Marzo 2025 n. 3 Anno X Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi �Regina Margherita� Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero della Cultura. Indice Contro la semplificazione Le prigioniere di Auschwitz che cucivano per le mogli dei nazisti Il cinema di Raffaello Matarazzo, fra neorealismo e melodramma Il canto libero: alle origini del jazz Contro la semplificazione (di Alfonso Maurizio Iacono, �Prometeo� n. 168/24) - Non � un modo per rendere pi� semplici i concetti e la vita. � invece uno strumento per dividere, stigmatizzare, pretendere conformit� e obbedienza. - In un momento come questo, attraversato dai venti di guerra e in cui, di conseguenza, pi� facile � la tentazione di semplificare, non dobbiamo fermarci alla superficie delle cose, ma cercare, nelle trame della stessa superficie, gli spazi di una complessit� che ci restituisca il senso profondo dei valori per i quali vale la pena di vivere e di lottare per la pace. La semplificazione e la teoria dell'amico-nemico Primo Levi scrive: �Tendiamo a semplificare anche la storia, ma non sempre lo schema entro in cui ordiniamo i fatti � individuabile in modo univoco, e pu� dunque accadere che storici diversi comprendano e costruiscano la storia in modi fra loro incompatibili�. Questo vuol dire solo che ogni interpretazione rientra in uno schema e ritaglia un mondo che non � complementare, n� si completa con gli schemi e i mondi delle altre interpretazioni. Da qui il senso del semplificare: �Ci� che comunemente intendiamo per �comprendere� coincide con �semplificare�: senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacit� di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema: a questo scopo tendono i mirabili strumenti che ci siamo costruiti nel corso dell'evoluzione e che sono specifici del genere umano, il linguaggio e il pensiero concettuale. Tuttavia, secondo Primo Levi, in molte interpretazioni, la semplificazione nasconde un potente desiderio di dividere il mondo in noi e loro, di creare un confine netto, secco, un confine che ci orienta e ci rassicura. Dal senso della semplificazione si passa allora alla sua patologia. Infatti, quello che, per certi aspetti, appare liberatorio nelle fiabe, cio� la netta divisione fra buoni e cattivi, noi tendiamo a riprodurlo nella riflessione storica sul passato, cos� come negli eventi contemporanei (per esempio nella descrizione che i mass media danno delle guerre, cio� di eventi in cui la tentazione a semplificare il rapporto antagonistico amico-nemico oppure bene-male � fortissima), ma allora tale divisione cessa di essere liberatoria. La semplificazione, in questi casi, non aiuta la comprensione, semmai la confonde. E la confonde perch� fa prevalere sul bisogno di conoscenza il bisogno di sicurezza. �...� talmente forte in noi, scrive Primo Levi, forse per ragioni che risalgono alle nostre origini di animali sociali, l'esigenza di dividere il campo fra �noi� e �loro�, che questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri�. Eppure non era questo il senso che Aristotele - e dopo di lui Seneca e Tommaso d'Aquino - aveva dato al concetto di animale sociale: non la bipartizione amico-nemico. Aristotele pensava che la costruzione dell'identit� individuale poteva realizzarsi soltanto all'interno di rapporti sociali organizzati quali la polis. E, in epoca moderna, lo stesso Hegel, il quale pure non riconoscer� all'Africa e ai suoi abitanti le caratteristiche dell'umanit� e della storia, concepisce la formazione dell'autocoscienza come un reciproco rapporto fra individui che si conoscono, come l'esperienza di un'interazione dove l'individuo impara a vedersi con gli occhi di un altro. In Marx l'immagine dell'uomo come �animale sociale� � direttamente contrapposta al �singolo e isolato cacciatore e pescatore� con cui Adam Smith fa iniziare la storia dei rapporti economici. Secondo Marx, quella di Adam Smith (e di David Ricardo) non � altro che una �robinsonata�, ovvero una trasfigurazione della storia di Robinson Crusoe (l'immagine dell'uomo isolato) nell'uomo economico primitivo, il quale appare dotato di tutte le caratteristiche dell'individuo borghese moderno, ma in una forma semplificata e impoverita. �Agli occhi dei profeti del XVIII secolo - scrive Marx -, sulle cui spalle poggiano ancora interamente Smith e Ricardo, questo individuo del XVIII secolo - che � il prodotto, da un lato, della dissoluzione delle forme sociali, dall'altro, delle nuove forze produttive sviluppatesi a partire dal XVI secolo - � presente come un ideale la cui esistenza sarebbe appartenuta al passato. Non come un risultato storico, ma come il punto di partenza della storia. Giacch� come individuo conforme a natura, esso non � originato storicamente, ma � posto dalla natura stessa�. Si tratta di un passo ben noto. L'uomo economico primitivo, in quanto immaginato come un individuo isolato, sciolto dai vincoli sociali, non esprime altro che la scena di un mondo dove i rapporti degli uomini con le cose sono prioritari e determinanti rispetto ai rapporti degli uomini con altri uomini. Anzi sono costitutivi della stessa storia umana e dell'umanit� in quanto tale. Da qui la ricerca del profitto per mezzo dello sfruttamento degli uomini e anche attraverso l'uso della guerra. L'isola dove naufrag� Robinson Crusoe era deserta. Fu abitata prima da un uomo solo, poi da due, l'uno schiavo dell'altro. Lo scenario offerto da Daniel Defoe � quello dell'affermazione di un'individualit� che si � formata nel rapporto con le cose come mezzo di dominio sull'altro e che concepisce il rapporto con l'altro, Venerd�, soltanto in termini strumentali e di dominio. Robinson e Venerd� combattono insieme ma solo contro un nemico comune e senza che il loro rapporto di dominio-sottomissione cambi. L'aristotelico uomo come animale sociale e l'hobbesiano Robinson nell'isola giocano un ambiguo rapporto di reciproca contrapposizione: � come se l'uno fosse una sorta di distopia dell'altro. Il ruolo dell'uomo come animale sociale � quello di opporsi alla riduzione dei rapporti umani al dominio sulle cose e sugli uomini: la sua libert� � basata sul riconoscimento della relazione con l'altro. Il ruolo di Robinson � quello di opporsi a ogni vincolo sociale che impedisca il libero estrinsecarsi dell'attivit� strumentale e utilitaria: la sua libert� � basata sulla paura dell'altro e sul dominio. Lo sguardo occidentale ha sempre sofferto di strabismo: l'umanit� dell'altro ora � stata riconosciuta come costitutiva della propria, ora invece � stata riconosciuta soltanto a condizione che l'altro potesse mostrarsi dentro la gabbia percettiva imposta da quello stesso sguardo. In questo secondo caso la semplificazione diventa una trappola che scatta ogni qual volta si parla in nome di concetti come umanit� e come universale. Dietro il riconoscimento dell'altro si nasconde il rifiuto dell'alterit�, ovvero il rifiuto di accettare che l'altro � altro proprio in quanto irriducibilmente diverso. Il riconoscimento di tale irriducibilit� dovrebbe essere il presupposto del riconoscimento dell'eguaglianza. Accade invece l'esatto contrario e cio� che il riconoscimento omologante dell'uguaglianza diventa il colore stinto di un'umanit� che attenua la diversit� e, attenuandola, determina il riconoscimento dell'altro attraverso il potere nascosto di chi ha deciso cosa sia umano. La semplificazione allora opera non per riconoscere, ma per nascondere l'irriducibilit� dell'altro, la sua diversit�. E la trappola consiste nel fatto che essa si naturalizza, si mostra come ovvia e naturale, si presenta come un fatto oggettivo e talvolta scientifico, l� dove � invece un ritaglio del mondo non dichiarato come tale. In cerca di rassicurazioni Spesso la semplificazione risponde molto di pi� a una strategia di rassicurazione che a una strategia della conoscenza. Il sistema comunicativo della Tv pu� aiutarci a comprendere in che senso una strategia della rassicurazione tende a prevalere su una strategia della conoscenza. Noi viviamo in un mondo ansiogeno, e cerchiamo delle rassicurazioni. Nella nostra cultura non � soltanto la religione che attua una strategia della rassicurazione, la attuano anche la scienza e la tecnologia. Ma la rassicurazione non fa altro che confermare sempre il rapporto di potere. D'altra parte, gi� Kant aveva individuato il problema in Che cos'� l'illuminismo?: �� difficile per ogni singolo uomo trarsi fuori da una minorit� per lui diventata quasi natura. Si � persino affezionata ad essa, ed � del tutto incapace di servirsi del suo proprio intelletto, dal momento che non gli � mai stata data la possibilit� di metterlo alla prova... Regolamenti e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale o meglio, di un abuso dei suoi doni di natura, sono i ceppi di una eterna minorit�. Chi anche li rigettasse, farebbe tuttavia solo un salto insicuro, anche sopra il fossato pi� stretto, poich� non � abituato a un simile movimento libero�. Ci si abitua dunque alla condizione di minorit�, che diviene luogo di sicurezza a tutto danno dell'autonomia. La punta estrema di questa situazione � descritta in modo straordinario da Franz Kafka nel suo ultimo, incompiuto racconto La tana. Il protagonista esce dalla tana non per liberarsi da quell'ambiguo luogo che rappresenta nello stesso tempo la sicurezza e la prigionia, ma per poterla rimirare dall'esterno e confermare con l'uscita l'impossibilit� di uscire. Kant parla qui di tutori che favoriscono, per cos� dire, il permanere della condizione di minorit� degli uomini, creando l'abitudine alla minorit� e la paura di una eventuale uscita da essa. Nel lager i prigionieri sono obbligati all'estrema condizione di minorit� e la paura di uscire non � soltanto suscitata dai tutori e dai guardiani, ma anche dagli stessi prigionieri, ovvero da quelli che si identificano con i tutori e con i guardiani. Questa identificazione getta un'ombra sull'illuminismo di Kant, il quale accusava di pigrizia e di vilt� gli uomini fermi nella condizione di minorit� e affidava alla volont� l'uscita. Ma non c'era spazio per la volont� nei popoli dominati dal colonialismo occidentale che in nome del progresso, della libert� e della tolleranza e a caccia del profitto, deportava schiavi, gettando un'ombra inquietante sull'immagine dell'illuminismo. Un'ombra che ammanta anche il pensiero di un illuminista come David Hume, il quale, nel mettere in evidenza la condizione di �rozzezza� della �mente primitiva�, parla di �volgo ignorante�. Questa figura, gi� presente in Pomponazzi, ci dice che la condizione di �rozzezza� della mente non riguarda soltanto i selvaggi contemporanei o gli uomini primitivi, ma anche gran parte degli uomini che appartengono alle societ� progredite, quelle cio� che, come dice Hume, hanno raggiunto un maggior grado di perfezionamento. Quella dei selvaggi e quella dei primitivi sono due immagini che nel XVIII secolo, a partire dal metodo comparativo di Fontenelle e di Lafitau, vanno definitivamente a fondersi. Ma si tratta di una fusione che � tutta a vantaggio dell'immagine coloniale dei primitivi, si tratta cio� di un'assimilazione e, nello stesso tempo, di una proiezione dei selvaggi contemporanei negli uomini dei primi tempi. I selvaggi cessano di essere contemporanei dei civilizzati per diventare contemporanei dei primitivi. La teoria stadiale dei progressi umani tende a creare una scala temporale gerarchica fra diverse culture che permette di far convivere l'assunto dell'eguaglianza della natura umana con la trasformazione delle differenze nelle diseguaglianze storiche. Ma oltre a ci�, dentro tale scala temporale gerarchica si inserisce la differenziazione nel seno delle societ� progredite fra �lites e popolo. Da questo punto di vista la famosa spregiudicatezza intellettuale e filosofica che costituisce il fascino straordinario del pensiero di Hume e che gli fa dire cose del tipo: �Tutti gli uomini si osservano tra loro con sorpresa, e non � possibile ficcare loro in testa che il turbante dell'africano � un'acconciatura non migliore n� peggiore del cappuccio dell'europeo�, convive con una concezione coloniale dei cosiddetti popoli �selvaggi� e �primitivi� e con una visione svalutativa e pessimistica del �volgo ignorante", dotato di una mente rozza, preda del fanatismo, della credulit� e della superstizione. La paura dei fenomeni irregolari della natura come i fulmini, le eclissi e le comete, lo diceva gi� Democrito, e lo ripetettero in epoca moderna molti filosofi illuministi, spingeva gli uomini verso la credenza negli d�i, mentre la meraviglia, passione che d� origine alla filosofia, li portava a porsi le domande sull'universo senza fare ricorso all'intervento di un dio. Ma poi le religioni monoteiste fecero ricorso all'onnipotenza divina. Ma che rapporto c'era tra l'onnipotenza divina e il male? Tra catastrofi naturali e guerre, dov'era finita la bont� divina, visto che, se Dio era onnipotente, aveva evidentemente voluto il male di morti innocenti. Fu la domanda che si pose l'illuminista Voltaire all'indomani del terremoto di Lisbona del 1755, evento che scosse la coscienza filosofica, oltre che di Voltaire, anche di Rousseau e di Kant. Erano compatibili in un Dio onnipotenza e bont�? A quale dei due attributi bisognava rinunciare? Un Dio onnipotente o un Dio buono? Secondo Hans Jonas, dopo Auschwitz, il concetto di onnipotenza di Dio deve essere abbandonato. �Non vi � pi� posto, scrive Jonas, per fedelt� o infedelt�, fede o agnosticismo, colpa e pena, o per termini come testimonianza, prova, e speranza di salvezza e neppure per forza e debolezza, eroismo o vilt�, resistenza o rassegnazione. Di tutto ci� non sapeva nulla Auschwitz che divor� bambini che non possedevano ancora l'uso della parola e ai quali questa opportunit� non fu neppure concessa. Chi vi mor� non fu assassinato per la fede che professava e neppure a causa di essa o di una qualche convinzione personale. Coloro che vi morirono, furono innanzitutto privati della loro umanit� in uno stato di estrema umiliazione e indigenza; nessun barlume di dignit� umana fu lasciato a chi era destinato alla soluzione finale - nulla di tutto ci� era riconoscibile negli scheletrici fantasmi sopravvissuti nei Lager liberati�. Quanti bambini innocenti sono stati uccisi finora in Ucraina e in Palestina? Questa immane tragedia ha delle conseguenze sull'immagine di Dio. Dopo Auschwitz, Dio non pu� essere ugualmente comprensibile, buono, onnipotente. Ed � l'onnipotenza, secondo Jonas, che dall'immagine di Dio scompare: �Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinit� onnipotente o � priva di bont� o � totalmente incomprensibile (nel governo del mondo in cui noi unicamente siamo in condizione di comprenderla). Ma se Dio pu� essere compreso solo in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bont� (cui non possiamo rinunciare) non deve escludere l'esistenza del male; e il male c'� solo in quanto Dio non � onnipotente�. Di fronte ad Auschwitz Dio rest� muto: �non intervenne, non perch� non lo volle, ma perch� non fu in condizione di farlo�. Ma non � solo il Dio degli ebrei a perdere l'onnipotenza. Anche il Dio dei cristiani non ha mantenuto le sue promesse. Sergio Quinzio ha parlato di �sconfitta di Dio�. La tesi di Quinzio � che la storia biblica � una storia di fallimenti e che la stessa incarnazione rappresenta per il Dio cristiano una perdita della sua deit�, un suo �abbassamento�. Il farsi uomo di Dio � un rischio. Se il Dio dei cristiani volle farsi uomo, fu perch� decise di mettere a rischio la sua stessa deit�, che ora poteva essere perduta. �Quella di Dio non � una scelta fatta in base alla previsione dei suoi effetti, perch� allora ogni conseguenza, ogni esito sarebbe voluto, sarebbe dunque un'affermazione della sua volont�, di se stesso, di ci� che � nei confronti di ci� che non �, della forza nei confronti della debolezza; � invece uno scegliere senza prefigurarsi le conseguenze della scelta, � la libera assunzione di un rischio totale�. Ma un dio buono e non onnipotente, un dio che rischia per amore, non � forse quel dio che, come gi� indicava il cabalista ebreo Isacco Luria, lascia liberamente spazio agli uomini perch� essi possano tentare di uscire dallo stato di minorit�? Siamo tutti costretti a scegliere tra la rassicurazione che promana dall'autorit�, ma che toglie libert�, e l'autonomia, che non pu� essere ottenuta da chi non osa uscire dal girello di bambini di cui parlava Kant. Tra sicurezza e libert� vi �, inevitabilmente, tensione. Certo, tutti abbiamo bisogno di rassicurazioni, ma quando il potere si trasforma in dominio, allora la sicurezza finisce con il prendere il posto della libert� e dell'autonomia, ed � questa indebita sostituzione a tenerci chiusi nella caverna della minorit�. La scelta fra l'onnipotenza e la bont� di Dio comporta una scelta su dove questo Dio debba stare: sopra di noi, distante e onnipotente, o accanto a noi, vicino e buono. Autorit� contro autonomia. Ad ogni modo si tratta di una scelta che sono gli uomini a dover fare, non il loro Dio, qualunque significato si voglia attribuire a questa parola. Pu� darsi che, ancora una volta, il bisogno di un Dio, terreno o celeste, materiale o spirituale, che pensa e decide per te si riveli alla fine pi� forte del bisogno di un Dio che pensa e decide con te. Tutte le volte che ci� accade, tuttavia, ci si trova davanti a una sconfitta non soltanto di Dio, ma anche e soprattutto degli uomini. Dialogo, democrazia e voci dal di fuori �In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et deus erat Verbum� (Giovanni, 1, 1). �In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era Verbo�. Verbo traduce Logos. Ma cos'� il logos? Logos viene da legein, legare, collegare. Ha dunque a che fare con l'idea di relazione. Da Logos deriva Dialogo (Dia-Logos), discorso fra, dunque relazione. Nel dialogo, nella relazione il legame si crea tra chi parla e chi ascolta, tra chi parla e chi dunque sta in silenzio. Nel dialogo non vi � un comando del sovrano che d� ordini e dispone, bens� un alternarsi di silenzio e di parola fra due o pi� persone. Se un Dio si contrae, cio� si ritrae, lascia spazio all'altro e tace perch� quest'altro parli e dunque abbia autonomia e responsabilit� di ci� che dice e fa. Il Logos � presso (o accanto e davanti a) Dio, il Logos � Dio. Se il Logos implica un dia-logos questo � un Dio che entra in relazione, che tace per fare parlare qualcuno che, pur essendo dentro, � al di fuori della sua deit�. Ma se il Logos � accanto a Dio, ci� significa che ha avuto lo spazio di essere grazie al ritrarsi di Dio. Qui vi � un nesso tra parola, silenzio, relazione, vita. Ma vi � anche il nesso contrario tra invettiva, rumore, isolamento, morte. Tutto dipende dalla responsabilit� degli uomini che, quando agiscono, sanno fare a meno di Dio o gli chiedono di stare loro accanto senza intervenire oppure se ne fanno scudo per fare il male in nome del bene. Secondo Eraclito (DK B 50), il Logos implica che il tutto � in uno. Ma se, come egli afferma, bisogna dare ascolto al Logos, ci� significa che per ascoltare bisogna tacere. Il silenzio si accompagna sempre alla parola in un dialogo fra individui, persone, soggetti, cio� in una relazione di reciprocit� che � il contrario di un dire senza ascoltare l'altro. Ritrarsi vuol dire considerare l'altro non come un oggetto da comandare e neanche come un essere da tollerare, ma come una persona la cui parola costituisce un arricchimento grazie alla sua diversit� e alla sua alterit�. Silenzio significa proprio la parola dell'altro, il cui silenzio, a sua volta, � la parola dell'uno. Al di l� di ogni vincolo istituzionale, qui sta l'essenza, a mio parere, di una democrazia assai diversa, anzi opposta a quelle che condannarono Socrate e Cristo e che invece sembrano oggi ritornate ad opprimere, distruggere, uccidere in parte con la rumorosa aggressivit� delle armi e in parte con la sorda indifferenza verso le oppressioni, le distruzioni, le uccisioni. Nei lager non c'erano vie d'uscita e nessuno, dal di fuori, chiamava coloro che stavano dentro. Come ha notato Bruno Bettelheim, il problema cruciale sollevato dal libro di Hannah Arendt, La banalit� del male, consiste nel fatto che, in uno stato totalitario, �non ci sono voci che dal di fuori possano risvegliare la nostra coscienza�. � dentro il quadro concettuale offerto dalla modernit� che il pensiero contemporaneo, all'indomani della fine della seconda guerra mondiale, si � dovuto porre, con ancora maggiore inquietudine, la domanda: come gli uomini sopportano la storia? Una domanda che si sta affacciando di nuovo nel bel mezzo delle guerre che oggi ci stanno attraversando. Dobbiamo tenere nella memoria il seguente insegnamento: lottare affinch� ogni popolo, in qualunque sistema politico, abbia sempre la possibilit� di ascoltare voci dal di fuori, poich� � questa possibilit� che pu� impedire la perdita della speranza di essere liberi. Le prigioniere di Auschwitz che cucivano per le mogli dei nazisti (Ilpost.it) - Un gruppo di donne con esperienze di alta sartoria si salv� lavorando in un laboratorio voluto da Hedwig H�ss, moglie del comandante del campo. - Nel 2017 la scrittrice inglese Lucy Adlington, storica della moda e autrice di libri per adolescenti, pubblic� un romanzo intitolato Il nastro rosso ambientato in una sartoria nel campo di sterminio nazista di Auschwitz, in Polonia, che fu liberato dai soldati dell�Armata Rossa sovietica il 27 gennaio del 1945. Il romanzo era liberamente tratto da una storia vera, come si dice: Adlington l�aveva appresa anni prima consultando alcuni documenti che citavano un�attivit� di alta sartoria nel campo. Era riuscita a raccogliere solo poche informazioni e un elenco di nomi, ma nessuna testimonianza diretta, e aveva quindi interrotto le sue ricerche. Dopo l�uscita del libro, che ebbe molto successo, Adlington ricevette diverse email che contenevano pi� o meno gli stessi messaggi: �Mia zia era sarta ad Auschwitz�, �Mia madre era sarta ad Auschwitz�, �Mia nonna dirigeva la sartoria per signora di Auschwitz�. Riusc� per la prima volta a mettersi in contatto con le famiglie di quelle prigioniere di cui conosceva soltanto i nomi e nessun cognome, e a incontrare nel 2019 a San Francisco l�ultima sopravvissuta di quel gruppo: la slovacca Berta Koh�t. Nelle fasi pi� acute dello sterminio ad Auschwitz Koh�t fu selezionata insieme a sua sorella Katka e ad altre ventitr� giovani prigioniere, quasi tutte ebree slovacche, per disegnare, tagliare e cucire abiti destinati alle mogli dei comandanti del campo e ad altre donne dell��lite nazista di Berlino. Alcune internate avevano infatti lavorato come cucitrici in rinomati atelier a Praga, Bratislava e altre citt� dell�Europa orientale, prima dell�inizio della guerra. Le loro abilit� e la loro manodopera furono sfruttate nel �Laboratorio di alta sartoria� (Obere N�hstube), un atelier ideato e aperto nel seminterrato degli uffici amministrativi delle SS da Hedwig H�ss, moglie dell�ufficiale nazista e comandante del campo Rudolf H�ss. La storia di Berta Koh�t e delle prigioniere che si salvarono dallo sterminio lavorando nel laboratorio di sartoria � raccontata nel libro di Adlington Le sarte di Auschwitz, uscito nel 2021 e tradotto in ventidue lingue (in italiano da Chicca Galli, per Rizzoli). Koh�t aveva 21 anni nel 1942, quando fu deportata nel campo insieme a sua sorella e a un migliaio di altre ragazze pi� o meno della stessa et�. Appena arrivate, come ogni altro prigioniero, furono private di tutti i loro indumenti e destinate a lavori diversi. Per quanto la moda sembrasse distante dalla politica e apparisse una stridente frivolezza rispetto alla violenza della guerra, scrive Adlington, i nazisti erano �perfettamente consapevoli della capacit� dell�abbigliamento di plasmare l�identit� sociale ed enfatizzare il potere�. Inoltre, gi� prima dell�inizio della guerra, alcune loro politiche economiche e razziali si erano concentrate sulla ricchezza dell�industria tessile europea, all�epoca dominata dal capitale e dal talento di diverse famiglie ebree. I guadagni estorti a quelle aziende e imprese, come successo anche in altri settori, avevano contribuito al finanziamento delle operazioni militari. Il fascino degli uomini nazisti per l�abbigliamento e per il potere che poteva esprimere si era concretizzato perlopi� nel culto delle uniformi, considerate un simbolo perfetto dell�orgoglio e dell�identit� di gruppo. Ma anche le donne dell��lite nazista berlinese, soprattutto le facoltose mogli dei gerarchi, attribuivano grande valore agli abiti. Magda Goebbels, moglie dell�influente ministro della propaganda del Reich Joseph Goebbels, era nota per la sua eleganza, e non si faceva problemi a indossare abiti di sartoria creati da famiglie ebree. Emmy G�ring, moglie del comandante dell�aviazione Hermann G�ring, indossava anche abiti confiscati, sostenendo di non sapere da dove provenissero, scrive Adlington. Ed Eva Braun, amante di Adolf Hitler, era un�altra appassionata di alta moda: negli ultimi giorni prima della resa tedesca, mentre Berlino era assediata, si adoper� per ricevere comunque l�abito con cui avrebbe sposato Hitler nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1945, poche ore prima che si suicidassero entrambi. L�idea di aprire un laboratorio di sartoria fu della moglie del comandante del campo, Hedwig H�ss, che tra il 1941 e il 1944 abit� con la sua famiglia ad Auschwitz nella casa in cui � ambientato il film del 2023 La zona d�interesse. H�ss era tra le principali clienti del laboratorio, e le prigioniere selezionate per gestirlo avevano in gran parte lavorato come sarte, stiliste e cucitrici prima della guerra. Realizzarono vestiti da tutti i giorni ma anche eleganti abiti da sera �che le signore delle SS non avrebbero potuto immaginare nemmeno nei loro sogni�, raccont� poi Hunya Volkmann, una delle sarte dell�atelier. A dirigere il laboratorio era Marta Fuchs, ex proprietaria di un salone a Praga, citt� nota all�epoca nell�industria della moda per la presenza di molti atelier indipendenti come quello di Fuchs. Il pi� importante, la maison de haute couture della stilista Hana Podolsk�, aveva vestito diverse attrici del cinema. Fuchs era molto abile soprattutto nel taglio, ma nel laboratorio di Auschwitz insieme a lei c�erano anche cucitrici esperte. Due di loro erano ragazze francesi deportate per atti di resistenza: una era stata arrestata perch� contrabbandava opuscoli antinazisti nascondendoli nei corsetti che realizzava. Il laboratorio aveva a disposizione un raccoglitore con disegni preselezionati ma anche molte riviste di alta moda, da cui le clienti selezionavano i capi che volevano che le sarte riproducessero. Alcune, tra cui Volkmann, erano capaci di ricreare un abito semplicemente osservandolo in foto. I risultati erano cos� apprezzati che a un certo punto il tempo di attesa per avere gli abiti della sartoria di Auschwitz arrivava a sei mesi. Era tutto alquanto surreale e contraddittorio, disse Adlington a El Pa�s nel 2022. Quando gli abiti erano pronti, i nazisti volevano che le stesse persone che li avevano confezionati nemmeno li toccassero, considerandole esseri inferiori come ogni altro prigioniero. Le sarte vivevano e lavoravano tutto il tempo in quel seminterrato, senza vedere la luce del sole per giorni, ma in una condizione invidiabile rispetto alle altre prigioniere nel campo. Creare abiti permetteva loro di evitare lavori pi� duri, di dormire in un posto con meno pidocchi e cimici rispetto ad altri, e di sfruttare un talento che avevano in cambio di una zuppa di rape o una crosta di pane con un pezzo di salsiccia. �Erano schiave, ma erano le prigioniere pi� privilegiate. Quella minoranza aveva l�opportunit� di essere umana�, disse Adlington. Nel laboratorio non lavorarono soltanto donne con esperienza di sartoria. Le prime prigioniere selezionate da H�ss e incaricate di reclutarne altre in grado di fare quel lavoro sfruttarono la loro posizione per salvare compagne e parenti nel campo. Fuchs coinvolse sua nipote, che aveva scarse competenze di cucito e diede quindi aiuto con altri lavori. Fece chiamare anche una sua parente acquisita, Irene Reichenberg, che faceva la sarta prima della deportazione: era stravolta dalla morte di tre sue sorelle nel campo, quando la convocarono negli uffici amministrativi. Dopo qualche settimana, dato che gli ordini erano troppi e le sarte poche, Reichenberg disse a Fuchs di far chiamare una sua amica sarta �bravissima�: era Berta Koh�t. �Su diecimila donne ad Auschwitz-Birkenau ce n�erano almeno cinquecento brave a cucire, ma per avere fortuna dovevano avere dei buoni contatti�, raccont� poi Koh�t ad Adlington. Anche lei, una volta arrivata nel laboratorio, chiese a sua volta di reclutare sua sorella Katka, che nel laboratorio si specializz� in cappotti e tailleur. Katka era anche una delle addette a smistare per tipo e qualit� le nuove pile di indumenti che i nazisti sequestravano ai prigionieri al loro arrivo. I vestiti gi� adatti a essere indossati, come pellicce e camicie da uomo di prima qualit�, venivano disinfettati e caricati su treni merci diretti in Germania. Tutti gli altri, inclusi gli stracci ridotti in brandelli, finivano nel laboratorio come scorta di tessuti. Il laboratorio si serviva anche di tessuti reperiti tramite fornitori esterni, che le sarte utilizzarono quando possibile anche come intermediari per fare arrivare al resto dei prigionieri di Auschwitz informazioni sull�evoluzione della guerra e messaggi di altro tipo. Quando fu ordinata l�evacuazione del campo, giorni prima dell�arrivo dei soldati sovietici il 27 gennaio, le sarte raccolsero per loro e per gli altri prigionieri quanti pi� indumenti poterono dal laboratorio prima di marciare attraverso la Polonia occupata. La maggior parte di loro riusc� a salvarsi e a rifarsi una vita. Alcune rimasero in contatto, molte sposarono altri sopravvissuti. Una di loro, Ilona Hochfelder, si trasfer� a Leeds, in Inghilterra, dove apr� un rinomato atelier di abiti da sposa. Ebbero quasi tutte difficolt� a parlare della loro storia ai figli, scrive Adlington. Cominciarono invece a raccontarla ai nipoti, pi� curiosi e meno spaventati. Berta Koh�t spos� uno scrittore a cui era morta la moglie in un campo di sterminio. Vissero per un po� a Bratislava ed ebbero due figli, che diventati grandi si trasferirono in California. I genitori li raggiunsero l� nel 1968, dopo l�invasione sovietica della Cecoslovacchia. Ultima sopravvissuta nota di quel gruppo di sarte, Koh�t mor� in California nel 2021, a 99 anni, dopo aver contratto il Covid. Ad Auschwitz trascorse in tutto mille giorni. �Ogni giorno sarei potuta morire mille volte�, disse ad Adlington. Il cinema di Raffaello Matarazzo, fra neorealismo e melodramma (di Paco Reale, Antoniogenna.com) - A 58 anni dalla morte, vale la pena ricordare una figura della cinematografia italiana, da molti apprezzata ma anche spesso stroncata. - Nel maggio del 1966 moriva a Roma il regista e sceneggiatore Raffaello Matarazzo, appassionato di cinema, precursore a suo modo del neorealismo e allo stesso tempo suo oppositore, ma soprattutto colui che diede dignit�, bench� stroncata dalla critica, al melodramma e al racconto popolare. Matarazzo nasce a Roma nel 1909 da una famiglia di origini napoletane. Rimane orfano molto presto e per completare gli studi liceali lavora come fattorino postale. Il suo forte interessamento per il cinema comincia in questi anni: collabora con il quotidiano fascista �Il Tevere� dove si occupa della pagina cinematografica e nel 1930 fonda, insieme al regista Alessandro Blasetti e ad altri intellettuali il Gruppo centrale di cultura cinematografica, che d� vita al primo Cineclub italiano, dove vengono proiettati in versione originale, tollerati dalla censura, alcuni film stranieri proibiti dal regime. Scrive un romanzo d�appendice e comincia a muovere i primi passi come regista realizzando alcuni documentari che celebrano il regime. Opere da cui in seguito si dissocer�, spiegando di non aver potuto rifiutare di girarle, sebbene di sentimenti antifascisti. Nel 1933 � la volta del suo primo film, �Treno popolare�, che segna l�esordio del compositore Nino Rota e in cui viene tratteggiata con un certo realismo una societ� dove assumono sempre pi� centralit� i momenti di evasione e divertimento. La pellicola non riesce a conquistare il pubblico e anche a distanza di anni Matarazzo ricorda: �Era la prima volta che la gente vedeva una cosa del genere; hanno gridato e fischiato come non s�era mai visto fischiare un film; erano rossi a forza di fischiare. Quel film era quello che pi� tardi venne chiamato neorealismo. Fu una serata molto triste per me�. L�insuccesso comunque non ne ferma l�attivit�, anche se i successivi film sono di stampo pi� tradizionale e vicino ai gusti del pubblico. Lavora per il teatro ma non dimentica il cinema dove collabora con i fratelli De Filippo. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale sembra non influire sul lavoro, ma poi si trasferisce in Spagna dove continua a girare altri film. Torna in Italia a conflitto finito e trova un Paese completamente cambiato. Bisogna aspettare il 1947 per ritrovarlo dietro la macchina da presa per due opere a cui collaborano come sceneggiatori Fellini e Monicelli per la prima e Steno per la seconda. Nel 1949 avviene la svolta dalla commedia al melodramma con il film �Paolo e Francesca� e forse per questo viene chiamato dalla Titanus per dirigere �Catene�. Il film viene considerato dalla stessa casa di produzione di serie B e invece si rivela uno straordinario successo commerciale, con un incasso di circa 735 milioni di lire. Questo inatteso successo, che piazza il film ai primissimi posti delle pellicole italiane di quell�anno, inaugura un filone con la coppia Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson quali principali interpreti, che per tutta la prima met� degli anni cinquanta ottiene un�enorme popolarit� di pubblico e sprezzanti stroncature della critica. Le storie strappalacrime e gli amori tormentati sono sempre piaciuti al regista, avido lettore di feuilleton di Carolina Invernizio, Eugene Sue e Victor Hugo. Sono anche gli anni del fotoromanzo con le loro incredibili avventure, gli equivoci, le traversie, i dolori e l�immancabile redenzione finale. La Titanus ovviamente intende sfruttare un successo tanto clamoroso e produce con gli stessi attori �I figli di nessuno� e �Tormento�, entrambi acclamati dal pubblico. Balzano rispettivamente al primo e al secondo posto della classifica del 1951, con un incasso complessivo di un miliardo e settecento milioni. Matarazzo viene indicato come il fondatore di un genere che sar� molto imitato e se il successivo �Il tenente Giorgio� con Massimo Girotti non riesce ad andare bene, �Giuseppe Verdi� e �Chi � senza peccato�, dove si riforma la coppia Nazzari-Sanson, diventano campioni di incassi. Il 1954 � molto intenso per il regista che gira �Vortice� e �Torna!�, sempre con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson, e �La nave delle donne maledette�. � un anno particolarmente importante per il cinema italiano che vede uscire nelle sale titoli come �Senso� di Visconti, �La Romana� di Zampa, �La spiaggia� di Lattuada e �La strada� di Fellini che vincer� anche l�Oscar. �L�angelo bianco� del 1955 � il seguito de �I figli di nessuno� che ricompone per l�ennesima volta la stessa coppia di protagonisti. In �Guai ai vinti!�, con Lea Padovani e Pierre Cressoy, che era stato il suo Giuseppe Verdi, il dramma non � causato solo da vicende familiari ma anche dalle violenze della guerra. Entrambi i film, pur ottenendo un buon riscontro, non raggiungono le vette delle classifiche. Il successivo �La risaia� con Elsa Martinelli viene visto da molti come una copiatura di �Riso amaro�. Sul finire degli anni Cinquanta la societ� sta cambiando e il mel� entra in crisi, non incontrando pi� i gusti del pubblico. Una crisi che era gi� nell�aria con il successo di quello che viene indicato come neorealismo rosa, con le commedie �Due soldi di speranza� e soprattutto �Pane, amore e fantasia�. Gli italiani sembrano ormai pi� affascinati dalla spigliatezza della Lollobrigida che dalle lacrime della Sanson. Nel 1957 esce �L�ultima violenza�, nel 1958 �Malinconico autunno�, in cui Matarazzo dirige per l�ultima volta Nazzari e Sanson. Per lui comincia una parabola professionale in discesa e nel giro di poco le sue opere scompaiono. Nel 1959 dirige un precursore dei �musicarelli�, �Cerasella�, una commedia con canzonette napoletane, con un giovane Mario Girotti (il futuro Terence Hill) e una debuttante Claudia Mori. Il film si rivela un insuccesso e andranno altrettanto male �Adultero lui, adultera lei� con Gino Bramieri e �I terribili 7�. Le case di produzione non considerano pi� redditizi i suoi lavori e li distribuiscono in poche sale. Nel 1964 decide di produrre da solo quello che sar� il suo ultimo film, �Amore mio�, ma anche stavolta la pessima distribuzione - non sar� nemmeno proiettato a Roma - ne decreta il flop. Matarazzo sopravvive due anni a questa battuta d�arresto. Nel 1966 muore di infarto per il terrore di essere malato, da cui viene colpito durante una serie di esami in ospedale. Timido, riservato, superstizioso, il regista scompare in modo quasi del tutto inosservato, dimenticato da un cinema di cui aveva colto e rappresentato abilmente un genere di successo ma dal quale aveva finito per essere inghiottito. Se la prima parte della sua carriera non ha ottenuto attenzioni negative da parte della stampa, la svolta melodrammatica � stata snobbata o stroncata. Secondo alcuni critici nel dopoguerra il neorealismo era visto come unica possibilit� di rinnovamento del cinema italiano, mentre i film popolari erano considerati un�eredit� del cinema fascista, da condannare e la miglior condanna era non occuparsene. Quello di Matarazzo � stato un autentico caso ascrivibile all�ostilit� dell�intellettuale del tempo verso ci� che incontra il riscontro popolare. Al creatore della coppia Nazzari-Sanson non viene perdonato di aver commosso gli spettatori con fatti vicini alla sensibilit� italiana. I suoi film vengono definiti �nocivi� come i danni provocati dal fumo e si considera �triste e grave� che abbiano tanta popolarit� tra il pubblico. Un giudizio negativo che continuer� anche negli anni successivi alla sua morte se nel 1967 si sostiene che i film mel� rappresentano il punto di vista di determinate fasce piccolo-medio borghesi, il difetto strapaesano e propongono un concetto deteriore della famiglia, chiusa al resto del mondo e zavorrata da forme arcaiche dell�onore, del peccato, della preghiera. Le cose cominciano a cambiare verso la met� degli anni �70, quando le valutazioni diventano pi� attente e accurate. Al regista viene riconosciuto che anzich� ricalcare gli schemi del cinema neorealistico, come fecero altri suoi colleghi, ha proseguito sulla strada del dramma a forti tinte, stabilendo un contatto estremamente proficuo con quel pubblico piccolo borghese e proletario che in quegli anni disertava i film neorealisti, proponendo un cinema dichiaratamente popolare, senza preoccupazioni colte, intellettuali, politiche. La critica dell�epoca attribuiva all�autore neorealista l�aureola del mandato pedagogico sociale, al di fuori del quale trovavano spazio solo basse speculazioni commerciali. Matarazzo ha realizzato un�opera di penetrazione senza precedenti nel gradimento del pubblico, solo caso di sistema melodrammatico originale alternativo a quello hollywoodiano. Film che, ad una pi� attenta lettura, offrono non pochi elementi di studio della societ� italiana del dopoguerra. Il canto libero: alle origini del jazz (di Magda Gattone, �Focus Storia� n. 216/24) - Il jazz � stato la colonna sonora di pi� generazioni, capace di influenzare l�arte e la societ�. Le sue origini? Tra l�Africa e l�America. - Quando nel 1619 i colonizzatori europei, dopo aver conquistato il Nuovo Mondo e decimato la popolazione locale, sequestrarono gli africani dell'Angola per imbarcarli verso l'America (destinazione Jamestown, allora capitale della Virginia), agli schiavi neri non fu concesso di portare con s� alcunch�. L�unico bagaglio che li accompagn� nel lungo, terribile viaggio era leggero come una piuma e invisibile: la loro eredit� musicale. In Africa ogni aspetto della vita sociale e comunitaria era accompagnato da musiche, canti e danze collettive. E fu con questo unico patrimonio che milioni di sventurati affrontarono l'oceano diretti verso un inferno dai contorni inimmaginabili. Non potevano sapere che cosa li aspettava, e neppure che quel loro bagaglio fatto di niente avrebbe innescato una rivoluzione musicale e sociale nel Nuovo Mondo prima, in Europa poi. Gli schiavi trovarono nelle slaves songs l'unica forma di conforto possibile alle loro giornate sfiancanti e interminabili. �Nei campi di cotone degli Stati del Sud si cantavano in gruppo le work songs, con la tecnica del call and response, fra solista e coro; mentre in lontananza il field holler (un canto di lavoro per voce sola, ndr) intonava in solitudine un lamento o una comunicazione che poi veniva ripresa e rilanciata a distanza dagli altri cantori�, racconta Luigi Onori, coautore insieme a Riccardo Brazzale e Maurizio Franco del libro La storia del jazz (Hoepli). Inizialmente i padroni non opposero resistenza perch� le canzoni non compromettevano il rendimento delle piantagioni; anzi, avevano una funzione stimolante, il ritmo dava vivacit� al lavoro e ne scandiva il tempo. Successivamente iniziarono a cambiare idea. �I puritani anglosassoni ritenevano la musica e la danza manifestazioni peccaminose, dannose per il lavoro, la rispettabilit� e la morale�, hanno scritto i due critici musicali Philippe Carles e Jean-Louis Comolli nel classico Free Jazz. Black Power (Einaudi). Ma soprattutto, temevano che gli africani veicolassero, attraverso i tamburi fatti di tronchi cavi, messaggi di rivolta. Per questo motivo ne venne proibito l'utilizzo o furono rimpiazzati da altri strumenti che non si prestavano alla trasmissione di messaggi. Sulla libert� di espressione, nelle colonie americane vigevano restrizioni che di fatto impedivano agli schiavi di cantare in pubblico. Soltanto la Chiesa offr� loro un luogo di aggregazione appartato dove potersi esprimere, cantando. �Privati dei loro costumi tribali e dei loro d�i ancestrali, gli schiavi si mostrarono rapidamente ben disposti ad adottare la religione dei loro padroni�, spiega il saggio di Carles e Comolli. Fu proprio in questo contesto che nacquero gli spirituals. Erano canti collettivi e inni religiosi, ma anche canti di protesta, poich� testimoniavano la violenza a cui i neri venivano sottoposti quotidianamente. Avevano senz'altro un potere catartico, ma divennero anche un codice per comunicare all'insaputa dei loro padroni; come ricorder� molti anni dopo Martin Luther King, leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani: �I nostri negro-spirituals erano sovente dei codici cifrati. Cantavamo il cielo che ci attendeva e i nostri padroni ci ascoltavano ignari, senza dubitare che non ci riferissimo all'aldil�. Il blues, l'altra forma di musica tra le pi� importanti precorritrici del jazz, nacque dopo il 1880, negli anni di passaggio verso il XX secolo. �I bluesmen comparvero negli Stati meridionali degli Usa e in ambito rurale�, scrive Onori. �Qui trovarono posto musicisti nomadi che si esibivano accompagnati da strumenti a corda: crearono una musica nuova su radici antiche�. Tramite le loro canzoni veniva illustrata la vita dello schiavo con le sue disgrazie e i suoi problemi. �Sebbene il blues non incoraggiasse in maniera esplicita i neri a rivoltarsi�, spiegano Carles e Comolli, �esso denunciava fin nei minimi dettagli una situazione letteralmente rivoltante�. Ancora una volta, quelle semplici rievocazioni dei torti subiti divennero, con il passare del tempo, espressioni di un desiderio di rivolta, gi� riconoscibile nei canti religiosi. Con la Guerra civile, combattuta tra il 1861 e il 1865, gli afroamericani ottennero la prima, fondamentale, forma di emancipazione: la liberazione dalla schiavit�. Finalmente liberi di muoversi, iniziarono a percorrere gli Stati Uniti alla ricerca di lavoro. �Negli anni Dieci e Venti del Novecento tale migrazione interna vide spostarsi circa mezzo milione di neri�, spiega Onori. La condizione sociale in cui versavano, per�, non sembrava particolarmente migliorata: ai lavori forzati e alla prigionia nelle piantagioni si sostituivano il durissimo lavoro in fabbrica, la segregazione e la vita del ghetto. E l'unica consolazione, ancora una volta, restava la musica. Cos� quando, alla fine del XIX secolo, migliaia di neri abbandonarono le piantagioni del Sud per le citt� industriali nel Nord, portarono con s�, come ricordi di famiglia, le parole dei blues di campagna. Queste canzoni erano testimonianze di una vita scandita da oppressione e asservimento: descrivevano in musica lo stato di salariati, il padronato capitalista, il lavoro a catena, gli affitti proibitivi e le catapecchie affollate. Una malasorte comune a molti. Molti pensano che il jazz sia nato a New Orleans (Louisiana), ma le orchestre nere che si esibivano l� nel 1917, si sarebbero potute ascoltare gi� nel 1905 a Memphis, Tennessee. �Si pu� affermare che se le work songs, gli spirituals e il blues del periodo precedente al jazz erano apparsi in tutti gli Stati del Sud�, spiegano Carles e Comolli, �la culla del jazz, punto di convergenza di queste diverse forme vocali nere, � stata pi� genericamente la parte pi� meridionale�. Cos� nel 1917, mentre le truppe americane entravano in guerra in Europa, i musicisti bianchi della Original Dixieland Jazz Band, provenienti da New Orleans, registrarono il primo disco della storia del jazz: Livery Stable Blues. Lo stile New Orleans fu la prima tappa del sincretismo tra le note bianche occidentali e quelle nere. Non a caso, la citt� era un crocevia di popolazioni, di etnie e di estrazioni sociali diverse. Nonostante questa apparente modernizzazione, il jazz rimase per lungo tempo legato a ritrovi malfamati, rimanendo relegato a una condizione di subalternit� come per i suoi antenati canori. Fu solo con la fine della Prima guerra mondiale che l'America bianca inizi� realmente ad aprirsi al jazz. Gli Stati Uniti scoprirono che la musica degli afroamericani, che avevano fino ad allora un po' disprezzata, poteva diventare un incredibile strumento di seduzione del modello americano. Si dovranno attendere molti anni prima che i brani jazz, in particolare quello eseguito da musicisti afroamericani, si diffondano in Europa. Ma a partire dagli Anni '20, venne definitivamente lanciato come prodotto di consumo di massa, perdendo quella caratterizzazione sociale e storica che lo caratterizzava ai suoi inizi. Negli anni in cui Hitler si impadroniva della Germania, in America iniziava l'era dello swing. Gli Usa stavano combattendo la depressione economica nata dalla crisi di Wall Street del 1929, che colpiva sia bianchi sia neri (anche se pi� i secondi). Il nuovo imperativo della musica divenne scacciare la tristezza. La gente voleva ballare e dimenticarsi i momenti pi� duri e i musicisti neri, che avevano bisogno di lavorare, risposero all'aspettativa. �Ora, il jazz era la musica di tutti� scrive Onori. Ma lo swing degli Anni '30 veniva percepito dai musicisti neri come estraneo. Gli arrangiamenti imposti dalle big band e l'impossibilit� di abbandonarsi a improvvisazioni canore e sonore portarono i jazzisti a virare verso forme diverse. Alcuni riuscirono a farsi assumere da direttori d'orchestra all'avanguardia e ricominci� la sperimentazione. Erano gli Anni '40 e nasceva il be-bop (o bop): i jazzisti afroamericani ritrovarono la loro musica e liberarono la loro arte dalle convenzioni imposte dall'industria discografica. Gli inventori del be-bop erano pronti a dare deliberatamente scandalo per il loro modo di esprimersi e per il loro atteggiamento sprezzante nei confronti della societ� borghese. �I boppers vogliono essere e apparire diversi e, a modo loro, oppositori della societ� che li ha formati�, scrive Onori. Il loro intento era quello di �disoccidentalizzare� il jazz, ormai prodotto di massa. Anche questo genere divenne di tendenza, subito adottato da molti musicisti bianchi. Il bop riprendeva le tematiche tipiche del blues, rivitalizzando l'improvvisazione e riportando il jazz pi� vicino alle sue radici socio-culturali. La costante volont� di richiamare le proprie origini e l'Africa fu talmente forte che si svilupp� lo stile hard bop, negli stessi anni in cui si diffondeva lo slogan Black is Beautiful: una nuova corrente che si aggiunse alle altre, che continuavano a prosperare. Durante la Guerra fredda, la diffusione del jazz come musica universale entr� in rotta di collisione con il razzismo mai sopito. L�episodio simbolico di questa �resistenza� accadde il primo dicembre del 1955 quando Rosa Parks, afroamericana di Montgomery, si rifiut� di cedere il suo posto a sedere su un autobus a un bianco violando le leggi sulla segregazione razziale. Dall'episodio part� un boicottaggio degli autobus di Montgomery, che si protrasse per 381 giorni, fino a quando non venne abolita la legge che legalizzava la segregazione. In questo contesto di protesta pacifica, i musicisti jazz vennero invitati a prendere posizione. Alcuni lo fecero dedicandosi alla composizione di brani basati sull'improvvisazione libera e senza schemi formali: era nato il free jazz. Era un genere di rottura, che non nascondeva i suoi intenti sociopolitici. Tanto che molti esponenti neri del mondo musicale preferivano definirlo free music o black music rifiutando una parola, jazz, che puzzava di discriminazione. I tumultuosi anni Sessanta, con l'affermazione della Nuova sinistra americana, la fioritura della controcultura e le rivolte studentesche, erano la cornice giusta per la rivoluzione nera. Nel 1960, quattro studenti universitari di Greensboro (North Carolina) si accomodarono al bar nel posto riservato ai bianchi senza muoversi da l�. La popolazione di colore cominci� a mobilitarsi e le rimostranze dei sit-in movement iniziarono a proliferare. Nello stesso anno i due musicisti Max Roach e Abbey Lincoln, pubblicarono il loro disco-manifesto We Insist! Freedom Now Suite, sulla cui copertina un gruppo di uomini bianchi e neri, seduti al bancone di un bar, rivolgevano uno sguardo di sfida allo spettatore. Infine, nel 1965, lunghe marce di protesta si snodarono da Selma a Montgomery, lungo le strade di Washington, attraverso lo Stato del Mississippi e nelle vie di Detroit e Chicago. Diecimila persone, tra le quali anche molti musicisti impegnati, animate dallo stesso spirito di rivendicazione e unite dalla melodia di We Shall Overcome (in italiano, �noi trionferemo�), un gospel del 1903 che divenne un inno alla libert� e, soprattutto, alla parit�. La canzone, come ricord� Martin Luther King, affondava le sue radici negli spirituals e rimandava all'antico canto degli schiavi: ed � cos� che divenne la Marsigliese della rivoluzione nera. Il cammino verso la piena libert� era ancora lungo e tortuoso ma, come nel passato, la musica ne avrebbe accompagnato i protagonisti.