Maggio 2025 n. 5 Anno X Parliamo di... Periodico mensile di approfondimento culturale Direzione redazione amministrazione e stampa Biblioteca Italiana per i Ciechi �Regina Margherita� Onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Casella postale 285 tel. 039/28.32.71 fax 039/83.32.64 e-mail: bic@bibciechi.it web: www.bibliotecaciechi.it Registraz. n. 19 del 14-10-2015 Dir. resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Pietro Piscitelli Massimiliano Cattani Luigia Ricciardone Copia in omaggio Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero della Cultura Indice Concezione della pena e ideologiche della giustizia Zelda Fitzgerald: bella, �scandalosa� e celebrata, ma anche fragile e incompresa Cos� mangiavamo: la cucina autarchica, l'ammasso e le ricette dei nonni al tempo di guerra Concezione della pena e ideologiche della giustizia (di Carlo Alberto Romano e Luisa Ravagnani �Prometeo� n. 166/24) - Quella italiana � una delle legislazioni pi� avanzate perch� si incardina sull'idea di riabilitazione. Tuttavia, una certa demagogia securitaria ha reso difficile l'attuazione dei migliori percorsi per �rieducare� chi � stato condannato. - Nel secondo atto, scena diciottesima del Don Giovanni di Mozart, Lorenzo da Ponte fa pronunciare a Donn'Anna, duplice vittima del malaffare del dissoluto protagonista, in quanto figlia del Commendatore ucciso in duello e lei stessa oggetto di violenza da parte dello stesso, una frase di straordinario valore. Accanto a Donna Elvira, Zerlina, Don Ottavio e Masetto che cercano il perfido per sfogare il loro sdegno, nel frattempo resi edotti da Leporello della caduta di Don Giovanni nella perdizione eterna, simbolicamente trascinatovi dal revenant Commendatore, Ella dice chiaramente che �solo mirandolo stretto in catene, alle mie pene calma dar�. L'intelligente lettura dapontiana coglie in pieno il significato del castigo che il senso comune tende, da sempre, a privilegiare. Donna Anna, infatti, ferita dal male sub�to, non vuole sentire parlare di pene simboliche e conclamate attribuzioni di responsabilit�: ella vuol vederlo in catene. L'opera d'arte, la musica e la letteratura, quindi, fissano il principio retributivo in un archetipo della cultura occidentale, pi� o meno negli stessi anni in cui il pensiero Beccariano andava convincendo sovrani e sudditi (fra questi ultimi i pochi in grado di acquisirlo e capirlo) dell'utilit� di sostituire i castighi corporali e perfino quello capitale con pene codificate, proporzionate al fatto commesso e, nella loro immediatezza esecutiva, capaci di fungere da deterrente. Un secolo dopo (la prima del Don Giovanni � del 1787), Van Gogh, in un dipinto del 1890, rinforzer� nell'immaginario collettivo la forma che le catene evocate da Donna Anna dovrebbero avere. Il genio dell'artista far� il resto, infliggendo agli anonimi (con)dannati una precisa volont� vendicativa cui solo l'uomo pi� vicino allo sguardo dell'osservatore sembra voler sfuggire, mediante l'instaurazione di una relazione dialogica il cui fine si annida nel reciproco e costante interrogativo sul senso della pena. Un altro genio, quello di Kubrik, in piena retorica post sessantottesca, mentre trasforma in un capolavoro cinematografico l'inquietante testo di Burgess, riprender� questa immagine, in una colta e silenziosa citazione del quadro, cristallizzando l'idea della catena cui � destinato chi commette il male e al contempo interrogandosi sulla opportunit� di sostituirla con strumenti trattamentali fors'anche pi� efficaci ma, certo, non meno opprimenti. Tutto questo ci dice che, da sempre, quando si affronta il tema dei comportamenti criminali e degli strumenti pi� adatti per contrastarlo il senso comune tende a interrogarsi su quali siano gli strumenti in grado di ridurre il rischio di recidiva, ma che nell'animo umano alberga indisturbata l'idea che un po' di male, a chi lo ha commesso, si debba restituire. I passi in avanti compiuti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e, per quanto ci riguarda, dalla costituzione repubblicana, laddove viene affermato l'insindacabile obiettivo riabilitativo della pena, in qualche modo metteranno in discussione la primazia del principio retributivo, senza emarginarlo e, anzi, producendo una situazione di forte ambiguit� nella definizione del concetto stesso di riabilitazione. Il termine riabilitazione e il contenuto che dovrebbe avere non sono facilmente sintetizzabili. Nel panorama italiano l'idea di riabilitazione, ricavata dall'art. 27 c. 3 della Costituzione, pu� essere collegata solo alla cosiddetta �rieducazione�, concetto sul quale la volont� di vendetta sembra spesso prevalere mediante l'adozione di sanzioni severe ed esemplari, non sempre giustificate da una oggettiva lettura del fenomeno criminale. L'art. 27 della Costituzione recita che �Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanit� e devono tendere alla rieducazione del condannato�; a fianco di questa norma si pone il c�d� Ordinamento penitenziario ed il Regolamento di esecuzione, che regolano la vita all'interno degli istituti di pena e il trattamento rieducativo. Il concetto di �rieducazione�, desumibile dalla normativa attualmente vigente, comprende quello di rielaborazione del reato da parte del reo, di riflessione sulla propria condotta criminale e di conseguente impegno per la riparazione al danno provocato in seno alla societ� e alla vittima. A questo fine, strumento imprescindibile sono state le misure alternative alla detenzione (affidamento in prova al servizio sociale, semilibert� per citare le pi� note) che hanno dato l'opportunit� all'autore del reato di reinserirsi gradualmente nel mondo esterno e di ritrovare una collocazione nella societ� in cui - non dimentichiamolo - prima o poi dovr� tornare a vivere. Ciononostante il sistema penitenziario sembra possieda una spiccata preferenza per fornire risposte in termini retributivi e molto meno in termini riabilitativi. Infatti la disciplina in materia di esecuzione penale pur essendo apprezzabile, al momento non sembra saper attuare pienamente il dettato costituzionale e l'obiettivo in esso sancito. Molte norme restano completamente disattese, basti pensare alla disciplina delle celle che recita �i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente (...), aerati, riscaldati (...) e detti locali devono essere tenuti in buono stato di conservazione e di pulizia�. L�attuale situazione di sovraffollamento rende difficoltosa la convivenza tra persone detenute e in queste condizioni � veramente difficile pensare alla possibile rieducazione; sembra invece imporsi una pena aggiuntiva alla privazione della libert� che, a carcerazione ultimata, lascia negli autori di reato un astio e senso di frustrazione che, senza dubbio, aumentano il rischio di recidiva. Parlare di sovraffollamento significa evocare una situazione che avrebbe dovuto rappresentare un'anomalia, un'emergenza, in una condizione strutturale del sistema penitenziario italiano e che invece, se si eccettua la breve parentesi del Covid-19 durante la quale attraverso l'applicazione di norme emergenziali, il numero dei detenuti era sceso quasi ai livelli post indulto e post sentenza Torreggiani, costituisce la regola. Del resto il fatto stesso che si accetti di utilizzare un termine - sovraffollamento - che di per s� descrive un'assuefazione alla condizione precedente (quella dell'affollamento che, come tale, non avrebbe dovuto essere mai considerata come accettabile) la dice lunga sull'interesse reale alla risoluzione del problema. Il nostro sistema penitenziario ha superato la quota di 60-mila detenuti, avvicinando sempre pi� il numero di presenze che aveva determinato le condanne della Corte europea dei diritti umani. Se si considera poi l'occupancy level del nostro sistema penitenziario si scopre che, sulla dichiarata disponibilit� di posti dei 189 istituti, l'utilizzo raggiunge il 119,3% (World Prison Brief, dati al 31 marzo 2024). Sappiamo da tempo che il carcere rappresenta un mondo di elevata sofferenza fisica e psicologica, inserita in un contesto di profondo isolamento strutturale e personale che si evidenzia in maniera netta quando si comparano i dati legati agli eventi critici con quelli relativi ai medesimi accadimenti nel mondo libero. Come forse ormai noto, il tasso di suicidi all'esterno del carcere � pari a 0,67 ogni 10-mila abitanti (OMS - Suicide Worldwide, 2019) mentre, se si considera l'ambiente suicidario, si sale immediatamente a 10,6 morti ogni 20-mila detenuti: in carcere ci si toglie la vita 16 volte in pi� rispetto alla societ� esterna. Dal 2000 ad oggi si sono tolte la vita in carcere in Italia 1718 persone e ogni anno si registrano pi� di mille atti autolesivi. L'et� media delle persone che si tolgono la vita � di 37 anni, il rischio maggiore si registra nella fascia 30-39 anni, seguita dalla fascia 20-29 anni (Dossier Morire di Carcere). Che in carcere si sia registrata negli ultimi anni un'impennata di casi di patologie legate alla salute mentale � consapevolezza ampiamente diffusa fra gli operatori penitenziari che denunciano come siano numerosissime le difficolt� di presa in carico di soggetti con disturbi di questo tipo, anche a fronte della cronica carenza di personale sanitario indispensabile per la gestione di percorsi terapeutici. Inoltre, spesso, vi sono situazioni nelle quali il disagio di tipo psichico, pur non essendo formalmente definito, esiste ed � riconducibile a una serie di fattori esogeni ed endogeni di indubbio rilievo. Nel caso di persone straniere, inoltre, la scarsissima disponibilit� di progetti di presa in carico che tengano conto del contesto culturale di provenienza e, di conseguenza, la scarsa o inesistente presenza di operatori formati ad hoc, rischia di lasciare scoperti punti nevralgici della presa in carico di tali soggetti. Infine come tacere del fatto che la non infrequente carenza di valide proposte trattamentali aumenta il rischio di recidiva perch� consegna le persone in uscita dal carcere alle medesime situazioni nelle quali si era generato il ricorso al reato. Il dibattito criminologico, strettamente legato al tema di un trattamento che funzioni realmente dal punto di vista riabilitativo, si radica pertanto su queste situazioni oggettive. Se vogliamo che il trattamento in carcere funzioni davvero dobbiamo interrogarci sulle soluzioni che siano in grado di recuperare lo spirito, e talvolta la lettera, della riforma penitenziaria e quindi del dettato costituzionale. Interrogarsi sul senso del trattamento presuppone tuttavia una duplicit� di risposte: alcune teoriche, che lascerei ad altra sede e momento, e altre di segno pi� concreto. La reazione sociale al crimine � il vero ostacolo al perseguimento degli obiettivi riabilitativi sia da un punto di vista normativo sia realizzativo. Ma questo non pu� essere solo un limite. La consapevolezza delle difficolt�, il fatto che il carcere abbia un ruolo cos� univoco dal punto di vista della percezione sociale della sanzione da applicarsi al reato, certamente ci sconforta, ma credo che debba essere un ulteriore stimolo per dirci che la comunit� deve reagire. Il punto �: siamo davvero in grado di reagire e di dire qualcosa su questi argomenti? Se un apparato mediatico ci parla del carcere nei modi di cui siamo stati testimoni e che sono comunque conseguenti a un modello di pensiero, dominante, se la diffusa valutazione dei percorsi riabilitativi ci dice che la gente � frastornata, con una tendenza accentuata al buttare via le chiavi, credo che nella comunit� corra l'obbligo di invertire la rotta. Altrimenti rischiamo di perdere l'occasione che si � creata il primo gennaio del 1948, quando � stata promulgata la Costituzione e in essa si � detto che il fine della pena � il recupero della persona condannata. � da allora che stiamo perdendo l'occasione. Ed � da l� che dobbiamo ricominciare con uno sforzo collettivo che coinvolga la comunit� esterna nella gestione dell'esecuzione penale, e non solo come luogo di svolgimento delle misure alternative alla detenzione, ma con un ruolo attivo, convinto. La comunit� pu� infatti farsi parte attrice nell'attuare una cultura della pena che non ritenga pi� la componente afflittiva della pena imprescindibile e comunque tale da esaurire il mandato sanzionatorio (che, ricordiamolo, dovrebbe limitarsi alla privazione della libert�, e per certe condizioni, alla limitazione delle comunicazioni con l'esterno, il resto � aggiuntivo). La strada da percorrere crediamo risieda nella volont� di offrire le medesime opportunit� a chi si trova in esecuzione penale, interna o esterna non importa, rispetto a chi non lo �. Non si ricostruisce la frattura sociale del reato con l'inasprimento sanzionatorio, di cui fra l'altro, � tutto da stabilire il benefico apporto, ma si ricostruisce offrendo opportunit� concrete di cambiamento alla persona, passando innanzitutto attraverso la ricostruzione delle relazioni che il reato ha reciso o indebolito. Pensiamo che la comunit�, superando l'ottica della delega �in bianco� al sistema penitenziario, che tra l'altro ha dimostrato di non saperla gestire adeguatamente, abbia potenzialit� e risorse per farlo. Occorre per� che la comunit� si mobiliti. Occorre potenziare l'ingresso della cultura in carcere, attraverso le esperienze teatrali, le esperienze d'educazione musicale, le esperienze d'integrazione con la scuola, portando la scuola in carcere, e portando il carcere fuori, nella scuola. Il contatto con la scuola � indispensabile per far capire che cosa sia il carcere, e che cosa sia l'esecuzione della pena a chi sul punto non ha idee chiare o non ne ha proprio. E parimenti lo studio per chi � in carcere, � fondamentale, e deve comprendere ogni livello di offerta didattica esperibile, dalla scuola dell'obbligo, alla formazione universitaria. Occorre aumentare le convenzioni in essere con le universit�, fondamentali per poter permettere ai detenuti che ne abbiano il titolo di accedere agli studi universitari. Da questo punto di vista non possiamo non menzionare il meritorio impegno della CNUPP (Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli e la formazione universitaria in ambito penitenziario) che rappresenta il luogo di azione e confronto tra le Universit� impegnate a garantire il diritto allo studio universitario alle persone detenute o sottoposte a misure di privazione della libert� personale o in esecuzione penale esterna. Un impegno che vede attualmente 44 Atenei coinvolti, con attivit� didattiche e formative in quasi 100 Istituti penitenziari e circa 1.600 studenti iscritti a molti e diversi Corsi di laurea. La Conferenza, fin dalla sua costituzione, svolge attivit� di promozione, riflessione e indirizzo - tramite il Ministero dell'Universit� e la CRUI - del sistema universitario nazionale e dei singoli Atenei in merito alla garanzia del diritto allo studio per chi si trovi in tali condizioni, sostenendo gli impegni dei propri docenti e delle proprie strutture per renderlo effettivo. Al tempo stesso, la Conferenza ha sviluppato, in questi anni, un proficuo confronto con il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e con il Dipartimento della Giustizia minorile e di Comunit�. I principali esiti di questo confronto hanno consentito la firma, nel settembre del 2019, di un Protocollo di intesa e, nell'ottobre del 2021, la formulazione congiunta e sottoscrizione delle Linee guida sui percorsi di studio universitario delle persone in esecuzione pena, finalizzate a orientare al meglio le strutture periferiche dell'Amministrazione nella collaborazione con le singole Universit� nella definizione delle condizioni che, all'interno degli Istituti Penitenziari e pi� in generale per le persone in situazioni di limitazione della libert� personale, rendano fruibile il diritto allo studio in maniera omogenea e per tutti coloro che intendano esercitarlo. Tuttavia, oltre a fare entrar le universit� in carcere, occorre che gli studenti e le studenti iscritti e iscritte possano usufruire appieno dell'offerta didattica, comprensiva di quelle proposte extracurricolari alle quali gli e le studenti in carcere non sempre sono ammessi, a causa del loro stato detentivo; perch� altrimenti si continuano a redigere relazioni incoraggianti, a scrivere articoli, nei quali troviamo delle indicazioni teoriche del tutto condivisibili, che nella realt� si scontrano, soccombendo, con gli ostacoli delle procedure quotidiane, con i regolamenti eterogenei, con le diverse sensibilit� dei Direttori. Se la formazione (a tutti i livelli) entra in carcere ci guadagnano sia la formazione sia il carcere. Un altro punto su cui si dovr� lavorare riguarda la gestione dell'affettivit�, un concetto complessivo che comprenda almeno due aspetti, la tutela della relazione affettiva in genere (e della genitorialit� in particolare), e la tutela (o il consenso all'esercizio) della sessualit�. Con la recente sentenza n. 10/2024 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimit� del divieto assoluto di colloqui intimi tra detenuti e familiari, affermando finalmente il diritto all'affettivit� e alla sessualit� in carcere confermando quanto gi� disposto con la sentenza n. 301/2012. La Corte, in buona sostanza, ha reso possibile l'accesso a colloqui riservati sottraendoli al controllo visivo della polizia penitenziaria, mediante la dichiarazione di illegittimit� dell'art� 18 della legge n. 354/1975 (ordinamento penitenziario) e disponendo che la situazione di richiesta intimit� venga valutata dall'amministrazione penitenziaria, e in caso di diniego sottoponendo la questione al magistrato di sorveglianza. La Corte ha inteso quindi garantire l'effettivit� dell'esercizio del diritto di affettivit�. Ovviamente ci� pu� avvenire solo con la collaborazione di tutte le parti interessate, dall'amministrazione penitenziaria, alla magistratura di sorveglianza utilizzando criteri di corretta ed equilibrata attuazione del principio. La reazione dei sindacati di polizia penitenziaria (o almeno di alcuni di essi) � stata veemente, decisamente orientata a esprimere contrariet� a ogni passaggio collaborativo sul punto e la principale fra le argomentazioni utilizzate per giustificare tale contrariet� � stata rinvenuta nella sostanziale impossibilit� concreta di trovare soluzioni che consentano un esercizio �pieno� dell'affettivit� in carcere. Evidentemente non la pensano cos� in Svizzera, come dimostra l'esempio del penitenziario �la Stampa� di Lugano, a 50 km da Milano, dove pur all'interno di una cornice normativa non particolarmente �permissiva�, sono riusciti, peraltro gi� da vent'anni, a organizzare una struttura che consente incontri affettivi con i propri cari e, per chi lo desideri, di poter esercitare anche il proprio diritto a una vita relazionale comprendente la sessualit�, in condizioni di assoluta sicurezza e con la dovuta tutela della privacy. Quanto � necessario che il senso comune sia perlomeno non ostativo per ideare e realizzare una soluzione di questo genere? Fondamentale diremmo. Inutile poi richiamare l'indispensabilit� di reperire opportunit� di lavoro, nei percorsi di esecuzione della pena, sia interni sia esterni: meglio ricordare come l'intervento del territorio in questo campo sia assolutamente essenziale. � impossibile pensare di relegare il problema al mero impegno degli enti locali, tra l'altro non sempre cos� assiduo. Occorre una proposta costante da parte della comunit�, di collegamenti, di sinergie e di coinvolgimenti con le associazioni di categoria. Se servisse, e sappiamo quanto serva, bisogna andare a tirare la giacca alle associazioni industriali e a quelle della piccola e media impresa. Certo � faticoso, per� � un percorso senza il quale non disponiamo di concretezze di cui discutere. E come tralasciare il tema dell'housing, un problema enorme da gestire nel quale la comunit� e il sistema penale esterno debbono dire la loro, e lo possono fare avviando la gestione di progetti in sinergia con le istituzioni. Lavorare isolati � del tutto controproducente. L'utilizzo di un progetto congiunto di housing permette, invece, di contaminare positivamente con questo approccio anche altri progetti, quelli relativi al lavoro, quelli relativi alla tutela dell'affettivit� e all'avvio di percorsi formativi. Il coinvolgimento del territorio, dell'associazionismo e delle istituzioni credo sia la strategia preferibile anche per la risoluzione dei molteplici problemi che riguardano gli immigrati, in genere, e quelli in carcere, nello specifico. Possiamo parlare finch� vogliamo di nuove concezioni della pena, ma � necessario trovare dei punti di partenza da cui avviare in concreto questi percorsi. Ci rendiamo conto che abbiamo sempre necessit� di confrontarci sui significati, sui contenuti e sui sistemi di esecuzione della pena, ma abbiamo anche bisogno di cose concrete. Perch� qualcuno dovr� pur comprendere che immaginare nuove ideologie di giustizia significa soprattutto immaginare un modo per avvicinare l'esecuzione della pena alla comunit�, per superare l'ottica della risposta vendicativa, per rompere quel conflitto arcaico, impermeabile e tendenzialmente insanabile che riprende vigore ogni qualvolta viene compiuto un reato. Perch� diciamocelo chiaro. L'idea di essere attrice in un sistema complessivo di gestione della devianza - beninteso non solo in termini di illiceit� penale, nel quale ad ogni partecipante viene richiesto anche un impegno sul fronte del controllo sociale - ha sempre procurato nella comunit� un rifiuto ideologico e operativo. Ma oggi, in questo momento storico, non ci si pu� pi� sottrarre a un'esigenza dirompente nel contesto dei modelli di esecuzione penale occidentali: ridefinire il significato attuale della sanzione penale, e, conseguentemente, di riflettere sui contenuti che gli attori dell'esecuzione penale sono chiamati a esprimere. Delle due l'una. O la comunit� si chiama fuori, splendidamente arroccata nella turris eburnea della polis sovraordinata, e allora non pu� certo lamentarsi se poi viene identificata come un serbatoio di recriminazioni e nulla pi�, oppure entra coscientemente nel processo (in atto, peraltro, indipendentemente da tale scelta) di ridefinizione della esecuzione penale, processo che passa inequivocabilmente dall'individuazione contenutistica del concetto di sicurezza sociale e sicurezza dei consociati. Il mito risocializzativo, nella sua accezione pedagogico-precettiva, ha ormai esaurito il suo percorso ideale; cos� certi aspetti deteriori della punizione, estromessi dal significato odierno di afflittivit� intrinseca alla sanzione penale, sono in febbrile attesa di farvi rientro, pi� o meno formalmente, pi� o meno legittimamente, e alcuni pi� e meno recenti fatti di cronaca ci suggeriscono come non debba mai essere abbassata la guardia dell'attenzione esterna sul modo di esistere delle patrie galere. La sfida odierna si gioca allora sul versante del significato sociale dell'esecuzione penale. Oggi dare un senso alla pena significa riattribuirle un significato funzionale di sistema, esorcizzando la paura di riconoscere, per ci� stesso, la attualit� e la necessariet� della funzione retributiva. Il modello rieducativo, trovandosi abbandonato nel suo letto di contenimento inframurario, non avrebbe energie per dimostrare una qualche utilit� sociale, pu� dispiegare invece la propria funzione attraverso il sistema della giustizia riparativa e quindi attraverso le risorse territoriali. Pensiamo quindi a una concezione della pena dove la risocializzazione non significhi tanto la modificazione delle condizioni criminogenetiche presenti ab origine, o meglio non solo, quanto piuttosto un'offerta di opportunit� alla persona per provare, insieme alla comunit�, a ridefinire i percorsi affermativi dell'identit� affettiva, culturale, professionale e sociale che in precedenza si sono dimostrati inidonei e, vicendevolmente, una proposta alla comunit� di azioni e prestazioni riparatorie affinch� la comunit� stessa possa interpretare nuovi ruoli da protagonista, compresi i compiti di gestione diretta delle esigenze di difesa sociale che la comunit� stessa da sempre chiede con forza e che, se non opportunamente veicolate, rischiano di trasformarsi in mere rivendicazioni penal-populiste. La comunit� deve pertanto farsi soggetto partecipe della gestione della devianza, della riabilitazione e della inclusione sociale della stessa, che non deve pi� essere delegata in toto ma necessita di apporti specifici, ripartiti in molteplici competenze, sia settoriali sia istituzionali. Riteniamo infatti che alla comunit� spetti un compito di riappropriazione dei contenuti della sanzione penale, da tempo, ormai troppo, scaricati nelle mani del sistema istituzionale penale e penitenziario. Le misure di comunit�, la mediazione penale, la tutela delle vittime, l'impegno riparativo, la gestione del caso nella sua complessit� problematica, sono solo alcuni degli strumenti che un'attenta riflessione mette a disposizione per questo gravoso impegno; la loro conoscenza, applicazione e corretta gestione sono un dovere per l'intera comunit�, soprattutto, a mio parere, nelle sue componenti pi� profondamente coinvolte in un disegno riabilitativo della persona esclusa: volontariato, associazionismo e cooperazione sociale, che devono compartecipare alla gestione di piani progettuali concreti e strutturati, possibilmente in un'ottica collaborativa con le istituzioni cui afferiscono quotidianamente. Certo � impensabile che di punto in bianco si possa raggiungere l'obiettivo della gestione integrale della persona, o cosa ancor pi� importante, dell'abbandono di posizioni di ostracismo radicale verso un compito di controllo sociale. Occorre una promozione costante, coerente, paziente e rigorosa, nel senso del rigorismo scientifico, della cultura dell'inclusione. Occorre farsi promotori dell'idea che non pu� essere compito del solo sistema penale farsi carico del problema-sicurezza, ma � compito della intera comunit�, nella consapevolezza che ogni vittima della recidiva � una sconfitta per l'intera comunit� in termini di sicurezza, appunto, ma anche di sperpero di risorse umane e materiali. Perci� la comunit� deve ridisegnarsi un'identit� collettiva, trascinando i decisori politici verso obiettivi di miglioramento della sicurezza attraverso spazi sempre maggiori alla mediazione in ambito penitenziario, spingendo le direzioni per la concessione sempre pi� ampia di ingresso alla comunit� esterna e facilitando l'accesso a scuole, universit� e formazione professionale ai soggetti che transitano nelle proprie strutture. Si badi bene che non tutto questo deve per forza essere affrontato autonomamente e/o esclusivamente con le proprie forze. Coinvolgimento e gestione possono anche significare sinergia fra istituzioni e associazionismo che, dopo aver compiuto un lungo percorso evolutivo, nel quale il tragitto verso la perfettibilit� del sistema appare senza fine, ha imparato a emanciparsi dalla connotazione francamente assistenziale che da sempre lo ha contraddistinto. In questa fase in cui abbiamo ancora necessit� di confrontarci sui significati, sui contenuti e sui sistemi di miglior utilizzo della giustizia riparativa, abbiamo anche bisogno di cose concrete. Perch� se � del tutto condivisibile l'idea che la giustizia riparativa sia un formidabile concetto per avvicinare la comunit� alla gestione del problema recidiva/sicurezza, superando l'ottica della risposta meramente vendicativa che prorompe dal conflitto arcaico, impermeabile e tendenzialmente insanabile che si genera ogni qual volta si compie un reato, � altrettanto vero, almeno a nostro parere, che la implementazione dell'esecuzione della pena, oggi, significa entrare in un progetto condiviso, nel quale ogni operatore sia esso penitenziario o esterno, � chiamato a svolgere la propria parte, possibilmente in una prospettiva di coordinazione e erogazione sinergica delle energie profuse. Per far questo serve una rete operativa, ideologica e pragmatica che non emargini il carcere e anzi lo supporti, permettendogli di interfacciarsi con il mondo comunitario, ivi comprese le realt� non istituzionali, svolgendo una preziosa funzione di ponte fra il rigorismo, spesso asettico, della norma e la partecipe sensibilit� del territorio. L'impegno deve avvenire entro criteri di chiarezza dei propri limiti, di espressa volont� di collaborazione con le istituzioni e di trasparenza e condivisione degli obiettivi sociali, non rifugiandosi, come invece capita spesso, dietro l'alibi delle emergenze. Una pur corretta visione della prospettiva trattamentale del detenuto, modellata sull'inserimento lavorativo, sulla frequenza scolastica e/o universitaria, all'interno di una equilibrata gestione delle esigenze affettive, capace di favorire l'orientamento della persona in esecuzione penale, perde significato e valore, se non costituisce l'elemento prodromico di un percorso inclusivo il cui termine e la cui gestione devono svilupparsi in quel territorio che oggi, pur esigendo la rigorosa valutazione della persona in termini di idoneit� della stessa al suo processo di progressiva diminuzione del rischio di recidiva, costituisce comunque la miglior offerta riabilitativa per la persona, semplicemente sapendo accoglierla. Zelda Fitzgerald: bella, �scandalosa� e celebrata, ma anche fragile e incompresa (di Noemi Milani, Illibraio.it) - La moglie dell�autore del �Grande Gatsby�, icona di stile, spregiudicata, amante della bella vita, ma anche una donna fragile e incompresa dallo stesso marito. - Chi era Zelda Fitzgerald, la moglie spendacciona e scandalosa dell�autore de Il Grande Gatsby? In molti se lo devono essere chiesti e altrettanti hanno cercato di rispondere alla domanda, vista la quantit� di libri scritti sulle abitudini della moglie di Francis Scott Fitzgerald e sul suo stile di vita sempre al limite. Bella, scatenata, viziata fin dalla nascita, avvenuta nel 1900 in Alabama, Zelda Sayre non si � mai preoccupata di salvaguardare la reputazione della famiglia, anzi ha sempre infranto le regole. Di famiglia benestante, da ragazza amava ballare, fare feste, prendere lezioni di danza e nuotare, a quanto pare anche nuda. Spregiudicata e capricciosa, Zelda, nemmeno dopo aver conosciuto Francis Scott Fitzgerald nel 1918, decide di sottostare alle regole: durante i mesi di corteggiamento, svoltosi soprattutto tramite lettere, lei non esita ad assecondare altri spasimanti e corteggiatori. Da questa prima parte della loro relazione lo scrittore trasse ispirazione per Il Grande Gatsby: un giovane soldato che si innamora di una ragazza dell�alta societ�. L�unica differenza � che nella vita reale lo scrittore inizia a raccogliere ben presto successi e i due si sposano alla fine del 1920, dopo la pubblicazione del primo romanzo dell�autore, Di qua dal Paradiso. Cos� inizia la vita sregolata e celebrata della coppia: ubriachezza e comportamenti anticonformisti che li resero ben presto il centro della vita mondana di New York. Vita selvaggia che ispira le opere di Fitzgerald e che accomuna i suoi personaggi femminili alla moglie, sua musa ispiratrice. Anche Zelda inizia a coltivare il suo interesse per la scrittura e recensisce libri, rilascia interviste e, soprattutto, aiuta il marito nella stesura dei romanzi. Al punto che, alcuni biografi, ritengono che alcuni passaggi nelle opere di Fitzgerald derivino da testi scritti dalla moglie, come per esempio alcuni suoi diari. Intanto Zelda diventa un�icona di stile e soprattutto un modello per le donne �moderne�, le Flapper, da noi conosciute come �maschiette�: capelli corti, abiti sopra il ginocchio e nessuna intenzione di sottostare alle regole che impongono alla donna di essere un modello di decenza, subordinazione e modestia. Zelda ama fare festa, bere alcolici, stare sveglia tutta la notte e poi dormire fino al tramonto, ma soprattutto non le interessa �pensare al futuro�, a lei basta il presente, da �vivere fino in fondo�. Una vita da favola, ma anche molto dispendiosa e cos�, per tagliare le spese, la coppia decide di trasferirsi a Parigi, la mecca degli artisti degli anni Venti. E l� inizia il declino della coppia: Zelda ha delle relazioni extraconiugali, la coppia litiga per questioni economiche e non solo. Ma, allo stesso tempo, Fitzgerald sta scrivendo la sua opera massima, Il Grande Gatsby, che lo assorbe interamente e la sua assenza influenza negativamente la moglie, che senza di lui si sente sola e trascurata. Ricomincia a danzare, prende lezioni dalle migliori insegnanti dell�epoca, si dedica al nuoto, ma soprattutto all�alcol. Inizia cos� il declino di Zelda, punteggiato dai ricoveri in ospedale per schizofrenia. Nonostante la malattia, Zelda scrive il suo unico romanzo, Lasciami l�ultimo valzer, un�opera in parte autobiografica su un matrimonio fallimentare, aspramente criticata dallo stesso Fitzgerald. Il romanzo racconta di una coppia simile a quella composta da Zelda e Francis, due personalit� fuori dagli schemi, in cui per� il marito, anche grazie al successo delle sue opere, ha soffocato la vena vitale della moglie. La coppia si incontra per l�ultima volta nel 1938, in occasione di una vacanza a Cuba. Zelda � ormai distrutta dalla malattia mentale, il marito non riesce a ripetere il successo raggiunto con Il grande Gatsby. Due anni dopo lo scrittore muore per arresto cardiaco, nel 1948 si spegne anche Zelda. Le loro vicende per� restano nelle pagine dei romanzi di Fitzgerald e ancora oggi la figura di Zelda viene ricordata da libri, tra cui il recente graphic novel Super Zelda, ma non solo. Nel 2015 � stata dedicata una serie tv alla vita turbolenta della donna, Z: The Beginning of Everything con Christina Ricci. E nel 2017 le sono stati dedicati due film: Zelda, diretto da Ron Howard con Jennifer Lawrence nel ruolo principale e The Beautiful and the Damned per la regia di John Curran, interpretato da Scarlett Johansson. E Francis? Francis Scott Fitzgerald nasce a Saint Paul il 24 settembre 1896. � uno dei pi� noti scrittori e sceneggiatori statunitensi, considerato fra i maggiori autori dell�Et� del jazz e dei cosiddetti �ruggenti anni Venti�. Diventa famoso a livello globale gi� dalla sua prima opera, pubblicata nel 1920 e tradotta in italiano nel 1952 (dopo la sua morte): Di qua dal Paradiso, apprezzata soprattutto dai giovani della generazione che G. Stein aveva chiamato �della giovent� perduta�, gli stessi infatti vi si riconoscono e Fitzgerald diventa il loro idolo. L�autore si ritrova improvvisamente ad essere ricco e famoso, parecchio lodato, ma anche discusso e criticato. Tante le riviste che pubblicano i suoi racconti, tra i pi� richiesti dell�epoca. Sposa la bellissima Zelda Sayre, che diventa l�eroina dei suoi racconti. Si trasferisce in Francia con la moglie, frequentando la mondanit� di Parigi e della Costa Azzurra e gli ambienti letterari della capitale europea. La coppia rientra alcuni anni dopo in America, precisamente a Long Island, sperperando denaro a pi� non posso, organizzando feste sfarzose con decine di invitati; periodo e abitudini ben descritti nell�opera dell�autore, una delle pi� famose, Il Grande Gatzby. Fitzgerald inizia poi un duro periodo di difficolt�, che corrisponde con la profonda crisi del 1929; l�autore continua a scrivere e lavorare al romanzo Tenera � la notte. La moglie Zelda per� inizia ad avere i primi sintomi di un difficile squilibrio psichico, nel 1934 viene ricoverata in una clinica per malattie mentali, dove muore nel 1948. Nello stesso momento, inoltre, il pubblico inizia progressivamente a disinteressarsi al lavoro dello scrittore, che entra in crisi e crolla nella dipendenza dall�alcool. La rivista Esquire pubblica nel 1936 l�opera Il crollo. L�anno successivo Francis Scott Fitzgerald si ritira a vita privata a Hollywood, passando gli ultimi anni della sua vita a scrivere copioni per pellicole cinematografiche, senza ottenere in realt� un grande successo, e nemmeno un�ottima paga. Muore a Los Angeles il 21 dicembre 1940 per un attacco di cuore; la sua opera Gli ultimi fuochi resta incompiuta. Dopo la sua scomparsa sono stati pubblicati alcuni suoi racconti inediti, la sua corrispondenza e i suoi taccuini. Cos� mangiavamo: la cucina autarchica, l'ammasso e le ricette dei nonni al tempo di guerra (di Michela Becchi, Gamberorosso.it) - Restrizioni, norme rigide, poco cibo e tanta fame. Ecco cosa accadeva sulla tavola degli italiani in quegli anni. - C'era la carta annonaria, la tessera nominativa per acquistare cibo dai fornitori in giorni prestabiliti, c'erano le norme per il razionamento dei generi alimentari e c'erano ricette povere costruite attorno ai pochi ingredienti a disposizione. � il ritratto della cucina al tempo della Seconda Guerra Mondiale, una tavola fondata sull'autarchia, l'auto sostentamento della nazione, un modello economico iniziato ancora prima della guerra, con l'intensificarsi del regime fascista. Sono i primi anni '30, il tempo della Radiobalilla (430 lire con rate di diciotto mesi), della Fiat 508 e poi, nel '36, della celebre Topolino, sogno di molti italiani. � un tempo in cui la figura della donna assume un ruolo determinante, proprio perch� legato al cibo, oltre che all'immagine della madre prolifica, esempio di italianit�. �A portare i soldi ci pensa il marito, che non svolge alcuna attivit� domestica, getta un'occhiata distratta ai bambini e va sempre accontentato�, si legge ne �Le signore del fascismo� di Marco Innocenti. Sono gli anni della pubblicazione del volume �Per voi massaie d'Italia� di Lidia Morelli, ode al ruolo della donna rurale, definita �reggitoria�, ovvero colei che �regge, governa, dirige, dispone, sa quel che occorre e quanto occorre per mandare avanti la barca�. � alle massaie, infatti, che spetta il compito di organizzare e gestire la cucina al meglio, con quel poco che c'�. Donna Clara (pseudonimo della Morelli) suggerisce quindi di recuperare un concetto di sobriet�, esaltando gli alimenti semplici, primi fra tutti i fagioli (�cibi sanissimi che non possono che farvi bene�), ma anche �i prodotti della stalla, del pollaio o della conigliera�. Le pi� agevolate sono le famiglie di campagna, che possono beneficiare dei prodotti dell'orto e della fattoria, mentre quelle di citt� devono fare affidamento sui fornitori attraverso la tessera annonaria (disponibile in una sola copia da custodire gelosamente: era vietato, infatti, richiederne una seconda). Dall'altro lato, anche la vita dei produttori non � facile. Oltre alla carta, infatti, a partire dai primi anni '40 c'� l'�ammasso�, l'obbligo di consegnare buona parte dei prodotti allo Stato. Grano, avena, vinacce per la distillazione, fave: ogni ingrediente � sottoposto all'ammasso, con una piccola quota di trattenuta per il fabbisogno familiare del fornitore (2 quintali di grano per persona, per esempio). Intanto, le regole per l'acquisto di cibo si fanno sempre pi� ferree: dal 1 dicembre 1941, ci si pu� recare dal macellaio solo il sabato o la domenica mattina, mentre per le frattaglie � fra le pi� consumate per via del prezzo basso � si aspetta il luned�, il marted� o il mercoled�. Una norma applicata poi anche nei ristoranti, che a partire dal 18 gennaio 1941 possono servire carne solo nel fine settimana. Ma i cittadini non demordono ed escogitano soluzioni alternative per conservare qualche alimento. Il malcontento scaturito dall'ammasso, infatti, spinge contadini, pastori e casari a nascondere i prodotti frutto del duro lavoro, come racconta Adelmo Cervi nel suo �Io che conosco il tuo cuore�, ricordando le parole del pap�: �Fratelli contadini! Anche noi abbiamo diritto di vivere, anche noi siamo degli esseri viventi e non bestie come ci tratta e considera l'attuale governo [�]. I prodotti ricavati dalle nostre fatiche non li consegneremo pi� ai ladri degli ammassi, ma li venderemo ai nostri fratelli operai a dei prezzi umani che essi possono pagare�. E tutti quei prodotti preziosi, spiega Bruna Bertolo in �Donne e Cucina in tempo di guerra�, quel grano, �quelle uova, quel burro sarebbero anche serviti a sfamare in seguito i partigiani�. Una resistenza agricola, rurale, culinaria. Proprio come racconta Cervi: �Resistenza fu anche il burro sotto la concimaia�. � in questo tempo che nascono i surrogati, dall'Ovocrema in grado di sostituire 8 rossi d'uovo, al caff� di cicoria, ed � sempre in questi anni che nasce la borsa nera, speculazione sui generi alimentari che scarseggiavano, un mercato illegale per trovare le merci scomparse, iniziato tra il 1941 e il 1942. E le ricette di allora? Assai creative. Una fra queste era la farinata senza ceci. Quella che oggi conosciamo come farinata � una torta salata molto bassa, diffusa soprattutto in Liguria e Toscana, a base di farina di ceci, acqua, sale e olio extravergine di oliva, gi� presente � seppure in versione diversa � al tempo degli antichi romani e greci. La farinata che si preparava ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, invece, era ben diversa e molto pi� essenziale. A raccontare del suo consumo � Roberta Pieraccioli, nel libro �La Resistenza in Cucina�, in cui riporta la ricetta di sua nonna, un piatto �molto economico e capace di riempire bene la pancia�. Una preparazione tramandata di generazione in generazione, fatta con farina gialla e avanzi di pane secco, a meno che la razione di farina di mais prevista dalla tessera non cominciasse a scarseggiare: in quel caso, �si mescolava con le patate lesse schiacciate bene e amalgamate�. Fra i prodotti pi� duramente colpiti dalle norme di razionamento, la carne, riservata a pochi eletti e solo in date prefissate (che non garantivano, comunque, disponibilit� al 100%: accadeva spesso, infatti, che gli stessi fornitori avessero esaurito le scorte). Un po' pi� difficili da reperire in citt�, le uova erano un ottimo sostituto della carne per i contadini. Nasce proprio nelle campagne romane la ricetta della finta trippa, ovvero una frittata tagliata a striscioline e cotta nella passata di pomodoro. Un piatto in voga ancora oggi, condito con una generosa spolverata di pecorino grattugiato, che ricorda la vera trippa romana al sugo sia per la forma che per la consistenza. Fra i tanti ricettari storici del tempo, quello del '39 di Maemi, pseudonimo sotto cui si celava l'autrice di �Novantanove e pi� ricette�, celebre volume con i disegni di Otto Maraini. Nella sezione dolci, spicca la torta di pane, un grande classico della cucina povera, dolce golosissimo nella sua semplicit�, recentemente tornato alla ribalta e rielaborato da cuochi, fornai e pasticceri in diverse varianti. Pane raffermo bagnato nel latte o in acqua, poco zucchero, qualche uovo e per i pi� fortunati anche amaretti, uva passa e cacao: questi gli ingredienti che compongono il dolce saporito, privo di farina � merce rara e costosa � proprio per via della presenza del pane. Tessera annonaria: cos�era? Entrate in uso tra la fine degli anni �30 e gli inizi del �40 del secolo scorso le carte annonarie segnarono la vita degli italiani nei terribili momenti della dittatura fascista e della seconda guerra mondiale, rimanendo in vigore fino al 1949. Si trattava di schede individuali con un certo numero di bollini prestampati che, di volta in volta, venivano utilizzati per l�acquisto del vestiario, per chi poteva permettersi un abito nuovo, e di alimenti di prima necessit�. Chiamate anche tessere della fame in quanto costringevano la popolazione a razionalizzare l�alimentazione quotidiana. A seconda della fascia d�et� il colore della carta cambiava; erano verdi per i bambini fino a otto anni, azzurre dai nove ai diciotto anni e grigie per gli adulti. L�Annona, cos� si chiamava l�ufficio municipale che consegnava le carte, a seconda delle riserve di magazzino, fissava le razioni di cibo che ciascun individuo poteva acquistare dal commerciante presso cui si era iscritti o si avesse fatto preventiva della merce. La �Carta Annonaria Individuale per l�acquisto dello zucchero, dei grassi e del sapone�, consentiva di comprare il sapone da bucato, lo zucchero e i grassi di maiale; con la �Carta Annonaria per il Pane e i Generi da Minestra� si potevano acquistare rispettivamente il pane o la farina, invece il tagliando dei generi da minestra dava diritto all�acquisto di pasta o riso. Ciascuna tessera aveva una validit� prestabilita, in genere quattro mesi, ad esempio da novembre del 1942 a febbraio del 1943. Con l�apposita carta annonaria l�acquirente intestatario, o chi per lui, si presentava nei giorni prestabiliti dal fornitore prescelto e, contrassegnando l�apposita cedola di prenotazione, s�impegnava per l�acquisto dei beni necessari al proprio uso e consumo. Il commerciante che avrebbe fornito i beni da acquistare poneva la propria firma e/o il timbro della sua ditta nell�apposito spazio precedentemente contrassegnato e s�impegnava (si obbliga) a fornire la merce richiesta, quindi ritagliava la cedola di prenotazione che gli sarebbe servita per ritirare la merce all�ingrosso.