi che trascendono qualsiasi particolare settore� (ibidem, p. 22). Non � tanto cruciale, forse, guardare all'atteggiamento personale dei singoli operatori o delle istituzioni educative, quanto riconoscere se e per quale motivo le varie discipline del sapere condividano aspetti di fondamento, nonostante le diversit� di obiettivi, linguaggi, modi d'operare. E mi riferisco soprattutto a quelle in cui gli aspetti creativi hanno un ruolo rilevante. Non discuto qui se sia pi� appropriato alla conoscenza della natura l'approccio prometeico o quello orfico, nella terminologia di Pierre Hadot, l'uno meccanicistico, l'altro �che punta a scoprire i segreti della natura limitandosi alla percezione, senza l'aiuto di strumenti tecnici, utilizzando solo le risorse del discorso filosofico e poetico o quelle dell'arte pittorica�, perch� la memoria storica indica che �le due tradizioni s'incrociano e completano a vicenda� (P. Hadot, Il velo di Iside. Storia dell'idea di natura, Einaudi, Torino 2006, p. 151). Entrambi questi modi di operare sono rappresentazioni che hanno in vario grado una natura sperimentale e una congetturale. Gli aspetti essenziali sono le conseguenze, alle quali ritengo si debba sempre accompagnare una riflessione costante su cosa effettivamente facciamo quando osserviamo il mondo. Un'osservazione di Pierre-Gilles de Gennes chiarisce il punto di vista: �Alcuni filosofi raffigurano i ricercatori come uomini che stabiliscono una verit�. Molti di noi per� non si riconoscono completamente in questo schema. I ricercatori del nostro tempo non pretendono mai di costruire una verit� ultima. Noi costruiamo soltanto, con molte esitazioni e goffaggini, una descrizione approssimativa della natura� (P.G. de Gennes, L'esprit de Primo Levi, �Le Monde�, 23 ottobre 2002, p. 18). La questione essenziale �, ripeto ancora una volta, che scienza e letteratura, cos� come le arti figurative e la musica, sono discorsi sul mondo, del nostro riflettere sulla natura del mondo e sul nostro essere nel mondo e parte del mondo: appaiono quindi come modi di espressione della filosofia. Ed � proprio perch� tutte queste forme di narrazione hanno origine negli esseri umani che condividono aspetti comuni nei loro fondamenti e hanno bisogno le une delle altre, e si pu� dire che, per lo meno in qualche misura, sono le une nelle altre. Il resto � materia della qualit� degli esseri umani che cercano di conoscere il mondo, qualit� intellettuale, qualit� etica. Perch� mangiamo anche quando non abbiamo fame? (di Alberto Pellai, �Psicologia contemporanea� n. 224/11) - Negli ultimi venti anni abbiamo assistito a una trasformazione delle abitudini alimentari. Che cosa spinge le persone a una iperalimentazione e a mangiare indipendentemente dal bisogno di cibo? - Il cibo, che fino a met� '900 era un bene di difficile reperibilit�, soggetto a limitazioni dovute a crisi economiche, carestie e quant'altro, � oggi invece altamente disponibile, facilmente accessibile e la sua immissione sul mercato � nelle mani di aziende e multinazionali, i cui messaggi di marketing e le cui strategie di vendita e promozione hanno trasformato i nostri consumi e il valore che attribuiamo loro. Lo stile alimentare dei bambini, ad esempio, � oggi dibattuto a pi� livelli, medico, educativo, psicologico, massmediologico, in quanto spesso � connotato da sregolatezza e mancanza di buoni principi nutrizionali. Il fatto che troppi bambini mangino male e facciano poco sport ha portato ad un'epidemia di problemi di sanit� pubblica che solo venti anni fa sarebbero stati impensabili e a causa dei quali le giovani generazioni rischiano di vivere meno di quelle che le hanno precedute (condizione mai verificatasi prima nella storia dell'umanit�). L'obesit� infantile rappresenta in termini clinici ed epidemiologici uno dei pi� preoccupanti problemi sanitari del XXI secolo. Nel 2007 l'Organizzazione Mondiale della Sanit� ha indicato che nel mondo ben 22 milioni di bambini sotto i 5 anni di et� era sovrappeso, condizione che costituisce uno dei maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di molte patologie croniche, quali malattie cardiache e respiratorie, diabete di tipo 2, ipertensione e alcune forme di cancro (Pellai, 2010). Negli Stati Uniti, dove circa un terzo dei soggetti in et� evolutiva si trova in condizioni di sovrappeso o di obesit�, Michelle Obama ha lanciato un piano strategico che nell'arco di tre decenni dovrebbe consentire un'inversione di rotta e riportare le giovani generazioni ad uno stile alimentare e di vita compatibile con un quadro di migliore salute e pi� lunga sopravvivenza. Il suo progetto si basa su una programmazione a 360� che dovrebbe prevedere sia un'azione a scuola, con programmi di educazione alimentare e distribuzione di cibo pi� sano nelle mense, sia un'azione in famiglia, con un ruolo attivo dei genitori sollecitati a includere meno alimenti fritti e dolci nel menu dei figli. Nelle comunit� residenziali, inoltre, il governo statunitense incoragger� la riapertura e la diffusione di piccoli negozi che vendano alimenti freschi e sani e favorir� la promozione di attivit� sportive tra i ragazzi (in alternativa ai videogame casalinghi). Come mai nel giro di pochi decenni si � creata una simile emergenza sanitaria? Cosa � successo nel rapporto tra cibo e consumatore, sregolatosi al punto da trasformare l'alimentazione in uno dei principali fattori di rischio per il benessere? Un'analisi molto interessante � quella offerta da David Kessler (2010) che, unendo osservazioni provenienti dal mondo delle neuroscienze, della pedagogia, del marketing e delle scienze della nutrizione, ha analizzato e descritto un nuovo disturbo del comportamento alimentare da lui denominato �iperfagia condizionata�. Si tratta di un �impulso� a mangiare che intrappola il soggetto in processi nei quali motivazione e abitudini alimentari si sovrappongono, pilotati da un'alterata azione di dopamina e oppioidi rilasciati in alcune aree ipotalamiche del nostro cervello. Tali circuiti neuronali non vengono pi� attivati da stimoli interni al corpo, bens� esterni, presenti nell'ambiente di vita, che inducono a mangiare sempre e tanto, soprattutto cibi iperappetibili, indipendentemente dal reale bisogno su un piano organico. Alla base dell'iperfagia condizionata secondo Kessler ci sono quattro elementi che ne diventano fattori determinanti: 1 - L'estrema disponibilit� di cibo negli ambienti di vita, condizione che automaticamente ne aumenta l'assunzione; 2 - La capacit� del cibo di diventare fonte di �pregiudizio attenzionale�, ovvero di concentrare l'attenzione e il desiderio di un soggetto che, avendolo nel proprio campo percettivo, se ne trova inconsapevolmente e irresistibilmente attratto; 3 - L'iperappetibilit� degli alimenti, costruita ad hoc e artificialmente dall'industria alimentare; 4 - La stabile modificazione della struttura del nostro cervello, che genera alterazioni nei circuiti neuronali: si assume pi� cibo a causa di un fenomeno regolato da neuromediatori che generano un processo abbastanza simile a quello delle tossicodipendenze classiche. Pu� una cosa che � eccessivamente disponibile condizionarne l'utilizzo, generandone un consumo quali-quantitativamente squilibrato? Tale aspetto diviene altamente problematico in et� evolutiva, quando il soggetto apprende uno stile alimentare in cui ci� che impara a mangiare � il risultato della sua capacit� di trovare un equilibrio tra il principio dell'omeostasi e quello della gratificazione. Il primo permette l'introduzione di cibi in quantit� tali da compensare il dispendio energetico associato al metabolismo basale e alle altre attivit� effettuate nel corso di una normale giornata. Il principio dell'omeostasi �salta� nel momento in cui un soggetto assume molte pi� calorie di quelle che gli necessitano e questo spesso deriva dal secondo fattore in gioco, il principio della gratificazione, che muove l'essere umano verso la ricerca di esperienze che generano piacere. Alimentazione e sessualit� rispondono a questo principio in quanto sono funzioni necessarie alla sopravvivenza della specie: l'uomo � �programmato� dall'evoluzione a ricercare cose piacevoli ed � spinto dalla forza e dall'intensit� del desiderio a ottenerle per provare un senso di soddisfazione. L'estrema disponibilit� di cibo nell'ambiente di vita ha spostato le abitudini alimentari dei bambini sempre pi� verso il principio della gratificazione, sminuendo la funzione autoregolatoria rispondente al principio dell'omeostasi, come confermano molte ricerche condotte su soggetti in et� evolutiva. Esse hanno dimostrato che, negli anni '80, la quasi totalit� dei bambini di et� compresa tra i 2 e i 4 anni era in grado di compensare con attivit� fisica il 90% delle calorie introdotte in eccesso con l'alimentazione, mentre negli anni '90 tale compensazione avveniva nella met� dei soggetti. Altri studi hanno rilevato che negli ultimi vent'anni i bambini pi� piccoli sembrano aver perso la capacit� di interrompere l'abitudine a introdurre cibo nel corpo, pur avendone assunto in quantit� superiori al proprio fabbisogno: nonostante il consumo di pasti ipercalorici, molti bambini non smettono di mangiare se il cibo rimane disponibile nel loro ambiente di vita. La differenza tra bisogno fisiologico di mangiare e desiderio di mangiare dipende da aspetti motivazionali che hanno una differente base neurobiologica, condizionata dalla funzione neuroregolativa della dopamina. Essa, infatti, aumenta la propria concentrazione nelle aree neuronali che spingono e motivano il nostro comportamento verso uno scopo piacevole ed � il fattore chiave alla base del processo definito dagli esperti come pregiudizio attenzionale. Quando uno stimolo piacevole risulta presente nel nostro ambiente di vita, esso concentra su di s� tutta l'attenzione del soggetto, che perci� trascura di porla su altre variabili concomitanti. Lo stimolo fonte di pregiudizio attenzionale attira su di s� prima l'attenzione, poi il desiderio del soggetto che aumenter� il rilascio dopaminergico, che a sua volta motiver� il soggetto a muoversi verso e poi a consumare l'oggetto che si � reso cos� desiderabile. Se tale oggetto consiste nel cibo, la persona lo assumer� basando il proprio comportamento alimentare non su un bisogno reale, derivante dal principio dell'omeostasi, ma su un bisogno derivato da uno stimolo ambientale, che dall'esterno del corpo induce una motivazione interna all'assunzione. Si pensi a cosa succede ad una persona che, partecipando ad una riunione di lavoro, si trova sul tavolo un vassoio di pasticcini alla crema a disposizione. In molti casi, alcune persone cominciano a provare un'automatica attrazione verso i dolci, cosa che diminuisce l'attenzione e la concentrazione verso i processi di lavoro. La visione del cibo induce il desiderio di consumo che rimane attivo finch� l'ultimo dolce non scompare dal piatto in cui � appoggiato. Sono molte le persone che riferiscono di vivere un vero e proprio stato di tensione che sussiste fino alla permanenza dello stimolo alimentare nel proprio campo visivo e che si esaurisce solo con la scomparsa dello stesso. � appetibile, in senso letterale, un cibo che, una volta assunto, induce a mangiarne ancora. Tale caratteristica dipende dalla funzione di percezione gustativa presente sugli organi di recezione sensoriale distribuiti sulla lingua, le papille gustative, e dalla predisposizione individuale per cui ciascuno di noi � spinto a cercare quella tipologia di sapori, condizione che induce nel soggetto la motivazione automatica a volerne assumere ancora. Non � il singolo sapore a generare l'appetibilit� di un alimento, ma una miscela di sapori, che contempla un mix di zuccheri, grassi e sale, oltre ad alcune caratteristiche sensoriali quali, ad esempio, la densit�, il profumo, la fragranza croccante. � anche importante considerare che pi� appetibile e gratificante � il cibo che abbiamo di fronte e pi� potente � l'effetto di �intrappolamento� della nostra attenzione, generato in funzione del pregiudizio attenzionale. Infatti, e le aziende alimentari ne sono ben consapevoli, � possibile potenziare questo effetto anche agendo attraverso la multisensorialit� degli stimoli associati al cibo: pi� si lavora su texture, consistenza, profumo, sapidit�, colore e forma, pi� l'alimento stimola il rilascio di dopamina, diventando, cos�, un potente portatore di una promessa di gratificazione e provocando un desiderio eccitato che attiva la corteccia orbito-frontale del nostro cervello, la zona pi� sensibile allo stimolo proveniente da cibi iperappetibili. Un cibo iperappetibile altamente disponibile nel nostro ambito di vita pu� divenire, quindi, fonte di pregiudizio attenzionale, facilitando il nascere nel soggetto di un forte desiderio di assumerlo, condizione che viene rinforzata dal contemporaneo rilascio di dopamina. Tale neuromediatore motiva l'individuo a dirigersi verso di esso cos� da consumarlo, azione che placa il desiderio e permette di sperimentarne il piacere promesso, connotato dal rilascio di oppioidi endogeni. � questa combinazione di oppioidi e dopamina che induce nel soggetto una specie di �coazione a ripetere�, attraverso la ricerca ulteriore di quel tipo di cibo. In pratica, dopo una momentanea interruzione dell'eccitazione, si innesca nuovamente il circuito, che nel tempo si struttura e si attiva cronicamente, cos� da trasformare e spostare la motivazione alimentare del soggetto in un'abitudine inconsapevole che lo fa mangiare anche se non ha fame. I quattro aspetti sopra esposti determinano l'iperfagia condizionata, che trasforma lo stile alimentare degli esseri umani, da motivato a indotto e abitudinario, spingendoci a mangiare anche quando non abbiamo fame. Le nuove generazioni si trovano a crescere in un mondo che ha reso il cibo un pensiero fisso, quasi ossessivo, in cui l'industria si � votata al concetto di �eaterteinment�, trasformando il cibo da elemento che soddisfa il bisogno alimentare dell'uomo a prodotto che invece lo deve intrattenere, divertire, gratificare e travolgere, forse anche stravolgere, di piacere. Aver trasformato per� la funzione del cibo, rendendola rispondente al principio della gratificazione, e quindi facendolo diventare una delle prime fonti di piacere per l'uomo, ha indotto gli esseri viventi a considerare il cibo un vero e proprio sostituto di altre esperienze ad alta valenza emotiva. Ecco perch� oggi molte persone hanno imparato a �far l'amore con il sapore�, proprio come afferma lo slogan di un prodotto alimentare. Come educatori ed esperti di sanit� pubblica dobbiamo ora pensare ad una nuova educazione alimentare delle future generazioni capace di renderle resistenti alla ricerca di un eccesso di gratificazione nel cibo, evitando lo sviluppo di una specie di ipersensibilit� nei suoi confronti, cos� da non trasformnarlo in un pensiero ossessivo. Bisogna reinsegnare ai bambini a mangiare quando ne hanno realmente bisogno e rendere loro disponibile un cibo che rinunci ad essere iperappetibile, privilengiandone invece il valore nutrizionale. Il circuito stimolo - desiderio - gratificazione - abitudine deve essere trasformato in una pi� equilibrata offerta di alimenti che soddisfino il principio dell'omeostasi e che non abituino i pi� piccoli a trovare nel cibo una fonte di gratificazione primaria per la propria vita. Al tempo stesso, � necessario rieducare molti adulti afflitti da iperfagia condizionata e con oggettivi problemi di salute a riapprendere uno stile alimentare orientato ad un migliore benessere e motivato dalla propria forza di volont�. Paul Bley: alchimista del jazz (di Carlo Boccadoro, �Prometeo� n. 162/23) - Un originale esploratore dei suoni acustici ed elettrici. Ha influenzato decine di musicisti ma il suo nome � ancora nascosto al grande pubblico. Un libro ci aiuta a riscoprirlo. - �Non c'� niente di pi� difficile che spingere una musica ad andare al di l� dei propri limiti. Io lo so, perch� ci ho provato�. Le parole del pianista canadese Paul Bley sono emblematiche della personalit� di questo musicista mercuriale, che durante la sua lunga carriera ha attraversato molti stili diversi, spesso anticipando di decenni tendenze stilistiche che poi sarebbero state assorbite nel linguaggio pi� mainstream da musicisti diventati maggiormente celebri; un esempio per tutti � quello di Keith Jarrett, che da ragazzo ascoltava gli album di Bley sino a saperli a memoria e ha successivamente introiettato lo stile di Bley alla perfezione prima di costruirsi un linguaggio maggiormente autonomo. Adorato nel mondo dei musicisti ma non particolarmente noto al grande pubblico, Bley � un autentico precursore dell'idea di sintesi linguistica che nel panorama contemporaneo ha assunto ormai una rilevanza centrale. La collana �Chorus�, pubblicata dall'editore Quodlibet e curata da Fabio Ferretti, � senza dubbio tra le pi� belle del panorama italiano: interamente dedicata al jazz, dopo averci deliziato con volumi sull'Art Ensemble of Chicago, Louis Armstrong, Miles Davis e Jelly Roll Morton, ora porta in libreria Liberare il tempo, magnifico libro scritto da Bley assieme al contrabbassista e scrittore David Lee. � difficilissimo inquadrare questo musicista in una qualsiasi definizione precisa: chi � Paul Bley? Il pianista che fin da giovanissimo suonava negli anni Cinquanta con Lester Young, Roy Eldrige, Carmen McRae e aveva una band con grandissimi solisti come Jackie McLean, Donald Byrd, Doug Watkins, Art Taylor? Il virtuoso che padroneggiava la sintassi post-bop con tecnica impeccabile e swing magistrale nel suo album d'esordio realizzato assieme a due giganti come Charlie Mingus e Art Blakey? Il distillatore di suoni astratti che militava nel trio angoloso con Jimmy Giuffre e Steve Swallow? L'innovatore di strutture che assieme a Ornette Coleman e Don Cherry scardinava le consuete forme della tradizione jazzistica? L'artista che dipingeva scabri paesaggi sulla tastiera nei dischi memorabili realizzati per l'etichetta ECM, come Open, to love e Ballads? Oppure il musicista, ormai indiscusso padrone di note, spazi e silenzi, che negli anni Novanta inanellava un disco pi� bello dell'altro assieme al contrabbassista Gary Peacock e al batterista Paul Motian? Bley � tutto questo e molto altro. Si � dedicato alla sperimentazione con i sintetizzatori e l'elettronica alla fine degli anni Sessanta, ben prima di tutti gli altri musicisti americani e senza cadere nelle trappole commerciali di troppa fusion da supermercato, si � occupato di multimedialit� lavorando al rapporto tra musica e video con la moglie Carol Goss, � stato un discografico, insieme a figure come Bill Dixon, Archie Shepp e Roswell Rudd, ha lavorato nel Jazz Composers Guild, organizzazione che tentava di difendere gli interessi dei musicisti di avanguardia sperimentale e organizzava concerti di musica completamente fuori dal mercato discografico tradizionale. Sollecitato dalle conversazioni con David Lee, nel libro Bley racconta numerosi aneddoti assai gustosi riferiti al suo primo periodo newyorchese, come quando si trov� a fare da autista a Charlie Parker da casa fino ai luoghi dei concerti per evitare che si perdesse lungo la strada, o quando si trov� con il suo gruppo in un locale malfamato il cui nome, Bucket of blood (secchio di sangue), era tutto un programma: il pubblico alla fine della loro esibizione si mise in cerchio attorno al palco e disse ai musicisti che non sarebbero andati proprio da nessuna parte, dovevano continuare ben oltre il tempo stabilito. �Eravamo una band che sapeva il fatto suo - scrive Bley - e capimmo subito che con un pubblico del genere non c'era altro da fare che riprendere a suonare�. Molto divertente anche l'episodio che riguarda la residenza del trio di Bley al Basin Street East, un club che aveva messo i giovani musicisti a confronto con un colosso del jazz come Louis Armstrong. Il linguaggio musicale del trio non aveva proprio nulla a che fare con quello del popolarissimo trombettista, che ovviamente faceva scintille al botteghino e attirava folle di fan sfegatati; quando Bley chiese al propietario del club come mai avessero scelto proprio lui per suonare assieme ad Armstrong, si sent� rispondere: �Avevamo bisogno di qualcuno che svuotasse il locale tra un set e l'altro�. Al di l� di queste curiose storie, di cui il libro � ricco, il volume � una lettura fondamentale per chi ami il jazz e la musica del Novecento in generale, perch� la figura di Bley (che a distanza di sette anni dalla sua scomparsa continua a essere tanto influente nell'ambiente musicale quanto misconosciuta dal pubblico) si staglia sopra molti dei suoi colleghi per intelligenza, bravura e lucidit� di pensiero. Dotato di una tecnica assai fluente fin dagli esordi, non ha mai usato queste doti in modo circense o superficiale e con l'andar del tempo ha sviluppato un gusto molto personale per i contrappunti interni assieme a una ricchezza armonica che ha pochi paragoni tra i suoi contemporanei. Il suo pianismo si � progressivamente asciugato fino a spingersi sulla soglia del silenzio, con cui Bley ama dialogare attraverso frasi in cui ogni nota ha un carico emotivo particolare e una ricchezza di significato che va completamente oltre ogni definizione stilistica. Un disco come Improvisie, del 1971, presenta molte pi� affinit� con i lavori di Stockhausen e Cage (si ascoltano echi di Mantra e Cartridge Music) che con il jazz tradizionalmente inteso. Le sue improvvisazioni free su strumenti elettrici hanno molte cose in comune con le partiture elettroniche di Morton Subotnick e ascoltando alcuni dischi di solo pianoforte come Play Blue e Solo in Mondsee le figure estremamente chiare disegnate sui tasti da Bley e le armonie continuamente cangianti non si discostano troppo da quelle di un compositore come William Duckworth. Molto probabilmente questi paragoni non sarebbero piaciuti a Bley, che nel libro non risparmia ampie dosi di sarcasmo sul mondo dei �compositori seri�, con i quali sembra avere quasi una questione personale. Li descrive come �davvero tristi�, critica la loro tecnica di elaborazione musicale prolungata nel tempo e dice che un compositore classico altro non � che �un musicista che non sa suonare in tempo reale�. Giudizi cos� approssimativi e inesatti farebbero francamente cadere le braccia se non provenissero da un autore che nella realt� dei fatti ha dimostrato di saper comportarsi musicalmente in maniera tutt'altro che superficiale (a differenza di queste sue affermazioni). Ampio spazio viene giustamente dedicato da Bley alle sue compagne artistiche e di vita: la moglie Carol, una delle figure pi� importanti del jazz moderno come compositrice e bandleader, e Annette Peacock, a sua volta straordinaria vocalist, compositrice e improvvisatrice. Confrontarsi continuamente con artiste dalla personalit� cos� forte ed originale ha certamente contribuito a stimolare la creativit� di Bley, facendogli riconsiderare a ogni passo le proprie scelte estetiche, in un dialogo continuo caratterizzato sempre da un rifiuto di scelte facili e scorciatoie commerciali, sempre all'insegna dell'intensit� assoluta all'interno delle proprie concezioni musicali. Fino agli ultimi anni di vita Bley ha continuato a suonare il pianoforte a livelli altissimi; la sua discografia � ampia ma sempre di qualit�, difficilmente troverete un album di Bley in cui non ci sono momenti interessanti o dove il musicista si abbandoni alla routine; le sue antenne musicali erano sempre sintonizzate su un mondo di costante immaginazione. Come scrive nella nota introduttiva al libro il pianista e compositore jazz Antonio Zambrini (tra i migliori in attivit� oggi in Europa) la figura di Bley �era un faro, una guida dentro e oltre la tradizione del jazz, un modello di rigore estetico�. Addio a Franca Nuti, signora del teatro italiano Il 12 maggio 2024 � morta a Milano a 95 anni la grande attrice Franca Nuti, torinese di nascita ma milanese d'adozione. Nella sua lunga carriera, Nuti - nata nel 1929 - ha ricevuto diversi riconoscimenti prestigiosi come il Premio Ubu 1986 e 1988, il Premio Flaiano per il teatro nel 1990 come migliore interprete e nel 2008 alla carriera, il premio Eleonora Duse 1992. Nata a Torino, si era diplomata nel 1954 all�Accademia dei Filodrammatici di Milano, per poi debuttare con la compagnia Memo Benassi-Lilla Brignone-Gianni Santuccio ne �L�Allodola� di Jean Anouilh, inaugurando un lungo e luminoso percorso artistico, una carriera che l�ha vista lavorare con i pi� grandi nomi del teatro italiano, come Franco Zeffirelli, Sandro Bolchi, Luchino Visconti, Giorgio Albertazzi, Giorgio Strehler, Luca Ronconi. Aveva interpretato pi� di 200 commedie. Oltre che in teatro, aveva lavorato anche al cinema, in tv e alla radio. Era sposata con il notissimo attore Giancarlo Dettori, nato a Cagliari nel 1932 e anch�egli protagonista del teatro, della radio e della televisione italiana.